Lo scorso luglio Linkiesta ha pubblicato alcuni articoli sulla situazione dei campi rom nella Capitale. In questi giorni abbiamo ricevuto una lettera aperta firmata da alcuni ricercatori universitari che critica il reportage, proponendo alcune riflessioni sull’argomento.
IL DEGRADO DI UN REPORTAGE
Lettera aperta al quotidiano web Linkiesta
Gentile Direttore,
Le scriviamo in merito al reportage “La Roma dei rom”, pubblicato sul suo giornale in tre puntate il 12, il 14 e il 15 luglio scorsi. Sebbene si tratti di un reportage di qualche mese fa, ci preme segnalare la nostra preoccupazione crescente per il discorso mediatico sui rom in Italia. Da ricercatori impegnati a vario titolo da diversi anni a comprendere e spiegare le condizioni economiche, sociali, politiche e culturali in cui rom, sinti e altre minoranze, migranti e non, vivono in Europa, con questa lettera aperta vogliamo intervenire nei confronti di un reportage che definiamo stigmatizzante, criminalizzante e razzista. Ci sembra che quando si tratta di rom e sinti la serietà di questioni come stigmatizzazione, criminalizzazione e razzismo sia troppo spesso ignorata e/o declassata da parte di commentatori e giornalisti. Per questo motivo, con questa lettera vorremmo portare all’attenzione della redazione e dei lettori l’importanza di adottare linguaggi e di veicolare informazioni con criteri di rigorosità non inferiori a quelli richiesti per qualsiasi altro tema; una volta chiarite le nostre posizioni, le ragioni e i limiti della nostra critica, suggeriremo due modi in cui questo potrebbe essere raggiunto.
Stigma
Il principale stigma che attraversa tutto il reportage è il termine nomadi. Ci sembra superfluo dover ancora spiegare che oggi il nomadismo, se così si può chiamare, caratterizza solo una piccola minoranza di rom in Europa. Anche la “Strategia del governo italiano di inclusione dei rom, dei sinti e dei camminanti” (2012) esplicitamente osserva che “è ormai superata la vecchia concezione, che associava a tali comunità, l’esclusiva connotazione del “nomadismo”, termine superato sia da un punto di vista linguistico che culturale e che peraltro non fotografa correttamente la situazione attuale” (p.4) E ci sembra ancora più superfluo dover ricordare che prima di accollare un nome a una popolazione è necessario sapere come quella popolazione si definisce. E’ dal primo congresso della Romani Union nel 1971 che i rom hanno deciso ufficialmente di definirsi esclusivamente rom (romá in serbocroatobosniaco, Roma o Romanies in inglese, ecc.).
Potrebbe sembrare che il termine nomadi sia neutro, ma non lo è, e lo stigma che porta con sé arriva da secoli di sistematica esclusione. Se nel tardo rinascimento il nomadismo stigmatizzava chi non si uniformava al corpo nazionale, nell’800 divenne tra le prime perversioni teorizzate da criminologi e antropologi, e fino a pochi decenni fa il nomadismo era ancora considerato una tendenza ereditaria difficilmente riformabile. Solo per citare un esempio, Charles Davenport nel 1915 pubblicò un libro intitolato The feebly inhibited: Nomadism, or the wandering impulse, with special reference to heredity, Inheritance of temperament [Il debolmente inibito: l’impulso all’erranza con speciale riferimento all’eredità. L’eredità del temperamento]. Questi dati allora diventano cruciali per capire l’effetto di reciproco consolidamento tra il termine “nomadi” e il contesto ecologicosociale nel quale vengono descritti i rom nel vostro reportage: “nomadi” è sempre usato per stabilire una corrispondenza tra persone e ambiente circostante degradato, in opposizione a “persone” che designa un categoria più consona a condizioni di vita “normali” o “civili”:
La Polizia locale di Roma Capitale ha censito 4.851 persone all’interno dei sette villaggi attrezzati e dei due tollerati. A queste si aggiungono i 6.900 nomadi trovati nei quasi duecento campi abusivi individuati dal 2013 a oggi (terzo articolo).
