C’è una parte della popolazione africana, non trascurabile, che nonostante non abbia mai manifestato l’ebola, ha sviluppato gli anticorpi nei confronti del virus. Così mentre la malattia continua a diffondersi e mietere vittime nell’Africa occidentale, c’è un numero imprecisato di altre persone che silenziosamente ne è diventato immune. Che viene cioè in contatto con il virus senza mai ammalarsi o infettare gli altri, e che potrebbe essere protetto dalle infezioni future. Un fenomeno che, se l’effetto dell’immunità venisse confermato, potrebbe avere un impatto significativo sulle proiezioni di diffusione del virus e potrebbe anche contribuire ad arginare l’epidemia. «Anche se è improbabile che le infezioni asintomatiche siano infettive, potrebbero conferire un’immunità protettiva e quindi avere importanti conseguenze epidemiologiche», spiegano gli autori di una lettera pubblicata su The Lancet.
Secondo quanto riportano gli scienziati, da evidenze scientifiche emerge che molte infezioni da ebola siano asintomatiche (non presentano cioè i classici sintomi), e che questo fattore sia stato spesso trascurato nei report di aggiornamento dell’epidemia e nelle previsioni future di diffusione. In particolare, i risultati di un’indagine conseguente a un’epidemia di ebola hanno mostrato che il 71% degli individui sieropositivi al virus non aveva in realtà avuto la malattia; mentre un altro studio ha riferito che il 46% dei pazienti asintomatici che ha avuto contatti stretti con pazienti che avevano contratto il virus, era sieropositivo.
Le conseguenze potrebbero essere diverse. La prima è proprio una sovrastima della diffusione dell’epidemia: prendendo in considerazione anche questo gruppo di popolazione, come si vede dal grafico riportato su The Lancet, la curva di diffusione potrebbe essere più bassa. «L’infezione asintomatica contribuisce a innescare l’immunità e smorza la diffusione epidemica» scrivono gli autori. Una diffusa immunità asintomatica, se non ben stimata, rischia anche di alterare la progettazione e gli studi sui vaccini oggi in corso. E infine potrebbe essere sfruttata per attenuare la trasmissione. Gli individui che hanno sviluppato gli anticorpi per il virus, e fossero davvero immuni a una re-infezione asintomatica, infatti, porrebbero essere impiegati per gestire i pazienti infetti dal virus riducendo al minimo la diffusione della malattia per gli operatori sanitari non immuni.
«La storia degli anticorpi nella popolazione “sana”, parte da molto lontano – spiega a Linkiesta Massimiliano Galli, professore ordinario di malattie infettive presso l’Università degli Studi di Milano – addirittura dall’ipotesi che la prima presenza del virus ebola zaire si sia manifestata in una certa area geografica, quella di Tandala nel nord dello Zaire, prima ancora che a Yambuku nel 1976, la prima epidemia registrata per questo virus. In Tandala circa il 7% dei residenti avevano anticorpi nei confronti del virus, con una maggiore prevalenza nelle donne sotto i 30 anni. In parallelo quando si ebbe la prima epidemia per il virus del Sudan, in seguito a una valutazione si scoprì che il 18% della popolazione aveva gli anticorpi senza aver mai sviluppato la malattia, mentre in Gabon, alcuni ricercatori nel 2010 pubblicano un lavoro di screening su oltre 400 persone in 220 villaggi e trovano una prevalenze del 15,3 % di anticorpi contro il virus ebola, prevalenza che diventa del 20% quando vengono considerati anche i villaggi più vicino la foresta. C’era quindi una prevalenza di anticorpi in persone che non risultavano infettate.
Le possibilità sono due: o c’è un numero importante di infezioni che non sfociano poi in malattia, o lo fanno in una forma mite, come sembra stia succedendo anche nel corso di questa epidemia; o ci sono altri filovirus che sono assai meno patogeni del virus zaire responsabile di questa epidemia, che fa sviluppare degli anticorpi che crociano con il virus ebola e che danno l’immunità anche per quest’ultimo. Quello che sembra infatti, è che gli anticorpi sviluppati da queste persone siano contro il virus responsabile dell’attuale epidemia, lo Zaire. La domanda a cui nessuno per ora sa dare una risposta, è se questi anticorpi sono o no protettivi».
Visto l’importanza della questione, gli autori della lettera concludono lanciando un appello alla comunità scientifica, perché al più presto partano degli studi per indagare l’immunità asintomatica: «Perché potrebbe salvare vite umane». Questo gruppo di popolazione pare infatti molto importante per capire le prossime mosse da fare nella gestione dell’epidemia così come per la ricerca sul vaccino. Prima di tutto però bisogna capire se gli anticorpi prodotti in questo modo hanno la capacità di neutralizzare il virus in coltura. Le strategie per sfruttare l’immunità protettiva dipenderanno soprattutto dallo sviluppo e dalla convalida di test in grado di identificare in modo affidabile gli individui che sono efficacemente protetti contro la re-infezione. Studi di questo genere però, atti a comprendere il grado di immunità protettiva dopo l’infezione asintomatica e l’identificazione di marcatori sierologici per l’immunità protettiva possono essere condotti solo in ambienti con rischio di trasmissione in corso. Perciò secondo gli scienziati è necessario agire in fretta, perché l’epidemia in corso offre un’occasione unica per studiare l’immunità protettiva asintomatica acquisita contro il virus ebola.
«Un’altra cosa da chiarire – conclude Galli – è se questi anticorpi proteggano l’individuo anche da possibili mutazioni future. Ogni volta che c’è stata un’epidemia, il virus zaire si è presentato con un ceppo leggermente diverso dal precedente. Fenomeno che non ci sorprende visto che si tratta di un Rna virus, molto mutevole. Questo pone il problema di dimostrare che gli anticorpi, che siano evocati con un’infezione o un vaccino, siano in grado di proteggere anche nei confronti del ceppo successivo. Tutto sommato credo di sì. Anzi, ci stiamo augurando che sia possibile sviluppare un vaccino utile per più specie del virus ebola. Ma per il momento non ci sono informazioni sufficienti per poter affermare niente con sicurezza».