Due versioni di Giacomo Leopardi

Due versioni di Giacomo Leopardi

A volte capita di incontrare due volte una stessa persona sconosciuta nell’arco dello stesso giorno, sulla metro, per strada, a un bar poco importa. È una cosa curiosa. Questa settimana a me è successo lo stesso, con l’unica differenza che al posto dello sconosciuto c’era Giacomo Leopardi, e al posto della metro, della strada o del bar, c’erano un cinema e un libro.

Il film — di cui certamente avrete già sentito parlare — è Il giovane favoloso, del regista Mario Martone; il libro — di cui forse non avete ancora sentito parlare — è Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, del linguista Giuseppe Antonelli. Due prodotti culturali che mi hanno lasciato due sensazioni diametralmente opposte. Cercare di descriverle è lo scopo di questo articolo.

Cominciamo dal primo, in ordine di apparizione (almeno nella mia vita), ovvero Il giovane favoloso, un film che è riuscito a darmi la massima delusione che un film — oltretutto un film su un personaggio come Leopardi, che amo visceralmente — mi può dare: mi ha lasciato indifferente, esattamente come mi aveva trovato.

Al di là del fatto che un film su Leopardi, in un mondo giusto, NON mi può lasciare indifferente, sono rimasto perplesso soprattutto da un altro fattore, ovvero che sulla stampa il film di Martone era stato recensito come se fosse tutto un altro film, o meglio, il suo contrario:

«Finalmente lontano 
dai luoghi comuni sulla bruttezza e l’infelicità» – Roberto Saviano, L’espresso

«spazza via la polvere, le calcificazioni, le sovrastrutture scolastiche, la ignorantissima normalizzazione ex cathedra» – Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano

«Una soluzione suggestiva e romantica, che permette di squarciare il velo che separa il Leopardi poeta da Giacomo, l’uomo solo e incompreso» – Valentina Ariete, XL

«bellissimo, educativo, ma non scolastico» – Maurizio Porro, Corriere della Sera

«Un film erudito sulla sensibilità postmoderna che ha collocato Leopardi fuori del suo tempo» – Paola Casella, MyMovies.it

Insomma, praticamente tutti i recensori dei più importanti quotidiani italiani sembrano essere d’accordo sul fatto che il film di Martone sia bello perché sfugge dalla didascalia, dal compitino scolastico, perché reinterpreta Leopardi come nostro contemporaneo e sfugge ai cliché del gobbo, sfigato, infelice e praticamente autistico che la storia della letteratura e la scuola — stracolpevole, secondo tutti, nell’impagliare il grande Giacomino — ci aveva consegnato.

Forse mi sbaglio, ma seduto sulla mia poltroncina all’Anteo di Milano io ho visto un personaggio che si muoveva zoppicante sullo schermo, un personaggio supergobbo e supersfigato, praticamente autistico e decisamente infelice. L’ho visto coi miei occhi alzarsi e abbassarsi davanti a una siepe per suggerire l’ispirazione dell’Infinito, struggersi davanti alla finestra per Silvia — che intanto cominciava a tossire per suggerire la tisi e la morte imminente — inoltrarsi vergine e ingenuo in un bordello napoletano, trangugiarsi un gelato via l’altro.

Ho visto un Leopardi che, al netto di un incontro con una puttana ermafrodita, assomigliava tantissimo a quello che mi descriveva la mia professoressa di italiano del Liceo: un Leopardi disumano, un metasfigato che mi annoiava a tal punto da nascondere dentro il libro di testo mediocri romanzi di avventura à la Wilbur Smith.

Insomma, come ha scritto perfettamente Luca Illetterati nella sua recensione pubblicata sul sito Le Parole e le Cose, questo di Martone è effettivamente un film «didascalico e a tratti davvero scolastico. Un film che non aggiunge nulla a quanto è noto, che non consente nemmeno di arrabbiarsi o compiacersi per una qualche scelta interpretativa controversa». Un film che, chiude nel finale Illetterati citando la frase di una antipatica signora che aveva di fianco al cinema: «piacerà moltissimo alle professoresse democratiche».

Un gran paradosso, quest’ultimo, soprattutto visto che le sopracitate “professoresse democratiche” sembrano proprio le benpensanti e positiviste signore piccolo borghesi — che Leopardi avrebbe odiato — che ci hanno insegnato Leopardi senza essere in grado di farci apprezzare la sua genialità assoluta, quelle che perdevano tempo a cercare di incasellare l’incasellabile Giacomino in una tassonomia che proprio la sua genialità, già ai suoi tempi, aveva dimostrato essere l’ultima delle cose importanti della vita, come sempre.

A legare al film il saggio di Antonelli, intitolato Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, ci sono proprio quelle “professoresse democratiche” già citate. Con la sola differenza che, se il film di Matrone piacerà loro tantissimo, questo saggio di Antonelli farà loro venire il capogiro.

Il motivo è molto semplice: Antonelli prende in mano l’argomento più noioso della storia degli argomenti noiosi del liceo — la grammatica della lingua italiana — e, in modo semplice, colto e divertente fa appassionare i lettore alle sue sorti, riuscendo anche a disinnescare il più grande mito che avvolge l’italiano, quello che lo vede sempre in fin di vita.

Il congiuntivo è morto, il punto e virgola è morto e anche l’italiano — vorrebbero farci credere — non si sente troppo bene. Continuano a ripeterci che si sta corrompendo, contaminato dall’inglese e minacciato da Internet e dai messaggini. Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero così?

La retorica della domanda non è certo nascosta e non credo di rovinare la sorpresa a nessuno se vi rivelo che la risposta è negativa. No, l’italiano è in grande forma, e come tutte le lingue della storia, in quanto lingua viva e vegeta, si evolve, si trasforma e si diversifica a seconda degli usi e dei contesti in cui è usata. Si arricchisce di parole straniere, con loro si meticcia creando neologismi, e, come sempre, si sporca con i linguaggi della strada, perché Leopardi — ovvero la personalità culturale italiana più geniale e importante degli ultimi secoli — diceva delle gran parolacce.

E non solo, lontano anni luce dal gobbo rinchiuso a studiare lingue morte di cui ci raccontavano le democratiche professoresse della nostra adolescenza, Giacomino era in grado di vedere talmente in là da prefigurarsi l’avvento delle emoticon:

Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee.

Chioso e concludo: ho sempre pensato che ci siano due modi di descrivere il mondo. Il primo modo è quello dell’entomologo, che inseguendo il massimo realismo per la propria descrizione del mondo, colleziona insetti morti infilzati in teche trasparenti, non facendo altro che catalogare il mondo con il mondo stesso, e finendo per ucciderlo.

Il secondo modo è quello dell’artista, che, forse intuendo l’impossibilità del realismo assoluto di una qualsiasi descrizione del mondo — ceci n’est pas une pipe, una rappresentazione non è la realtà — decide di catalogare il mondo con la rappresentazione del mondo, ovvero con la propria arte, dandogli vita, portandolo avanti un passo.

Sia Leopardi che la lingua italiana, in qualche modo, sono il mondo. E se Martone, da artista, fa l’entomologo e ci annoia, Antonelli, da scienziato della lingua, fa l’artista, e ci diverte.

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