A fare da sfondo alla stigmatizzazione, rafforzandone l’effetto, è la descrizione a più riprese in uno stile quasi da fiction noir, in cui un territorio periferico e depresso, lasciato a se stesso e per tanto degradato, diventa la cornice perfetta per descrivere esseri sinistri e alieni, i “nomadi”:
Capitale parallela: una città fatta di nomadi, invisibili, senzatetto, abusivismo edilizio e ambientale.
Le modalità abitative dei rom sono descritte a volte come campi, a volte come “insediamenti”, a volte come “accampamenti”, veicolando l’idea che i propri abitanti siano sì stranieri insediati, ma possibilmente anche invasori, che cioè occupano una terra non loro:
Tor di Quinto, Roma Nord. A un passo dai quartieri alti di Corso Francia e Collina Fleming, a poche centinaia di metri dagli aperitivi alla moda di Ponte Milvio, cʼè un pezzo d’inferno. Lungo una breve striscia dʼasfalto bruciano i corsi e ricorsi storici di una città in eterno affanno. Discariche abusive, cani randagi, baracche, prostitute in camper. (primo articolo; enfasi aggiunte)
E all’interno di questo quadro, quasi imbarazzante per come riesca a unire desolazione e ricerca stilistica, il riferimento a un crimine, e a Romulus Nicolae Mailat come “sbandato”, adattandosi bene al contesto di disperazione e degrado:
Lʼomicidio della signora Reggiani per mano dello sbandato Romulus Nicolae Mailat, clamoroso episodio di cronaca nera nonché volano della campagna elettorale di Gianni Alemanno avvenne qui vicino, era il 2007 (primo articolo; enfasi aggiunta).
E subito dopo un accenno all’omicidio Esposito, avvenuto “sempre qui”, senza sottolineare che l’episodio non ha nulla a che fare né col campo di Tori di Quinto, né coi rom. Però è chiaro che l’accenno rientra nella strategia narrativa accattivante soggetti sinistri in luoghi sinistri – perpetuando in questo modo la corrispondenza tra soggetti e ambiente circostante. Oppure si descrivono atti di vandalismo, ma non si dice chi c’è dietro ad essi. Ancora, ci si chiede: un’inchiesta, o un tentativo di descrivere il degrado urbano nel modo più accattivante possibile? Per esempio:
All’ingresso del campo fa bella mostra una mercedes Classe A carbonizzata, data alle fiamme nella notte (secondo articolo).
Criminalizzazione
Spesso lo stigma assume significati criminalizzanti. Se la discriminante di classe sociale (quartieri alti/città ufficiale vs. degrado/città parallela) e quella umana (romani vs. nomadi) rientrano coerentemente nell’atmosfera quasi noir di sinistro degrado dipinta nel reportage, un’ultima componente fondamentale, l’azione, completa coerentemente il quadro. Questa è rappresentata organizzandola esclusivamente intorno alla dicotomia legalità vs devianza/criminalità. Tre azioni emergono: quella, l’unica, autorevole e legalizzante delle forze dell’ordine, quella di reazione disperata dei vicini che potrebbe sfociare in compresa illegalità, e infine quella de “nomadi”, sempre e solo devianti. Il quadro risulta organizzato in queste tre parti perfettamente distinte e mutualmente esclusive, tanto che finisce per sembrare a tratti autoironico:
Allʼinterno degli insediamenti sono state sequestrate locande che smerciavano bibite, persino panifici abusivi allestiti nelle baracche (terzo articolo; enfasi aggiunte)
Locande? Negli “insediamenti”? Interessante: come nello sporco Far West, viene da pensare. E persino panifici abusivi! Ci si chiede se quest’ultimo dato sia stato aggiunto per sollevare un po’ di empatia tra i lettori nei confronti di situazioni abitative difficili, per usare un eufemismo. Andando avanti nella lettura, i “nomadi” non sembrano essere descritti molto diversamente da criminali:
crogiolo di etnie dalla convivenza difficile e dalle attività spesso illecite (primo articolo).
