È difficile non notare, in Silicon Valley, i segni del divario (meglio dire dell’abisso) tra i poveri e i super-ricchi. In una mattinata normale nel centro di Palo Alto, fulcro del boom della odierna tecnologia, persone apparentemente senza dimora con i loro poveri averi occupano quasi tutte le panchine disponibili. A 20 minuti di distanza, a San Jose, la più grande città della Valle, un accampamento di senzatetto, detto “la giungla”, il più grande nel paese, ha messo le radici lungo un torrente a pochi passi dal quartier generale di Adobe e dal luccicante, ultra-moderno municipio. I senzatetto sono i segni più visibili della povertà nella regione. Ma i numeri supportano le prime impressioni. Il reddito medio nella Silicon Valley ha raggiunto i 94mila dollari nel 2013, di gran lunga al di sopra del valore nazionale di circa 53mila dollari. Tuttavia, si stima che il 31 per cento dei posti di lavoro paghino solo 16 dollari o meno per un’ora, al di sotto di ciò che è necessario per mantenere una famiglia in una zona con abitazioni notoriamente molto costose. Il tasso di povertà nella Contea di Santa Clara, cuore della Silicon Valley, è di circa il 19 per cento, secondo i calcoli che tengono conto dell’alto costo della vita.
Anche alcuni dei maggiori promotori tecnologici della zona sono sconvolti. «Ci sono persone che praticano l’accattonaggio nella University Avenue (la via principale di Palo Alto)», dice uno di loro. «È come quello che si vede in India», ribadisce Vivek Wadhwa, nato a Delhi, un ricercatore nel campo della Corporate Governance presso la Stanford University e presso la Singularity University, una società che si occupa di formazione a Moffett Field, connessa alle élites in Silicon Valley. «Silicon Valley è come uno sguardo al futuro che stiamo creando e ciò che vediamo è davvero inquietante. Molti di quanti si sono arricchiti con il recente boom tecnologico, non sembrano preoccuparsi del “pasticcio” che stanno creando». La ricchezza generata nella Silicon Valley è «prodigiosa come sempre», aggiunge Russell Hancock, presidente di Joint Venture Silicon Valley, un gruppo no-profit che promuove lo sviluppo regionale. «Ma quanto abbiamo utilizzato per realizzare il boom tecnologico, non è servito a “sollevare tutte le barche”. Solo alcune. Non funziona più come un tempo. All’improvviso si vede che la gente è sconvolta». Una reazione inevitabile. La gente prende a sassate gli autobus che trasportano i dipendenti di Google dal posto di lavoro alle loro case a San Francisco.
La rabbia nel nord della California e altrove negli Stati Uniti nasce da una realtà sempre più evidente: i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre molti altri, troppi, stanno lottando per sopravvivere. È difficile non chiedersi se Silicon Valley esemplifichi solo questa disuguaglianza crescente, o se in realtà contribuisca a provocarla, producendo tecnologie digitali che eliminano la necessità di molti posti di lavoro della classe media. Qui la tecnologia probabilmente evolve più velocemente di qualsiasi altra parte del mondo. È corretto pensare che, come sostiene Wadhwa, Silicon Valley lasci presagire davvero un futuro generalizzato, in cui alcune persone molto ricche lasceranno tutti gli altri irrimediabilmente indietro?
Il bisogno di capire se la disuguaglianza cosituisca il risultato preoccupante di un sistema globale sta senza dubbio alla radice del grande successo riscosso quest’anno da Il Capitale, il libro dell’economista francese Thomas Piketty, professore presso la Scuola di Economia di Parigi, che è andato esaurito subito dopo la prima pubblicazione. Con una quantità di equazioni, con riferimenti alla Belle Époque e all’Ancien Régime, con un titolo che si rifà a Karl Marx e alla politica del tardo 19esimo secolo e all’inizio del 20esimo, un volume di oltre 700 pagine sembrava un candidato improbabile per la lettura popolare. Eppure ha rapidamente scalato la classifica dei best-seller questa primavera ed è rimasto al top delle classifiche per mesi.
Gli economisti hanno da tempo avvertito che, sia pure con i salari adeguati all’inflazione, i redditi bassi e medi, negli Stati Uniti, sono rimasti invariati o addirittura calati dalla fine degli anni Settanta, anche se l’economia del Paese è cresciuta. Piketty amplifica questa idea, che documenta l’esplosione della ricchezza dei più ricchi negli Stati Uniti e in Europa, confrontandola con la crescita economica nel corso degli ultimi due secoli. Basandosi su una ricerca condotta con i suoi colleghi Emmanuel Saez, professore presso la University of California, Berkeley, e Anthony Atkinson, economista presso l’Università di Oxford, Piketty ha raccolto e analizzato i dati econometrici, compresi quelli fiscali, per mostrare quanto sia estrema la disparità in ricchezza tra i ricchi e il resto della popolazione e quanto sia andata crescendo. Il divario tra i ricchi e tutti gli altri continua ad aumentare negli Stati Uniti. L’1 per cento della popolazione possiede il 34 per cento della ricchezza; lo 0,1 per cento di questo un per cento ne possiede circa il 15 per cento. La disuguaglianza è solo peggiorata con l’ultima recessione: l’1 per cento ha fatto proprio il 95 per cento di crescita del reddito 2009-2012, se si includono le plusvalenze finaziarie.
