SIERRA LEONE – Da quando, nei primi mesi dell’anno, il virus Ebola ha fatto la sua comparsa nella regione dell’Africa occidentale, 4.500 sono stati i decessi registrati e 9.000 il numero totale dei casi (confermati, probabili e sospetti) secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Dalla Guinea, dove l’epidemia è stata confermata per la prima volta il 22 marzo 2014, il virus si è rapidamente diffuso in Liberia, Sierra Leone e, con un’estensione contenuta, in Nigeria e Senegal. Travalicando il continente Africano, Ebola è persino arrivata negli Stati Uniti, Spagna e Germania anche se con una trasmissione localizzata e casi sporadici.
L’Ebola è apparso per la prima volta nel 1976 simultaneamente a Nzara, in Sud Sudan, e a Yambuku, nella Repubblica Democratica del Congo. L’ultimo caso di quell’anno venne registrato in un villaggio vicino al fiume Ebola, da cui la malattia ha preso il nome. L’Ebola è un’infezione virale ad altissima letalità ed estremamente contagiosa. Può uccidere fino al 90% delle persone che lo contraggono. Il serbatoio naturale del virus Ebola resta ancora sconosciuto ma sembrerebbe essere un tipo di pipistrello o altri animali che vivono nella foresta. Non accade spesso che le persone contraggano il virus dal contatto con animali infetti ma una volta contagiate, si ammalano gravemente e possono trasmettere l’infezione ad altri esseri umani. Ci sono cinque ceppi diversi del virus Ebola: Bundibugyo, Ivory Coast, Reston, Sudan e Zaire, così chiamati a seconda del rispettivo luogo di origine. Quattro di questi cinque ceppi causano la malattia negli esseri umani. Il sottotipo Reston, invece, non è patogeno per l’uomo.
La portata attuale dell’epidemia non ha precedenti in termini di aree geografiche coinvolte, casi registrati e tasso di mortalità. E’ la prima epidemia di Ebola che coinvolge simultaneamente diversi Paesi, che colpisce i contesti urbani e che conta un numero di casi e di morti 3 volte superiore a quelli notificati globalmente nelle diverse epidemie riportate dal 1976 ad oggi. Il numero dei contagi continua ad aumentare esponenzialmente rendendo ancora più complicata la ricostruzione dei contatti, e quello che all’inizio sembrava un problema locale si è trasformato in una crisi umanitaria internazionale. La magnitudine della crisi non tocca solamente il settore sanitario ma coinvolge le fondamenta stesse delle società minandole profondamente. Medici Senza Frontiere (MSF), presente sia nei tre paesi maggiormente colpiti dal virus, Guinea, Liberia e Sierra Leone, sia in Nigeria e Senegal, dove l’epidemia è stata contenuta, ha più volte invocato un intervento massiccio della comunità internazionale per tentare di arginare l’epidemia ed evitare che i già fragili sistemi sanitari collassassero definitivamente.
MSF costruisce e gestisce centri di isolamento per il trattamento dei pazienti affetti dalla malattia, installa camere di decontaminazione tra i pazienti in isolamento e l’ambiente esterno, cura i pazienti per limitare la diffusione del contagio, supporta i Ministeri della salute locali nell’attività di sorveglianza epidemiologica, invia i propri esperti tra le comunità locali per definire la mappatura dei contatti, sensibilizza le comunità sulla diffusione della malattia e sulle misure igienico-sanitarie da adottare, forma gli operatori sanitari locali. L’assistenza ai pazienti è affidata a personale esperto e formato sulle tecniche di isolamento necessarie, sull’utilizzo di dispositivi di protezione e sul rispetto scrupoloso delle norme di comportamento in tutte le fasi dell’assistenza al malato. Le equipe di MSF hanno trattato complessivamente circa il 60% dei casi registrati. Hanno ricoverato più di 4.200 persone, di cui circa 2.400 sono risultate positive all’Ebola. Più di 1000 sono guarite.
I nostri operatori entrano nella zona di isolamento sempre in coppia per controllarsi vicendevolmente e indossano dei dispositivi di protezione individuale (tuta completa, doppio paio di guanti, occhiali protettivi, maschera che copre l’intera superficie del volto, stivali). All’ingresso e all’interno delle unità sono predisposte taniche di acqua clorata per il lavaggio delle mani e dei piedi che deve avvenire in ogni passaggio della visita del malato e per evitare la contaminazione con altre aree. Nella zona che precede la stanza di isolamento l’operatore si veste e si sveste con accortezza gettando il materiale monouso nel sacco dei rifiuti speciali. Rigide sono anche le procedure per lo smaltimento dei rifiuti, dei fluidi biologici e la disinfezione di tutti gli strumenti utilizzati.