Allʼinterno dei campi si trova anche chi di motivi per soggiornare a spese della collettività non ne avrebbe. Nel 2013 le forze dellʼordine hanno scoperto conti correnti, gioielli e depositi titoli per dieci milioni di euro. Altri due milioni a gennaio 2014 (primo articolo).
Razzismo
Nomadi, in quanto eteronimo stigmatizzante, cioè nome non scelto ma attribuito a una certa popolazione che rimanda ad attributi considerati anormali e sinistri, è, in quanto tale, equivalente, per esempio, alla parola che comincia con “n” per definire Neri. Pochi non definirebbero quella parola razzista. Ci preme anche ricordare che nonostante il termine razzismo sia generalmente banalizzato, affiancandolo a “opinione individuale discriminatoria”, con esso si definiscono logiche culturali di dominio, e sistemi di disuguaglianze strutturali costitutivi non solo di apparati burocratici e processi di decisionmaking, ma anche del modo di pensare, parlare e agire comune a molte persone, a tal punto che riusciamo a fatica a metterlo a fuoco. Per tanto, ci sembra razzista ogni linguaggio che riproduce quei meccanismi e quei sistemi non perché vediamo in esso un’opinione personale, sebbene quella conti, ma perché ne ravvisiamo la funzione reiterante, a volte involontariamente, di una struttura culturale, politica ed economica di dominio razziale. L’esempio forse più eclatante di questo incontro tra stigma, linguaggio e istituzioni sono gli “ufficio nomadi” e soprattutto i “campi nomadi” sparsi per il paese. Lì lo stigma non fa solo parte della struttura istituzionale, ma ne definisce il perimetro delle funzioni e delle azioni. Nel caso dell’espressione “campi nomadi” è eclatante l’eco de i campi novecenteschi che hanno puntualmente servito il concentramento di persone considerate “in eccesso” rispetto ai vari ordini nazionali europei, prima ancora di stabilire quale misura prendere in risposta a quell’eccesso. Considerato a partire da questo passato e dal suo retaggio culturale, il razzismo
nel reportage non si trova nell’uso di quelle espressioni. Si trova, invece, in passaggi in cui lo stigma –spesso criminalizzante, come abbiamo visto – stabilisce una definitiva gerarchia tra gruppi nella quale i “nomadi” occupano la posizione inferiore, attribuendo impliciti giudizi morali, connessi all’idea del continuum di civilizzazione:
nomadi che, a tutte le ore del giorno, passano al setaccio i cassonetti (terzo articolo).
Il razzismo si esplicita quando i giornalisti non prendono le distanze da frasi che suonano come incitazioni alla violenza. La situazione di anormalità criminale nel quale i nomadi di Roma vivono ha causato, si racconta, la costituzione di un gruppo di “volontari” che abitano vicino ai campi. Le parole del presidente di questo gruppo, parole che alludono ad azioni criminali e violente nei confronti dei rom, vengono riportate senza alcuna presa di distanza: è come se i giornalisti riuscissero a empatizzare non solo con la disperazione dei vicini, ma anche con le loro incitazioni alla violenza.
«Da un momento all’altro può succedere qualcosa —racconta ancora Pirina — spiace dirlo, ma abbiamo già scritto al prefetto per avvertirlo che qualcuno potrebbe compiere azioni violente ed eclatanti nei confronti del campo nomadi. La gente ormai è esasperata». (secondo articolo).
