C’è una lunga lista di incomprensioni tra l’amministratore delegato di Fs Michele Elia e il presidente Marcello Messori, dietro alla rinuncia del secondo alle deleghe in materia di relazioni esterne, istituzionali e di definizione delle strategie. È una mossa che ha fatto rumore nei palazzi del potere economico politico italiano, perché va a toccare nervi scoperti di un sistema di relazioni in difficoltà rispetto alla privatizzazione dell’azienda di trasporti più importanti del Paese. A quanto pare la goccia che ha fatto traboccare il vaso sarebbe stata l’uscita di Elia al Senato, in commissione industria la settimana scorsa. Il numero uno di Fs – scelto dal premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan come sostituto di Mauro Moretti, ora in Finmeccanica – ha parlato dell’ingresso del gruppo ferroviario nel capitale di Atm come in altre imprese del trasporto pubblico locale italiano. La linea non era stata concordata con Messori che ha di fatto constatato una vecchia regola all’interno delle aziende pubbliche italiane: i presidenti di solito non toccano palla. E come spiega un addetto ai lavori a microfoni spenti “spesso si rimettono le deleghe anche perché non si vogliono responsabilità….».
Del resto la privatizzazione di Fs continua a muoversi a rilento, come nel caso di Poste e di altri colossi del bel Paese. Basti pensare che in commissione Trasporti non si sa neppure quando se ne potrà parlare. «Siamo fermi da mesi sulla legge di Stabilità» spiega Michele Dell’Orco del Movimento Cinque Stelle, «non si è ancora incominciato a parlare, noi siamo contrari a qualsiasi tipo di privatizzazione». Ma il problema, più che in parlamento, sembra risiedere nella difficile situazione del risiko del potere italiano, o almeno di quello che è rimasto. L’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi ha rivoluzionato i pesi e i contrappesi, soprattutto in un settore delicato come quello dei trasporti, dove gli interessi sono molto vasti: arrivano fino al fiorentino Diego Della Valle azionista di Ntv, impresa ferroviaria che ha lanciato Italo. Non solo. Il vero dominus delle operazioni interne a Fs è sempre Moretti. «È lui a definire la linea a Elia», spiega una fonte interna al gruppo, «mentre Messori è sempre stato vicino a Padoan e D’Alema, ma gli schemi sono ormai saltati…».
Secondo gli esperti quindi la battaglia dentro Fs si sta svolgendo soprattutto nel Partito Democratico, tra il nuovo vento renziano, la minoranza piddina e una fetta di sindacati, in particolare la Cgil tanto cara a Moretti, dove l’attuale numero uno di Finmeccanica è stato segretario del settore trasporti dal 1986 al 1991. Ma c’è una terza figura, oltre a quella del ministero dell’Economia, che cerca di ritagliarsi un ruolo in questa partita a scacchi. È il ministro di Infrastrutture e Trasporti Maurizio Lupi, che a quanto pare sta facendo una certa fatica a entrare in questi mondi molto «democratici» e a imporre la sua linea. Secondo il senatore del Pd Massimo Mucchetti, «Ntv rappresenta un tentativo sfortunato. Pensato per il trasporto ferro incocciato la recessione e una vivacità di Trenitalia che non era prevista. Ora è sull’orlo del baratro. Il ministro Lupi molto si impegna per salvare Ntv. Ha già fatto abbassare i pedaggi e ora, tramite l’Autorità, si vorrebbe un taglio colpendo così il valore di Rfi. Forse bisogna sapere prima che cosa si vuole per il Paese».
Privatizzare solo Trenitalia: una svendita evitabile?
Privatizzare una parte di Fs o tutto il gruppo non è solo una questione di potere o divergenze personali al vertice. L’una o l’altra scelta porterebbero conseguenze su tre fronti: i miliardi che entrerebbero nelle casse dello Stato, le prospettive di sviluppo sia di Trenitalia che della rete ferroviaria e il campo da gioco in cui i concorrenti competono.
Vendere da sola Trenitalia, lasciando Rfi (Rete ferroviaria italiana) in mano pubblica, quanto frutterebbe all’azionista, il ministero dell’Economia e delle Finanze? Poco, spiega Alessandro Rocchi, segretario nazionale della Filt Cgil, perché Trenitalia «sostanzialmente è sottocapitalizzata». Nella prima metà degli anni Duemila il capitale si è dimezzato a causa di quattro esercizi in pesante perdita. «Il Mef avrebbe dovuto ricapitalizzare – sottolinea Rocchi – ma ha avuto altre priorità. Qualsiasi progetto di privatizzazione parte dal fatto che il punto di partenza è sfavorevole, perché i debiti, di sei miliardi, sono cinque volte il capitale sociale».
Questo, sottolinea, è avvenuto nonostante negli ultimi cinque anni Trenitalia abbia avuto ottimi risultati sia dal punto di vista industriale e finanziario. «Negli ultimi tre anni, più di tre miliardi di euro sono stati messi in autofinanziamento per nuovi treni e per la ristrutturazione di quello in esercizio. Tre anni fa hanno scelto di di stabilizzare il debito al livello di 6 miliardi di euro e di investire parte dell’utile su materiale rotabile. Parte dell’investimento è stato fatto con bond, per 1,5 miliardi in tre tranche».
Nel bilancio 2013 di Trenitalia il capitale sociale è pari a 1,654 miliardi di euro. Tra le passività ci sono 5,195 miliardi di finanziamento a breve termine, 423 milioni di finanziamento a breve termine. Tra le altre passività, inclusi i derivati, se ne contano non correnti per 804 milioni e correnti per 80 milioni. L’Ebitda è stato pari a 1,385 miliardi, il 25% del fatturato, mentre gli utili netti di 181 milioni di euro. Questi risultati potrebbero pesare, se la valutazione per la cessione non seguisse il metodo patrimoniale ma quello reddituale, o se si arrivasse a una forma mista.
