Pizza ConnectionLa trattativa Stato-mafia papello dopo papello

La trattativa Stato-mafia papello dopo papello

L’audizione al Quirinale

Nella giornata del 28 ottobre si svolge per la prima volta nella storia una udienza nel palazzo del Presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano aveva già fatto sapere in precedenza di non avere elementi utili da riferire riguardo i chiarimenti chiesti dai pm che indagano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. I pubblici ministeri hanno però insistito e alla fine Napolitano risponderà a loro e anche all’avvocato di Totò Riina, Luca Cianferoni. Da Palermo nasce l’interesse nei confronti di un’audizione per il capo dello Stato nel momento in cui l’ex ministro Nicola Mancino, imputato al processo, cerca lo stesso Napolitano preoccupato per l’accusa di falso (colloqui intercettati e poi distrutti come prevede la legge, e che, per stessa ammissione del pm Antonino di Matteo non contenevano episodi rilevanti). In secondo luogo è una lettera del suo consigliere giuridico ed ex magistrato, Loris D’Ambrosio, in cui si ipotizzano «indicibili accordi» riferiti proprio al periodo tra il ’92 e il ’93 ad attirare di nuovo i pm.

D’Ambrosio è il destinatario di gran parte delle chiamata di Mancino al Quirinale e morirà nel 2012. Il Presidente della Repubblica ha fatto sapere per iscritto ai giudici di non aver nulla da spiegare riguardo la missiva dello stesso D’Ambrosio, e questo sicuramente ripeterà rispondendo alle domande dei magistrati di Palermo, che nel frattempo porteranno anche una relazione del Sisde (servizi segreti) datato 20 luglio 1993, che faceva figurare l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano come un probabile bersaglio di cosa nostra. Sarà anche, e soprattutto su questo punto, che si giocherà l’audizione al Capo dello Stato, che ai fini del processo appare però tutt’altro che indispensabile.

Una audizione che ha messo a rischio anche la prosecuzione del processo (l’avvocato di Riina aveva palesato l’intenzione di chiedere l’annullamento del procedimento qualora non avesse avuto la possibilità di interrogare Napolitano). Ha scritto a ragione su L’Espresso Lirio Abbate nell’ultimo numero del settimanale «i vuoti da colmare sono ancora tanti e sarebbe bastato rinunciare al teste e andare spediti verso la fine del dibattimento per ottenere una verità giudiziaria. La sensazione è che questi pm siano saliti a bordo di un’auto che viaggia a forte velocità imboccando una strada che sembra essere un vicolo cieco. “Ci vorrebbe un po’ più d’equilibrio da parte di tutti”, scrisse Norberto Nobbio nel 1992, quando un sistema politico affondava anche sotto i colpi delle stragi e quando sicuramente vennero imbastiti dei tentativi di dialogare con le mafie. Ma quell’appello non ha ancora trovato ascolto». E ancora: «Il bersaglio adesso è Giorgio Napolitano. E qui sta il problema, perché se a un Capo di Stato si voleva porre qualche domanda sulla trattativa Stato-mafia, non è certo all’attuale, come ben sanno i pm, ma a un suo predecessore, Oscar Luigi Scalfaro»

Un processo già nato in bilico, che ha passato il vaglio del Giudice per le indagini preliminari per il rotto della cuffia. Scriveva il gup Morosini: «Il materiale acquisito non è pervenuto al giudice in forma organica per singole posizioni processuali in maniera intelleggibile. La memoria che è stata prodotta (dai pm di Palermo, ndr) dalla Procura non affronta il tema delle fonti di prova». Insomma, si poteva arrivare al processo con carte e prove più chiare, questo non è successo, e andando avanti con le udienze il teorema della procura è sempre più fragile.