Infine il quadro da voi dipinto è sostenuto dalla foto gallery – in queste foto il lettore/la lettrice trova le “conferme” su quanto “descritto” nei reportage, cioè: spazi abbandonati e degradati, sporcizia, fumi tossici, persone che frugano nei cassonetti e perfino rischiano esservi “inghiottiti” –la scelta dei soggetti fotografati non solo appare stereotipata ma rischia di reiterare immagini e temi da sempre esistenti nel razzismo contro i rom. Infine reportage e foto gallery creano una distorsione dei fatti: causa del degrado delle periferie della capitale da voi descritto sembrano essere gli stessi rom e non la fallimentare amministrazione locale. Gravissima inoltre è la foto della scritta sul muro che incita alla violenza contro i rom, violenza tra l’altro messa in atto più volte contro queste persone.
Due problemi e due proposte
Qual è, in sintesi, il problema? Questo reportage intendeva essere il quadro di un degrado. A noi è sembrato il degrado di un reportage. A noi sembra che le tre questioni che abbiamo discusso - stigmatizzazione, criminalizzazione e razzismo nei confronti dei rom – si siano sedimentate nei secoli, portando a una diversificazione delle ragioni e delle responsabilità dell’esclusione dei rom, coinvolgendo quindi non solo élite politiche ed economiche, ma anche culturali. E ci sembra inoltre che uno dei problemi più seri alla base della stigmatizzazione, criminalizzazione e del razzismo nei media italiani sia una generale ignoranza e indifferenza nei confronti della storia di rom e sinti in Italia. Soprattutto, quando si parla di marginalità urbana, la storia dell’emarginazione da parte dello stato, che nel ‘900 ha assunto diversi tratti, dalla gestione burocratica disarticolata e improvvisata d’inizio secolo, alla sistematica deportazione, sperimentazione eugenetica, e messa a morte di un numero elevato di rom e sinti nei campi fascisti e nazisti, fino alle misure educative e rieducative iniziate negli anni ’70 e continuate con l’imposizione per legge dei campi nomadi in dodici regioni.
La prima proposta è quindi far sì che i giornalisti conoscano bene la storia dell’esclusione/inclusione sociale di rom e sinti in Italia prima di scrivere articoli sull’argomento. Soprattutto per analisi articolate come in un reportage, pensiamo che un giornalismo avveduto si senta responsabile di informarsi sulle dinamiche che storicamente sedimentandosi hanno portato alla situazione che si va a investigare. Ci rendiamo disponibili, se fosse utile, a fornire liste di letture, e a far circolare articoli ed estratti di volumi in PdF.
Il secondo problema, legato al primo, ma per molti versi indipendente da esso, è il linguaggio. Già nel 2008 Gad Lerner propose di sostituire la parola “rom” con la parola “ebreo” nelle cronache sulla sicurezza urbana che così stava a cuore a prefetti, primi ministri e sindaci in quegli anni. Proviamo a farlo nel caso di “nomadi” in questo reportage. Muovendo da qui, la seconda nostra proposta è semplicemente “fate attenzione”. Il linguaggio è il vostro, come il nostro, strumento di lavoro più importante.
FIRMATARI:
Giovanni Picker (Central European University)
Simona Pagano (Universität Göttingen, Germania)
Ioana Vrabiescu (University of Amsterdam, IMES Institute for Migration and Ethnic Studies)
Giulia Prestia (Cooperativa Sociale Pralipé)
Camilla Hawthorne (University of California at Berkeley)
Gabriele Roccheggiani (Università di Urbino)
Ulderico Daniele (Osservatorio sul razzismo Università di Roma Tre)
Dimitris Argiropoulos (Università di Bologna)
Chiara Manzoni (Università di Milano Bicocca)
Alice Sophie Sarcinelli (Institut de Recherche Interdisciplinaire sur les Enjeux Sociaux/Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris)
Anna Simone (Università di Roma Tre)
Silja Klepp (Research Center for Sustainability Studies, University of Bremen, Germania)
Tommaso Vitale (Sciences Po, Centre d’Etudes Européennes, Parigi)
Kitti Baracsi (Università di Pécs, Unghería)
Maria Laura Corradi (Università della Calabria)
Pietro Saitta (Università di Messina)
Marco Brazzoduro (Università di Roma La Sapienza)
Andrea Mambretti (Università di Milano Bicocca)
Fabio Quassoli (Università di Milano Bicocca)
Salvatore Palidda (Università di Genova)
Matteo Bassoli (Università Telematica eCampus/Università Commerciale L. Bocconi)
Barbara Giovanna Bello (Università di Milano)
Nazzareno Guarnieri ( Fondazione romanì italia )
Vanessa Cirillo ( Fondazione romanì italia - Pescara)
Volentieri rispondiamo:
Anzitutto ringraziamo i firmatari della lettera aperta. Ben vengano le critiche agli articoli che abbiamo pubblicato nei mesi scorsi, così come le proposte di riflessione offerte. Leggiamo con grande attenzione i rilievi che ci vengono mossi, così come l’invito ad “adottare linguaggi” e “veicolare informazioni” con particolari “criteri di rigorosità”. La speranza è che questo confronto possa rappresentare lo spunto per un interessante approfondimento sull’argomento trattato.
