Onorevole Epifani, negli ultimi anni c’è stato un consenso unanime circa le cause del declino dell’economia italiana. È stato più volte dimostrato che l’Italia ha un significativo problema di scarsa crescita della produttività, insieme ad una certa maturità di molti prodotti italiani. Perché allora, invece di questo, si discute di riforma del mercato del lavoro?
L’Italia è stato storicamente un paese con una moneta debole, in cui ad un accenno di crisi, si rispondeva svalutando e guadagnando, almeno temporaneamente, competitività sulle esportazioni. Abbiamo, però, scelto di far parte di un’Unione Monetaria che ha adottato una moneta forte e calibrata sul ciclo degli investimenti delle aziende tedesche, lungo in media 7 anni. Il ciclo delle nostre aziende è, invece, di 11-12 anni, cosicché oggi i settori che meglio hanno risposto agli shock ripetuti degli ultimi anni sono quelli che hanno saputo adeguare la produzione, rendendola più simile agli standard d’Oltralpe. Ci siamo anche adeguati ai parametri fiscali del Trattato di Maastricht – sebbene ci si dimentichi spesso di quello che riguarda la bilancia commerciale, che la Germania continua a violare -, ma non riusciamo ad uniformare i diritti dei lavoratori su tutto il continente. Probabilmente, i vari tentativi di riforma vanno in questa direzione.
L’evidenza empirica mette in discussione i progetti di riforma attualmente in discussione. Secondo l’Ocse, in quanto a flessibilità del mercato del lavoro già ora non siamo molto distanti da Francia e Germania. Inoltre, non esiste alcuna prova per cui ad una accresciuta flessibilità e facilità nei licenziamenti corrisponda un incremento dell’occupazione (tanto meno in un momento di deflazione). Leonardi e Salvati hanno recentemente proposto di legare i salari alla produttività. Lei che ne pensa? E di salari diversi a seconda del luogo in cui l’impresa opera?
Legare di più i salari alla produttività è certamente una proposta interessante che può portare dei benefici anche in termini di maggiori investimenti da parte delle imprese, che poi è ciò di cui abbiamo bisogno in Italia. Per quanto riguarda le gabbie salariali, sarei più cauto. I prezzi a volte riflettono il valore percepito della qualità dei servizi. In altri termini, se vivo in Calabria, ove i prezzi delle case sono più bassi che in Lombardia, percepirò un salario più basso. Ma se ad esempio avrò bisogno di uscire dalla mia regione per usufruire di servizi sanitari, mi confronterò con delle spese che un cittadino lombardo generalmente non sostiene.
Insisto, se l’articolo 18 non è rilevante rispetto all’occupazione e rispetto alla produttività delle imprese, perché toccarlo? Modificarlo significherebbe toccare un simbolo, più che eliminare una distorsione…
Credo che oggi sia essenziale discutere di come estendere i diritti fondamentali dei lavoratori – maternità e salute, ad esempio – non come ridurli per alcuni. Non capisco bene cosa si intende fare rispetto ai precari, i lavoratori con contratto atipico. Una convergenza delle tutele deve certamente avvenire, ma verso l’alto, non togliendo i diritti a chi li ha.
Oggi il potere contrattuale del sindacato è notevolmente diminuito rispetto a 30-40 anni fa. Disoccupazione, delocalizzazione della produzione e diffusione dei contratti atipici sono sicuramente le cause principali di questa crisi. Soprattutto, credo che il sindacato abbia commesso un grave errore strategico sottovalutando le istanze del precariato…
Un tempo, entrare in fabbrica significava entrare in contatto con un mondo diverso rispetto a quello familiare di provenienza. E spesso, quell’iniziale scelta era definitiva ed occupava l’intera vita lavorativa. In tale contesto, era normale avvicinarsi al sindacato. Oggi, la precarizzazione comporta una minore stabilità del rapporto di lavoro e, dunque, una minore propensione ad avvicinarsi al sindacato.
Siamo a Melfi, un luogo simbolico ed importante per la produzione automobilistica italiana. Mi pare che la scelta della Fiat di delocalizzare gran parte della produzione fuori dall’Italia nel medio periodo sia un fatto ormai evidente a tutti e forse ineluttabile. Se così è, ho paura che un sistema locale del lavoro come quello in cui siamo, che ha circa il 75% della forza lavoro occupato direttamente o indirettamente nell’automotive, potrà andare incontro ad un declino economico e sociale davvero significativo…
Non c’è dubbio che in alcuni casi sia necessario diversificare la base produttiva per potersi tutelare rispetto a shock che colpiscono determinati territori o settori. Probabilmente, Melfi ed il suo circondario si trovano in questa situazione. Sappiamo che oggi i settori più competitivi e produttivi in Italia sono il farmaceutico, alcuni segmenti della meccanica di precisione ed il cosiddetto made in Italy. Forse non sono comparti interessanti per la Basilicata, ma una riconversione produttiva di questo territorio è necessaria. È a questo che servono le politiche industriali, del resto.