Di seguito il verbale dell’udienza al Quirinale di Giorgio Napolitano, sentito dalla procura di Palermo nell’ambito del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia

Udienza del 28/10/2014 di Giorgio Napolitano from Luca Rinaldi

L’ESITO DEL MAXIPROCESSO E L’OMICIDIO LIMA– Il 9 agosto del 1991 l’alto magistrato Antonino Scopelliti viene freddato con due colpi di arma da fuoco a Campo Calabro, provincia di Reggio Calabria. Aveva 51 anni, e stava preparando il rigetto dei ricorsi per Cassazione fatti dalle difese di alcuni capimafia condannati nel corso del primo maxi processo a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Scopelliti è la prima vittima dell’assalto allo Stato di Cosa Nostra, che per far fuori il giudice si avvale anche della collaborazione della ‘ndrangheta calabrese. ‘Ndrangheta che nello stesso periodo risulta essere particolarmente interessata al muro contro muro con lo Stato e tramite di un traffico considerevole di armi e ordigni da guerra in Calabria.

Il 9 agosto del 1991 l’alto magistrato Antonino Scopelliti viene freddato con due colpi di arma da fuoco a Campo Calabro è la prima vittima dell’assalto allo Stato di Cosa Nostra

Il maxiprocesso si conclude nel gennaio del 1992, l’impianto accusatorio viene confermato e Cosa Nostra si ritrova, oltre che riconosciuta come organizzazione criminale, falcidiata dagli ergastoli. Due mesi dopo arriva l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima, fedelissimo di Andreotti, e già al centro delle vicende di mafia in precedenza, così come anche descritto da alcuni collaboratori di giustizia. Egli avrebbe dovuto intercedere per ‘aggiustare’ il maxiprocesso, ma il tentativo fallì e pagò con la vita in un agguato mafioso il 12 marzo del 1992.

Il messaggio di Cosa Nostra è lanciato: i vecchi referenti politici non sono più affidabili e in Sicilia bisogna decapitare il potere del grande vecchio della Democrazia Cristiana Giulio Andreotti. Nel quadro disegnato dalla procura di Palermo nella recente indagine in cui ha chiesto il rinvio a giudizio di 12 persone, la trattativa comincia proprio qui, con la pressione sul vecchio garante della mafia in politica, Giulio Andreotti.

COSA NOSTRA POTREBBE COLPIRE ALTRI POLITICI – Lima non è il solo nel mirino di Cosa Nostra. Questo risulta da una nota redatta dall’allora capo della Polizia, Parisi, con alcuni possibili bersagli politici che potrebbero essere colpiti da Cosa Nostra. La nota, datata 16 marzo 1992, cioè quattro giorni dopo l’omicidio Lima, indirizzata al Ministro dell’Interno Scotti, si intreccia, tra le altre cose, con una lettera arrivata all’ufficio istruzione della procura di Bologna il 4 marzo, otto giorni prima dell’omicidio Lima, che a sua volta confermerebbe, le informazioni raccolte dagli investigatori da fonti confidenziali.

La lettera che arriva il 4 marzo alla magistratura bolognese è firmata da Elio Ciolini, personaggio tanto ambiguo quanto ‘border-line’: una vita passata tra servizi segreti, logge coperte ed estremismo nero, per poi rifarsi vivo nel 2001 parlando di un fantomatico attentato a Silvio Berlusconi, per poi venire arrestato nel 2008 mentre si fingeva un generale NATO e presidente di una inesistente associazione antiracket per andare a procacciare finanziamenti.

La lettera di Ciolini inizia con la dicitura «Nuova strategia tensione in Italia – Periodo marzo-luglio 1992», per poi proseguire descrivendo scenari non del tutto lontani dalla realtà come “esplosioni dinamitarde”, “eventuale omicidio di esponente politico Psi, Pci, Dc”, fino a un possibile “omicidio del futuro presidente della Repubblica”. Spiegherà inoltre che la strategia è stata decisa a Zagabria nel settembre del 1991, per un “nuovo assetto della destra europea”, per cercare un nuovo ordine sociale in Italia.

Il 17 marzo l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, basandosi sulla nota del capo della polizia Parisi, lancia l’allarme alle prefetture su tutto il territorio nazionale paventando proprio un piano di destabilizzazione istituzionale, chiedendo maggiore attenzione su alcune personalità a rischio.