Se le critiche sono bene accette, lo sono meno le accuse di razzismo. Non condividiamo la scelta di definire questo reportage «stigmatizzante, criminalizzante e razzista». Abbiamo cercato di raccontare una realtà complessa, con tutti i limiti del caso. Ma sempre con imparzialità e distacco. E per farlo ci siamo confrontati e abbiamo riportato i punti di vista di tutte le parti in causa. Dagli abitanti dei campi, ai cittadini che risiedono lì vicino, senza dimenticare i rappresentanti delle istituzioni e le associazioni che rappresentano le comunità Rom, Sinti e Caminanti.
È difficile e forse fuorviante entrare nel merito di tutti i rilievi. A partire dalle critiche sulla descrizione di Tor di Quinto. Del resto per verificare che a poche centinaia di metri dagli aperitivi alla moda di Ponte Milvio si incontrano discariche abusive, cani randagi, baracche e prostitute in camper – a prescindere dallo “stile quasi da fiction noir” usato nel reportage – è sufficiente fare un giro in quella zona di Roma.
Ancora. Raccontare che nei campi siano stati rinvenuti panifici abusivi, non tende affatto ad improbabili paralleli con «lo sporco Far West», né tantomento a «sollevare un po’ di empatia tra i lettori nei confronti di situazioni abitative difficili». È semplice cronaca. Le istituzioni preposte al controllo dei campi ci hanno dato notizia della presenza di un panificio abusivo, tutto qui. Raccontando la vita all’interno dei campi – seppure con tutti i nostri limiti – dovevamo forse omettere questo passaggio?
Eppure ci si accusa di essere razzisti. Razzismo che «si esplicita quando i giornalisti non prendono le distanze da frasi che suonano come incitazioni alla violenza». In particolare, nella lettera aperta, si fa riferimento allo sfogo di una persona, di cui viene fornito nome e cognome, che abita vicino a uno dei principali campi di Roma ed è il presidente di un comitato di quartiere. Dichiarazioni peraltro già fornite alle autorità, come scriviamo. Dovremmo censurare queste reazioni? Siamo giornalisti, raccontiamo quello che vediamo. Cercando, al meglio delle nostre possibilità, di evitare interpretazioni o letture personali. Esattamente come abbiamo fatto riportando i punti di vista e le dichiarazioni di un abitante dello stesso campo. Ma anche delle associazioni vicine alle realtà Rom e Sinti.
Detto questo, riceviamo e pubblichiamo con grande interesse la vostra lettera aperta. Le obiezioni saranno spunto di profonda riflessione e attenta autocritica. Accettiamo volentieri rilievi, appunti e anche “liste di letture” che in futuro possano aiutarci a comprendere meglio il fenomeno e raccontare questi argomenti con maggior consapevolezza (l’umiltà è alla base di questo mestiere). Ne avremmo parlato volentieri anche a voce, sempre nell’ottica di un maggior dialogo e confronto. Purtroppo non è stato possibile.
Marco Sarti e Marco Fattorini