Tra i diversi paesi coinvolti in quest’epidemia, il contagio è avvenuto più frequentemente tra il personale sanitario per la mancanza di misure igieniche e di protezione (maschera, camice, guanti, occhiali) e tra i familiari del malato per l’elevata probabilità di contatti. Inoltre il contatto diretto con i defunti durante le cerimonie di sepoltura probabilmente ha avuto un ruolo non trascurabile nella diffusione della malattia nei paesi colpiti. Strutture sanitarie insufficienti, mancanza di controlli e di servizi di sorveglianza epidemiologica adeguati hanno fatto il resto. Non esiste alcun trattamento specifico per curare questa malattia né un vaccino che abbia un’efficacia comprovata sugli esseri umani e sia registrato per l’utilizzo sui pazienti. Organizzazioni come MSF, riducono il tasso di mortalità curando i sintomi, in particolare vengono tenuti sotto controllo l’idratazione del paziente, il mantenimento di un adeguato livello di ossigenazione e di pressione arteriosa, vengono somministrati antibiotici in caso di infezioni e complicazioni e viene fornita un’alimentazione altamente nutritiva. Il supporto terapeutico offerto, a volte, aiuta il paziente a sviluppare una risposta immunitaria sufficiente per superare la malattia.
In mancanza di farmaci e vaccini la prevenzione si affida, quindi, al rispetto delle misure igienico-sanitarie, alla capacità di una diagnosi clinica e di laboratorio precoci e all’isolamento dei pazienti e dei contatti ad alto rischio. Per limitare l’epidemia e identificare la catena di trasmissione, MSF effettua la ricerca attiva di tutti gli individui che sono entrati in contatto con i malati sui quali viene istituita una sorveglianza sanitaria per le 3 settimane successive all’ultimo contatto, a cui segue il ricovero e l’isolamento al primo segnale d’infezione. Anche in caso di semplice sospetto, il paziente viene isolato.
Questa epidemia e la sua sorprendente rapidità di diffusione ci ricordano come la salute sia da considerarsi un problema globale; impossibile disinteressarsene solo perché accade in un altro continente. La lenta e inadeguata risposta della comunità internazionale ha amplificato le dimensioni di un dramma che poteva essere contenuto. Fin da marzo, Medici Senza Frontiere ha lanciato numerosi allarmi sulla portata senza precedenti dell’epidemia, chiedendo la mobilitazione della comunità internazionale; appelli per troppo tempo sottovalutati dalla stessa OMS. Per ben due volte il presidente internazionale di MSF Joanne Liu si è rivolta agli Stati Membri delle Nazioni Unite per chiedere di agire rapidamente per fermare l’epidemia. Ad oggi, alcuni Paesi si sono impegnati con risorse umane ed economiche ma le tante promesse ancora faticano a concretizzarsi.
Ora è importante reagire prontamente, inviare personale sanitario esperto per curare i malati e rintracciare i casi sospetti, inviare materiale medico e dispositivi di protezione, far fronte alle altre sfide sanitarie che vedono molte persone affette da malattie curabili morire per la mancanza di accesso alle cure e la chiusura dei centri di salute. I paesi colpiti vanno supportati, l’isolamento va scongiurato per non compromettere lo sforzo degli aiuti internazionali e non aggravare la frattura sociale ed economica. L’impatto di questa epidemia si protrarrà ben oltre la sua fine, i sistemi sanitari avranno bisogno di essere ricostruiti e la fiducia ristabilita, la sorveglianza epidemiologica ridefinita, le perdite economiche risanate.
La ricerca clinica, finalmente avviata, di terapie e di un vaccino è ancora in una fase iniziale; eventuali nuovi prodotti non arriveranno in tempi utili per moltissime persone e in ogni caso non potranno prescindere da un approccio alla malattia più globale e fin qui sottolineato, ovvero la sensibilizzazione alle comunità, la ricostruzione dettagliata dei contatti, il ricovero immediato dei pazienti sospettati di aver contratto l’Ebola presso centri specializzati nel trattamento e un coordinamento efficace della risposta. Per questo servono risorse immediate che aiutino ad arginare l’epidemia e a supportare i sistemi sanitari della regione colpita. E’ un obbligo morale e una responsabilità cui non ci si può sottrarre. La salute del continente africano è anche la nostra salute.
Gabriele Eminente, Medici senza Frontiere, Sierra Leone