Nella nota di Parisi infatti si legge delle minacce rivolte al presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, al ministro Vizzini e al ministro Calogero Mannino. Proprio Mannino riferirà al figlio del maresciallo Guazzelli (maresciallo ucciso dalla mafia nell’aprile del 1992), sentito nel 1995, il quale dichiara che tra la sentenza del maxi-processo, nel gennaio del ’92, e l’omicidio Lima, il padre gli avrebbe riferito le parole di Mannino: «Ora o uccidono me o uccidono Lima». Stessa preoccupazione esprimerà anche a Subranni del ROS, a Contrada del Sisde e all’onorevole Mancino, allora capogruppo DC, ma non ancora ministro dell’Interno. La circostanza è stata ricordata anche dai magistrati di Palermo davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia.

Scotti porterà la questione anche in sede istituzionale, prima in una seduta della Commissione Parlamentare Antimafia discutendo proprio degli omicidi Lima e Corrado (consigliere comunale del PDS di Castellamare di Stabia, freddato un giorno prima di Lima) e poi davanti alla Commissione Affari Costituzionali.

La relazione alle camere dell’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti (audio) 

Dopo l’allarme Scotti finisce del mirino: Andreotti considera l’Sos del ministro dell’Interno una “patacca”, come riportano anche i giornali dell’epoca.

la_stampa_allarme_scotti__patacca_21_marzo_1992.pdf

la_stampa_cossiga_contro_scotti_20_marzo_1992.pdf

È in questi momenti, secondo la ricostruzione della procura di Palermo, che Mannino, sentendosi in pericolo si attiva per mettersi al riparo dalle ritorsioni di Cosa Nostra. Come? Attraverso investigatori e personale dei servizi segreti cerca di trovare i giusti interlocutori per «aprire la trattativa e sollecitare gli uomini di Cosa Nostra».

A Milano intanto impazza Tangentopoli, mentre in Sicilia girano invece due versioni del rapporto “mafia-appalti”, di cui uno ripulito dai nomi di imprenditoria e politica nazionale. Falcone viene però a conoscenza del “tavolinu”, attorno a cui mafiosi e imprenditori, anche del nord banchettano insieme: nel ’92 al Collegio Ghisleri di Pavia durante un intervento spiega ai presenti che Cosa Nostra è entrata in borsa, stessa espressione che aveva utilizzato nel 1984 quando Nino Buscemi, inseguito da un mandato di cattura aveva ceduto la Calcestruzzi Palermo Spa a Calcestruzzi Spa così da sottrarla alla confisca ai sensi della Legge La Torre. E’ la primavera del 1992, per Cosa Nostra Falcone è un morto che cammina.

LA STRAGE DI CAPACI – Il 23 maggio del 1992 muoiono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Stefano Montinaro. Saltano in aria: una bomba ha sventrato l’autostrada fra Trapani e Palermo, nella zona di Capaci. In quel periodo Falcone, tra mille polemiche, lavora al Ministero di Grazia e Giustizia a Roma, un’altra mossa che non è andata giù ai mafiosi che vogliono smarcarsi da Andreotti.

A quel punto lo Stato non può stare a guardare, ma proprio qui iniziano le nebbie più fitte su quella trattativa. Trattativa che, secondo la recente sentenza del tribunale di Firenze riguardante il boss Tagliavia, condannato per la strage di via dei Georgofili, «indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un ‘do ut des’. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia» e «l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno con ‘cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi».

Ma la procura di Firenze non entra nel merito della vicenda, non è di competenza sua la trattativa: ci sta lavorando la procura di Palermo, e anche quella di Caltanissetta, per cercare di mettere la parola fine sulla strage di via d’Amelio dove rimase ucciso Paolo Borsellino.