Il 10 per cento della popolazione ora detiene il 48 per cento del reddito nazionale, l’1 per cento ne detiene il 20 per cento e lo 0,1 percento ne detiene circa il 9 per cento. La disparità nella porzione di reddito che gli economisti chiamano reddito da lavoro, è particolarmente sconcertante. La disuguaglianza salariale negli Stati Uniti è «probabilmente superiore a qualsiasi altra società in qualsiasi momento nel passato, in qualsiasi parte del mondo», scrive Piketty. Cosa è successo? Piketty ne attribuisce la causa almeno in parte al livello ingiustificatamente elevato degli stipendi di quelli che chiama «supermanagers». Circa il 70 per cento della parte superiore dello 0,1 per cento dei percettori sono, secondo i suoi calcoli, dirigenti aziendali: «La spiegazione comune per la crescente disuguaglianza risiede nella prevalenza della domanda sull’offerta di competenze elevate. Ma non è tutto». Per spiegare la crescente disuguaglianza, soprattutto negli Stati Uniti, bisogna chiamare in causa più di un fattore oltre a quello delle competenze. Piketty indica come fattori importanti il meccanismo dei compensi delle società e la corporate governance: «Al di sopra di un certo livello, è molto difficile trovare nei dati un qualsiasi legame tra retribuzione e performance».
In Gran Bretagna e in Francia l’aumento complessivo della disuguaglianza è meno drammatico, ma in quei paesi qualcos’altro sta accadendo, che potrebbe risultare ancora più preoccupante: la ricchezza accumulata, in gran parte ereditata, sta tornando a livelli relativi mai visti da prima della Prima Guerra Mondiale. In alcuni paesi europei la ricchezza privata è ora circa il 500/600 per cento del reddito nazionale annuo, un livello prossimo a quello dei primi anni del Novecento. A preoccupare particolarmente Piketty è l’effetto a lungo termine di questa concentrazione della ricchezza. Centrale nel suo libro è la semplice considerazione che il rendimento medio sul capitale resta superiore al tasso di crescita economica. Quando il tasso di remunerazione del capitale è superiore al tasso di crescita (come è successo dagli inizi del ventesimo secolo ed è probabile che accada di nuovo quando la crescita rallenta), la ricchezza speculativa dei ricchi cresce più dei salari salari che forse non crescono affatto.
Le implicazioni di tutto ciò dovrebbero preoccupare chi crede in un sistema basato sul merito, evidenziando il rischio di entrare in un’epoca che, come il diciannovesimo secolo in Francia e in Inghilterra, viene socialmente e politicamente dominata chi possiede grandi ricchezze ereditate. Piketty lo descrive come il mondo di Jane Austen, in cui la vita e i destini delle persone sono determinate dalla loro eredità e non dai loro talenti e successi professionali. Come sottolinea Piketty, si tratta di un allontanamento radicale da come in passato è stato pensato il progresso. Dal 1950, l’economia è stata dominata dall’idea – formulata in particolare da Simon Kuznets, economista di Harvard e premio Nobel – che la disuguaglianza diminuisce quando i paesi diventano tecnologicamente più sviluppati perché cresce il numero delle persone in grado di sfruttare le opportunità che ne derivano. Molti di noi continuano a ritenere che i talenti, le competenze, la formazione ci permetteranno di prosperare: è ciò che gli economisti amano chiamare “capitale umano”. Ma la convinzione che «il progresso tecnologico porterà al trionfo del capitale umano sul capitale finanziario e immobiliare, è», scrive Piketty ,«in gran parte illusoria».
Non tutti gli economisti sono così pessimisti. In effetti la crescita economica è stata più alta della redditività finanziaria per larga parte del ventesimo secolo e continua a esserlo. Tuttavia, il libro di Piketty è importante nella misura in cui ha chiarito la portata del problema e i suoi pericoli. Lo ha fatto in un momento in cui si fa più acuta la consapevolezza di come la tecnologia contribuisca alla crescita della ineguaglianza: «Mi sembra che la tecnologia stia accelerando il divario tra ricchi e poveri», dice Steve Jurvetson, un venture capitalist della DFJ Venture a Menlo Park, California. In molte conversazioni con i colleghi addetti ai lavori, la tecnologia si è configurata cone un “elefante” che si aggira in una stanza, sbattendo contro le pareti. Eppure, come suggerisce l’ampia analisi di Piketty, spiegare l’aumento della disuguaglianza non è semplice. In particolare,il ruolo che la tecnologia sta giocando appare complesso e controverso.