I rischi di vendere tutto
Vendere tutto il gruppo Fs frutterebbe sicuramente di più per lo Stato. Il 49% della holding le stime, fatte a suo tempo dall’ex ad Mauro Moretti, varrebbe 6 miliardi di euro. Come anticipato da Italy 24 (la versione inglese del Sole 24 Ore), il ministero dell’Economia punterebbe a quotare in Borsa del 40% di Ferrovie dello Stato “entro la fine del 2015”, e secondo le stime iniziali dall’operazione si attende “quasi tre miliardi di euro”. Secondo il quotidiano, che cita fonti vicine alla situazione, l’idea di quotare la holding, seguendo l’esempio di Poste italiane, avrebbe prevalso rispetto a quella di mettere sul mercato solo alcune società. Negli ultimi giorni sarebbe stata creata una task force “per lavorare sulla valutazione di Fs.
Le conseguenze dell’affidamento anche della rete a un privato non sono facili da immaginare. «Se avvenisse questo – commenta Rocchi – l’Italia sarebbe il primo Paese europeo che avrebbe privatizzato l’intera rete. Perfino il Regno Unito qualche anno fa ha rinazionalizzato l’infrastruttura, con un bagno di sangue economico, vent’anni dopo la privatizzazione». Il rischio con un gestore privato, per il sindacalista della Cgil, «è che l’investimento per la manutenzione e la costruzione dell’infrastruttura è di una portata tale che difficilmente il privato è disposto a sostenerlo».
Il precedente dell’Eni
Preoccupazioni che però non convincono Massimo Mucchetti, senatore Pd che ha seguito da vicino la questione. «L’ingresso dei privati nel capitale non avrebbe particolari effetti sulle capacità di investimento nella rete – argomenta -. Queste dipendono dalle tariffe decise dall’Autorita (dei Trasporti, ndr) e dagli eventuali contributi pubblici laddove gli investimenti non possono essere interamente ripagati dal servizio». Il punto è però un altro: «mettere sul mercato Rfi come società implica una piena valorizzazione degli asset, e questo contrasta con la decisione presa dal governo che ha rivisto in danno di Rfi in rapporti con l’Enel nel taglia bollette e pure con la ventilata riduzione dei pedaggi per l’uso della rete ad alta velocità da parte degli operatori».
La soluzione di vendere tutto è quella che il senatore considera più convincente. «Personalmente, ma pronto a ricredermi se mi si squadernano numeri che oggi non vedo, tendo a preferire l’idea di quotare un solo soggetto seguendo l’esperienza positiva dell’Eni degli anni Novanta. Allora ci fu chi voleva quotare Snam e Agip: erano le banche d’affari a caccia di commissioni (due operazioni meglio di una) e i capi azienda che si sarebbero resi autonomi. Prevalse il progetto globale e fu bene. Ciò non toglie che, in seguito e come e’ accaduto anche per l’Eni, si possano quotare anche aziende specifiche del gruppo».
La rete elettrica a Terna
Tra le ipotesi messe in campo da Messori, in un’intervista al Corriere della Sera, c’è anche una soluzione intermedia: vendita di Trenitalia e di parte di Rfi. Parte di questo piano si sta già realizzando, perché Rfi sta già trattando la cessione della rete elettrica a Terna, con un incasso stimato in un miliardo di euro. «Invece di discettare in astratto – mette in guardia Mucchetti – si dovrebbe vigilare affinché non si saldi un fronte Fs-Terna ai danni dei consumatori: la rete finisce nella Rab (valore del capitale investito netto, ndr) di Terna che può pagare tanto e girare il conto alla bolletta. Altro può essere ceduto. Ma non è qui il punto del contendere. Quanto a Trenitalia, tali e tanti sono gli intrecci tra attività a mercato e attività di servizio universale che, prima di parlare seriamente, bisognerebbe avere numeri che oggi abbiamo solo in parte: dalla contabilità dell’AV a quella della lunga percorrenza fino al trasporto regionale».
Il ruolo di Ntv e dell’Autorità
Il convitato di pietra, nella discussione sulla vendita di tutto il gruppo o di una sola parte, è Ntv. La società che gestisce i treni Italo sulla rete ad Alta velocità potrebbe annunciare, come detto nei giorni scorsi dai sindacati, 250 esuberi, ossia il 25% del personale. L’azienda che per un terzo appartiene a Montezemolo, Della Valle e Punzo da mesi sta attribuendo le sue difficoltà proprio alla gestione non imparziale della rete da parte di Rfi.
Il tema della separazione tra rete e attività di trasporto, per il sindacalista «è attuale in Italia, perché c’è il problema del rapporto tra Ntv ed Fs». «Non è vero – aggiunge – che la concorrenza debba passare tra la separazione societaria tra la rete e il trasporto. Ci vuole una netta separazione dal punto di vista contabile per evitare che i corrispettivi pubblici per le reti possano andare alle società di trasporto. Può essere che sia necessaria un’ulteriore separazione contabile, e di sicuro è necessaria la crescita dell’Autorità di trasporto. Le critiche che sono state rivolte all’Authority qualche fondamento ce l’hanno. Sono passati più di due anni tra la legge di istituzione e la partenza operativa. Senza con questo criticare il suo presidente (Andrea Camanzi, ndr), è stata un’operazione più lenta di quanto era lecito aspettarsi».