IL PAPELLO E LA TRATTATIVA DEL ROS – Scrivono i pm di Palermo Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene (il quinto titolare dell’inchiesta, Paolo Guido, non ha firmato l’atto finale perché in disaccordo su alcuni punti), che immediatamente dopo Capaci «su incarico di esponenti politici e di governo» i carabinieri del ROS (individuati in Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno) arrivarono al contatto con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino «agevolando così l’instaurazione di un canale di comunicazione con i capi di Cosa Nostra, finalizzati a sollecitare eventuali richieste».

Questo primo contatto ci fu grazie alle conoscenze del capitano Giuseppe De Donno, che incontrando Massimo Ciancimino, figlio di Vito, in aereo propone di aprire un contatto col padre. A riportare alla luce il fatto anni dopo è stato lo stesso Massimo Ciancimino, il quale non gode di grande credibilità tra le procure di Palermo, e in particolare quella di Caltanissetta (che scriverà «a ben vedere il bilancio della “pseudo-collaborazione” del Ciancimino sembra essere più favorevole agli interessi di Cosa Nostra che a quelli dello Stato»), ma che col suo racconto ha fatto tornare la memoria a parecchie persone sui fatti di quei giorni.

Conferma l’incontro lo stesso De Donno, e circa quindici giorni dopo Capaci avviene il primo incontro tra il ROS e Vito Ciancimino. Il capitano De Donno sostiene di essere solo a questo incontro e a tutti gli altri seguenti fino al 5 agosto, in cui avrebbe introdotto il colonnello Mori, di diverso avviso sono invece Massimo Ciancimino e le procure interessate. E’ Mori che conferma la circostanza di aver avuto il primo incontro con Vito Ciancimino il 5 agosto.

Mori e De Donno concordano ripetendo che si approcciarono con Ciancimino per chiedere la consegna dei latitanti. In cambio i boss avrebbero avuto “un buon trattamento penitenziario per sé e un riguardo per le famiglie”. Lo stesso mori dichiarerà nel corso del processo che lo vede coinvolto per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 (altra cambiale della ‘trattativa’) «preciso che io parlo di rapporti di natura confidenziale, e non già di “trattativa” come alcuni sostengono e molti, come pappagalli, ripetono».

All’inizio di giugno era stato approvato in consiglio dei ministri il cosiddetto ‘decreto Falcone’, in cui si ripristinava l’applicazione del regime speciale del carcere duro agli imputati per reati di mafia, quello che sarà poi battezzato 41-bis, e parte della normativa sui collaboratori di giustizia. Troverà la conversione in legge e la prima applicazione del carcere duro solo dopo la strage di via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino.

Il giorno dopo l’approvazione del decreto Falcone, cioè il 9 giugno, arriva una telefonata alla sede Ansa di Palermo che dice con spiccato accento catanese (richiamando la sigla Falange Armata, di cui pure ha parlato il collaboratore di giustizia che ha contribuito a riscrivere la storia della strage di via D’Amelio, Gaspare Spatuzza) che “i politici hanno ottenuto quello che volevano, noi no”, “certe cose non sono state rispettate” ed aggiunge che “il carcere non si doveva toccare”.

Ciancimino senior, inizierebbe qui il suo compito: risultano infatti i contatti tra lo stesso don Vito con Antonino Cinà e Pino Lipari, che a loro volta contattano i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Siamo al 19 giugno, e qui è ancora una relazione del ROS ad apparire quanto mai profetica: la nota, redatta dal generale Subranni informa sulla possibilità che Borsellino sia nel mirino di Cosa Nostra e sulle pressioni “in forme indirette, su esponenti politici, miranti a deflazionare l’impegno dello Stato contro la criminalità”.

Con Borsellino una delle possibili vittime citate nell’informativa è ancora il deputato della Dc Calogero Mannino. Effettivamente l’attenzione di Cosa Nostra è spostata su Mannino, ma Giovanni Brusca, riceve l’ordine di non continuare nella preparazione dell’attentato all’onorevole Dc. Sentito, Brusca spiega che l’unica informazione che gli viene data è che Cosa Nostra era “sotto lavoro per cose più importanti”.

