I mini-bond non sono una soluzione per le piccole e medie imprese messe di fronte al credit crunch, almeno non ancora. Se ci fossero dubbi in merito, a fugarli è stato il primo Rapporto Pmi del Cerved: sono solo 29 le Pmi, sulle 144mila attive in Italia, che finora hanno emesso obbligazioni finanziarie, per un valore che si è fermato a 226 milioni di euro. La torta dei mini-bond, di 4,2 miliardi di euro in totale, è andata per il 95% alle grandi imprese.
«La crisi finanziaria e il credit crunch bancario – spiega il Cerved – hanno rafforzato l’esigenza di accrescere e diversificare le fonti di finanziamento a cui hanno accesso le Pmi italiane, storicamente troppo dipendenti dal credito bancario. Una serie di interventi legislativi ha posto le condizioni per la nascita del mercato dei mini-bond e per favorire l’accesso al mercato dei capitali anche alle società non quotate». Ma non è servito, perché «finora le aziende per cui lo strumento era stato pensato hanno giocato un ruolo marginale».
Eppure, secondo il Cerved, sarebbero circa 2.500 le Pmi che potrebbero emetterli, tutte quelle con fondamentali di bilancio paragonabili o migliori delle imprese che hanno già emesso un mini-bond. Se solo una su mille ha creduto nelle obbligazioni aziendali, la ragione è che le leggi e l’interesse degli investitori istituzionali non bastano: «sono infatti necessarie – spiega il rapporto – azioni che aiutino le Pmi a essere più trasparenti e a produrre le informazioni necessarie per dialogare con il mercato dei capitali».
Troppa dipendenza dalle banche
Se i mini-bond sono ancora solo uno strumento potenziale, la realtà è che per la impresa mediana il 98% dei redditi finanziari ha natura bancaria, un livello decisamente superiore rispetto alle piccole e medie imprese tedesche, spagnole e francesi. Chi ha bisogno di risorse finanziarie, quindi, dipende quasi completamente dalle banche. E dato che dagli istituti bancari i prestiti arrivano solo a poche aziende, c’è un 30% buono di piccole imprese che ha scelto di non contrarre prestiti bancari.
Il buco nero del credito
Le banche dovrebbero continuare a finanziare società già molto indebitate? A leggere il rapporto Pmi viene più di un dubbio. Le società maggiormente dipendenti dalle banche, si legge, «hanno sofferto di più durante la crisi, ampliando i gap negativi già presenti nel 2007». I problemi sono tanti: «hanno ridotto maggiormente la redditività, non hanno beneficiato del calo dei tassi di interesse, hanno aumentato la percentuale di mancati pagamenti, accumulato maggiori ritardi, si sono viste irrigidire i termini di pagamento dai fornitori». La conseguenza è che per chi è più indebitato c’è stato un ampliamento del divario di rischio, già esistente prima dello scoppio della crisi rispetto alle Pmi meno dipendenti dalle banche.
La tempesta sulle Pmi
Dal rischio al fallimento il passo può essere breve. E purtroppo ha riguardato, dall’inizio della Grande Crisi ben un quinto delle Pmi attive nel 2007. L’intensità e la persistenza della crisi, unite alla restrizione del credito, hanno rappresentato un uno-due micidiale per il sistema delle Pmi. Dal 2008 ne sono fallite 13mila, più di 5mila hanno avviato una procedura concorsuale non fallimentare e 23mila sono state liquidate volontariamente: nel complesso, un quinto di quelle attive nel 2007 è stato interessato da almeno una di queste procedure. «La maggior parte delle imprese fallite – dice Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved – erano già in difficoltà nel periodo antecedente la crisi. Per queste, la crisi ha solo accelerato un processo di selezione già in atto. La nostra analisi mette in luce però anche imprese che, prima della crisi, davano segni di vitalità e che con ogni probabilità sono state espulse dal mercato più per problemi di liquidità che di sostenibilità economica».
Start up, più fumo che arrosto
Anche sulle start up, per molti la grande speranza per il futuro dell’economia, serve realismo. La crisi, fa notare il Cerved, ha avuto impatti negativi anche sulla natalità delle imprese: il numero di start up si è ridotto e tra le nate è diminuita la presenza di quelle in grado, a tre anni dalla nascita, di insediarsi sul mercato e sopravvivere. Il minore sostegno finanziario ha avuto la sua parte: solo 5mila start up nel 2012 hanno iniziato l’attività con prestiti bancari, quasi la metà rispetto a quelle nate nel 2007.
Chi è rimasto in piedi sta meglio
L’unica buona notizia che si ritrova nel rapporto del Cerved è che chi è rimasto in piedi sta meglio. «La lunga crisi – spiega la società – ha innescato un processo di selezione che rende, paradossalmente, la condizione finanziaria delle Pmi più equilibrata rispetto al periodo pre-crisi: secondo lo score economico-finanziario di Cerved si è infatti ridotta significativamente la presenza di aziende con un bilancio rischioso». I motivi sono diversi: la selezione, che ha espulso dal mercato le imprese meno solide; la riduzione del livello di indebitamento (ma solo a causa del credit crunch); la ricapitalizzazione intrapresa da molte Pmi che hanno incrementato il patrimonio netto di 32 punti percentuali tra 2007 e 2013; il calo dei tassi di interesse, che ha ridotto il peso degli oneri finanziari sui margini. A fronte della generale tenuta dei bilanci delle sopravvissute, le negative condizioni macroeconomiche hanno però aumentato il rischio medio di insolvenza: a parità di qualità del bilancio si è infatti sensibilmente innalzata la probabilità di default. Secondo le stime di Cerved in un progetto congiunto con Abi, il tasso di ingresso in sofferenza delle PMI ha toccato il 2,9% nel 2013, il massimo del decennio.
Due anni senza aspettative di crescita
Nei prossimi due anni il quadro cambierà? È improbabile: in base al quadro macroeconomico elaborato da Cerved, che incorpora un’ulteriore caduta del Pil dello 0,3% nell’anno in corso e una moderata ripresa nel biennio successivo, le Pmi torneranno ad accrescere ricavi e valore aggiunto nel 2015-16, ma con una dinamica ancora molto contenuta. I margini operativi lordi sono previsti in lieve miglioramento, ma tra due anni saranno ancora del 25% inferiori a quelli del 2007.
Le medie, fortunatamente, nascondono anche campioni: come le 3.472 società che il Cerved definisce “gazzelle”: sono le piccole e medie realtà che sono riuscite almeno a raddoppiare il proprio giro d’affari dal 2007.