Il capitano De Donno si reca a Roma e incontra al Ministero di Grazia e Giustizia, Liliana Ferraro, direttore dell’Ufficio Affari Penali. Ferraro ha appena sostituito Falcone, di cui è stata la più stretta collaboratrice al ministero. De Donno la informa dei contatti avuti con Ciancimino e chiede anche un ‘sostegno politico’ per l’iniziativa che stavano intraprendendo, vista la possibilità per Ciancimino di diventare un collaboratore. A questo punto la direttrice dell’Ufficio prima diretto da Falcone chiede a De Donno di riferire del contatto a Paolo Borsellino, o comunque di informare l’autorità giudiziaria. Informazione che non arriverà mai sul tavolo del magistrato.

L’ultima settimana di luglio ci sono nell’ordine un incontro alla caserma Carini tra Borsellino, De Donno e Mori. I due sono stati convocati dal giudice perché Paolo Borsellino vorrebbe continuare l’indagine “Mafia e appalti”, condotta in precedenza dallo stesso De Donno e su cui anni dopo si scoprirà giravano due versioni, di cui una ripulita dai nomi di imprenditori e politici nazionali. Tuttavia sia Mori sia De Donno, unici testimoni di quell’incontro, smentiscono la possibilità che si sia parlato dei contatti con Vito Ciancimino.

Ricorda Liliana Ferraro che successivamente a quel 25 giugno in cui sarebbe dovuto avvenire l’incontro tra Mori, De Donno e Borsellino, incontra il magistrato all’aeroporto di Fiumicino. Ferraro informa Borsellino della visita al ministero di De Donno, ma , lo stesso magistrato “non ebbe alcuna reazione, mostrandosi per nulla sorpreso e quasi indifferente alla notizia, dicendomi comunque che ‘se ne sarebbe occupato lui”.

Ecco allora che sempre verso la fine di giugno, secondo il racconto di Massimo Ciancimino viene mostrato il famigerato ‘papello’. Le richieste di Cosa Nostra allo Stato per far cessare le stragi: i desiderata della mafia siciliana sarebbero scritti su un foglio di carta vergato da Totò Riina e verrebbe consegnato da Antonino Cinà a Vito Ciancimino. In questa occasione farebbe capolino anche il famoso “signor Carlo/Franco”, di cui parla Massimo Ciancimino, ma a cui lo stesso non è mai riuscito a dare un volto, ma solamente a indicarlo come appartenente ai servizi segreti.

Il papello di Massimo Ciancimino e la perizia: «emerge con chiarezza che ci troviamo di fronte ad un risultato probatoriamente nullo»

Ecco le richieste del primo papello, su cui rimangono comunque molti dubbi, tutti espressi nell’ordinanza con cui la procura di Caltanissetta chiede il nuovo processo per la strage di via d’Amelio. Si legge infatti “Quanto alle analisi sulla manoscrittura, il c.d. papello, non è risultato essere riferibile né a Vito CIANCIMINO, né a Nino CINA’, né a Pino LIPARI, né al restante materiale offerto in comparazione (e, dunque, neanche a RIINA Salvatore)”, pertanto “emerge con chiarezza che ci troviamo di fronte ad un risultato probatoriamente nullo”. Per altro anche quel riferimento al “decreto sul 41-bis” suona prematuro, cosa che nemmeno la stampa aveva mai riportato, riferendosi, al massimo, all’articolo 19 del decreto Falcone, o decreto ‘306’.

  Revisione del Maxiprocesso a Cosa Nostra

 – Annullamento decreto legge 41-bis (carcere duro – Se il ‘papello’ è stato consegnato il 28 giugno, vi è in Cosa Nostra hanno dato attenta lettura al cosiddetto ‘decreto Falcone’, al tempo definito dagli addetti ai lavori come ‘306’. Il testo, pubblicato solo l’8 giugno 1992 in gazzetta ufficiale, vede il tema di 41-bis citato all’articolo 19 del decreto e prevede un aggiunta all’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, cioè la sospensione “delle normali regole di trattamento penitenziario”. Tanto è che le cronache in quel periodo non parlarono praticamente mai di 41-bis, ma al massimo di “regime carcerario duro”, senza contare che il primo ‘41-bis’ comminato ai mafiosi risale al 20 luglio, giorno immediatamente successivo alla strage di via d’Amelio, ndr)

  Revisione legge Rognoni-Latorre (quella che introdusse il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e le prime norme sul sequestro e la confisca dei beni, ndr)

 – Riforma legge pentiti

 – Riconoscimento benefici dissociati (della possibilità della dissociazione si discute negli ambienti di Cosa Nostra, e anche tra la politica, la società civile e la stessa amgistratura con gli investigatori. Una ipotesi a cui Paolo Borsellino è completamente contrario, ndr)

  Arresti domiciliari dopo 70 anni di età

  Chiusura super carceri

  Carcerazione vicino le case dei familiari

  Niente censura posta familiari

  Misure prevenzione sequestro non familiari

  Arresto solo fragranza (sic!) di reato

  Levare carburanti tasse come Aosta

Vi è poi la seconda versione del ‘papello’, cioè quella redatta di pugno da Vito Ciancimino. Una versione più presentabile, stilata grazie anche alla consulenza del figlio Giovanni, avvocato, il quale, sentito a Caltanissetta, confermerà le parole del padre “sono stato incaricato da persone altolocate di trattare con alcuni personaggi dell’altra sponda per evitare che questa sia una mattanza”. Così si arriva al ‘papello di Vito Ciancimino’, stilato di pungo dall’ex sindaco di Palermo e indirizzato a Virginio Rognoni, Nicola Mancino e al ‘ministro guardasigilli’, cioè Claudio Martelli, i quali riferiscono di essere estranei alle richieste. Allo stesso modo anche gli operatori del ROS escludono di essere mai venuti in possesso dei papelli.

Gli operatori del ROS escludono di essere mai venuti in possesso dei papelli

VERSO LA STRAGE DI VIA D’AMELIO– In quei giorni Borsellino prosegue il suo lavoro e il primo luglio si reca dal neo-ministro Mancino, appena insediatosi al ministero dell’Interno al posto dell’onorevole Scotti. «Ci fu il tempo di una stretta di mano», ricorda Mancino dopo aver addirittura negato di aver incontrato Borsellino. Aliquò che accompagna il giudice conferma la circostanza dell’avvenuto incontro con l’allora ministro dell’Interno, al contrario Mutolo, il pentito che Borsellino stava interrogando prima di recarsi da Mancino, afferma di aver visto Borsellino agitato al ritorno. Il pentito afferma di aver chiesto a Borsellino il motivo dell’agitazione. Il giudice risponderà «che ministro e ministro, io ho visto Contrada e Parisi». Mancino è finito indagato dalla procura di Palermo che ne ha richiesto il rinvio a giudizio nell’ambito dell’indagine sulla trattativa con l’accusa di falsa testimonianza. Per i pm di Palermo Mancino sarebbe stato a conoscenza dei rapporti tra i ROS e Vito Ciancimino, mentre questi lo ha negato davanti ai magistrati nel febbraio scorso.

Pochi giorni prima dell’incontro con Mancino, e la circostanza è rivelata dai diretti interessati sentiti dalla procura di Caltanissetta, Paolo Borsellino incontra i pm Alessandra Camassa e Massimo Russo. I due riferiscono di aver visto Borsellino nel suo ufficio piangere: «In uno degli incontri – riferisce la dottoressa Alessandra Camassa – avvenuto in un giorno compreso tra il 22 ed il 25 giugno 1992, si verificò un episodio che mi impressionò, poiché per la prima volta in vita mia, a prescindere dal giorno della morte del dott. Falcone – vidi Paolo piangere […]Ricordo che Paolo – anche questo era insolito – si distese sul divano e, mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi , disse: “non posso pensare … non posso pensare che un amico mi abbia tradito”. Non chiesi spiegazioni perchè ero molto turbata per il pianto di Paolo e perché lì compresi che era molto addolorato e stupito per il tradimento di un amico, del quale, però, si comprendeva non aveva intenzione di rivelare l’identità».

Nello stesso periodo arriverà sul tavolo del procuratore capo Giammanco una nota dove si fa riferimento a un imminente attentato ai danni di Paolo Borsellino. Borsellino non ne sa nulla, è avvisato dal ministro della difesa Andò. «L’indomani – ricorda Agenese Piraino Leto, vedova di Paolo Borsellino – incontrò Giammanco nel suo ufficio – spiega ancora la moglie Agnese -, e gli chiese conto di questo fatto. Giammanco (i rapporti tra lui e Borsellino erano tesissimi) si giustificò dicendo che aveva mandato la lettera alla magistratura competente, e cioè alla Procura di Caltanissetta. Mi ricordo che Paolo perse le staffe, tanto da farsi male ad una delle mani, che – mi disse – battè violentemente sul tavolo del Procuratore».

In questo clima si inserisce la strage di via d’Amelio, una decisione definita «anomala», in quanto troppo ravvicinata a Capaci e con la conseguenza di scatenare una reazione forte dello Stato. Stato che la sera stessa della strage, su cui sta approfondendo, proprio in virtù di quella accelerazione anomala la procura di Caltanissetta, applica i primi provvedimenti al 41-bis per i mafiosi, firmati dallo stesso ministro Martelli.

LE STRAGI DEL 1993 E LA QUESTIONE 41-BIS – Il 1993 è un altro annus horribilis. Ci sono le stragi di Roma, Firenze e Milano, che provocheranno altre vittime, feriti e danni anche al patrimonio artistico. Proprio nel 1993 si gioca, per la magistratura palermitana, la partita sul 41 bis. Il ministro della giustizia Giovanni Conso, subentrato a Martelli, dimissionario a causa dello scandalo per il ‘conto protezione’, non rinnova il carcere duro per oltre 300 detenuti. Sono pochi gli esponenti di spicco di Cosa Nostra presenti in quella lista, ma andava lanciato un “segnale di distensione”. Così definiva la non proroga dei 300 41-bis il direttore del DAP Capriotti in una nota del giugno 1993.

Il 10 agosto del 1993 la DIA redige una nota riservata che invia al ministro Mancino: «Gli attentati recenti potrebbero presumibilmente riferirisi alla ricerca di un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tenda ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità». La nota prosegue e parla proprio di 41-bis «l’eventuale revoca , anche solo parziale, dei decreti che dispongono l’applicazione dell’articolo 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe».

Una nota comunque da leggere nella sua interezza in grado di aprire uno scenario illuminante per lo stato dell’arte delle indagini dell’epoca e una probabile saldatura, il pactum sceleris, tra poteri criminali presenti sul territorio nazionale.

Conso dice di non aver prorogato i provvedimenti in perfetta solitudine e di non ricordare la nota firmata da Capriotti. Fatto sta che i provvedimenti rientrano e da gennaio 1994 si conclude la strategia stragista di Cosa Nostra con il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma ai danni dei Carabinieri. Successivamente, sempre nel gennaio, vengono arrestati anche i fratelli Graviano, fautori della linea stragista dopo l’arresto di Riina. Arresti che segneranno la fine del sangue in quel terribile biennio

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UN NUOVO PATTO DI CONVIVENZA TRA STATO E COSA NOSTRA E L’INDAGINE DI PALERMO – Secondo i magistrati di Palermo e Caltanissetta Borsellino venne percepito come un «ostacolo» alla trattativa, e per questo eliminato. Da qui il ricatto allo Stato di Cosa Nostra. Ricatto che nonostante la reazione con arresti e repressione non si sarebbe fermato. E’ proprio questo il teorema dei magistrati di Palermo, uno Stato vittima di una estorsione (da parte mafiosa), e di chi quella estorsione l’ha veicolata, cercando di stabilire un nuovo patto di convivenza tra Stato e Cosa Nostra saltato invece nel 1992 con il lavoro di Falcone, Borsellino e colleghi. 

La pressione non si ferma e qui entrano in scena nuovi protagonisti che finiscono sul banco degli imputati nell’inchiesta palermitana: oltre a Calogero Mannino (primo interlocutore per l’inizio della trattativa), i Carabinieri (De Donno, Subranni e Mori) e il ministro Mancino, arriva anche Marcello Dell’Utri, che si propose come «interlocutore di Cosa Nostra» e, conseguentemente, quando salì al governo Silvio Berlusconi, fece arrivare sul suo tavolo del presidente del Consiglio «la ricezione della minaccia» di Cosa Nostra. Il personaggio cerniera tra Cosa Nostra e Dell’Utri è ancora quel Vittorio Mangano (l’ormai famoso ‘stalliere’ mafioso, assunto dall’ex premier nella sua villa di Arcore) che avrebbe portato la minaccia di uomini d’onore come Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, prospettando «una serie di richieste a ottenere benfici di varia natura».

L’indagine della procura di Palermo è durata quattro anni e ha preso il via dalle dichiarazioni e dalle produzioni documentali di Massimo Ciancimino. Gli indagati dalla procura di Palermo sono dodici. In cima alla lista ci sono i padrini di Cosa Nostra Totò Riina, Giovanni Brusca, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Loro avrebbero condotto la trattativa lato Cosa Nostra. La lista prosegue con politici e rappresentanti delle istituzioni come Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, personaggi di vertice del ROS dei Carabinieri, protagonisti secondo la ricostruzione dei pm per aver agevolato «un canale di comunicazione finalizzato a sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra», così come il «protrarsi della latitanza di Provenzano, principale referente mafioso della trattativa». Su questo punto è già in corso un processo che coinvolge Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu.

Tra i personaggi della politica vi è poi Calogero Mannino, all’epoca ministro e secondo l’accusa apripista dei primi contatti con i boss e per aver esercitato, dopo le stragi del ’93 «indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario». Azioni che si sarebbero poi concretizzate, sempre secondo l’accusa con la mancata proroga dei 300 provvedimenti di carcere duro decisi dal ministro Conso nel 1993. Il tutto con il benestare del vicedirettore del DAP Di Maggio e del prefetto Parisi (entrambi deceduti); l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, il braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri.

Risulta indagato anche Massimo Ciancimino accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per il ruolo di ‘postino’ tra il padre e i capimafia, e calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, anche tramite un biglietto contraffatto attribuito al padre Vito, secondo cui lo stesso signor Carlo/Franco avrebbe risposto al nome dello stesso De Gennaro.

IL PROCESSO MORI E QUELLO ALLA “TRATTATIVA” – Strettamente legato al processo sulla cosiddetta trattativa è quello che ha visto assolti Mario Mori e Mauro Obinu, protagonisti, secondo la ricostruzione dei pm di Palermo, dell’approccio per intavolare la trattativa stessa. Mori e Obinu, accusati di aver favoreggiato la latitanza di Bernardo Provenzano, sono stati assolti in giudizio nel luglio 2013: un processo durato cinque anni che non ha dimostrato la tesi dei pm, e che inserendo Mori tra gli indiziati per la trattativa hanno indissolubilmente legato i destini dei due procedimenti.

Nel processo sulla trattativa intanto i pm cercano di far entrare anche le carte riguardanti il cosiddetto “protocollo Farfalla”, cioè la pratica dei servizi segreti di retribuire alcuni detenuti in regime di 41-bis per ottenere informazioni riguardanti le organizzazioni mafiose. L’accordo tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Sisde parte nel 2004 ed emerge alcuni anni dopo. Recentemente lo stesso Mario Mori è stato convocato dal Copasir per riferire sul tema: Mori ha dunque rifiutato di essere sentito dal comitato di controllo parlamentare sui servizi proprio perché, ha riferito all’Ansa «Siccome l’operazione ‘Farfalla’ fa parte del processo sulla trattativa, la mia intenzione è parlarne in quel processo e non voglio anticipare le mie mosse in un’altra sede».

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