Il conflitto tra Matteo Renzi e i sindacati non è recente. Quella che è andata in scena il 7 ottobre nella sala verde di Palazzo Chigi è solo l’ultima puntata di una sfida iniziata già ai tempi del Renzi sindaco di Firenze. Nella lista delle cose da rottamare, i sindacati ci sono sempre stati. Ancora prima della prima Leopolda, quando i rottamatori si riunivano dietro il sito iMille, venne organizzato a Roma un evento dal titolo profetico: “La necessità di uccidere il padre”. Nella figura del padre, evidentemente, il presidente del Consiglio (oltre ai suoi capi di partito) vedeva anche anche quel mondo sindacale che faceva fatica a stare al passo con i cambiamenti del mercato del lavoro e a raccogliere consensi tra i giovani.
Era il novembre 2010 e un Matteo Renzi ancora alleato di Pippo Civati dal palco della prima Leopolda sognava «un Paese che renda il lavoro meno incerto, ma il sussidio più certo». Gli attacchi diretti alle sigle sindacali e il sostegno a Marchionne sul piano di rilancio della Fiat sarebbero arrivati di lì a poco. Il sodalizio con Civati si sarebbe spezzato. Il primo vero match tra Renzi e la leader Cgil Susanna Camusso si consuma meno di un anno dopo. Renzi, intervenendo a In ½ ora su Rai Tre, difende la scelta di aver permesso l’apertura dei negozi del centro storico di Firenze per il primo maggio. E non si ferma qui: attacca i sindacati che «fatturano centinaia di milioni di euro» e «rappresentano per il 54% i pensionati che hanno uno spazio, ma chi ha 30 anni non lo ha». Li definisce «la coperta di Linus della sinistra». E ai due precari ospiti in trasmissione chiede: «Mettetevi in gioco, non solo stando in una organizzazione che si è occupata dei più garantiti piuttosto di chi non lo è». I sindacati entrano così a far parte di quella casta che va combattuta, cosa di cui si ricorderà anche Grillo qualche anno più tardi.
“I sindacati sono la copertina di Linus della sinistra”
In quella stessa primavera del 2011 combinazione vuole che a Firenze vengano proclamati «scioperi su tutto», come disse Renzi. Nel giro di 24 ore venne annunciato lo sciopero alla prima del Maggio fiorentino, al Teatro della Pergola e all’Ataf, Azienda trasporti dell’area fiorentina. L’allora sindaco di Firenze scrive una nota su Facebook, che più che mettere una pezza suona come una provocazione. Sull’Ataf scrive: «Ok, siamo colpevoli, lo sappiamo: non abbiamo assunto cubiste e parenti di sindacalisti, come accaduto altrove. Però continuiamo a non capire perché fanno sciopero». Sul Maggio fiorentino: «Peccato che lo sciopero proclamato dalla Cgil costringerà la Fondazione a un danno economico perché casualmente organizzato in modo tale da far scattare lo straordinario…». E conclude: «Se i sindacati fiorentini hanno voglia di confrontarsi con noi sul futuro della città sono i benvenuti. Se invece prevale la linea di qualche barricadero fuori stagione che pensa di adeguarci alle consuetudini di un tempo che non c’è più, si sappia che hanno sbagliato obiettivo. Mi hanno eletto i cittadini. Se vorranno mi manderanno a casa i cittadini, non un sindacato in cerca di visibilità».
Pochi mesi dopo, alla Leopolda del 2011, mentre Renzi si divide tra un microfono d’epoca e un Mac, fuori dalla sala ci sono quegli stessi sindacati e quegli stessi lavoratori. Del Maggio Fiorentino e dell’Ataf. «Lui è il sindaco che quando c’è lo sciopero generale lavora», urlano. Renzi dal palco rilancia: «Protestano perché quello che proponiamo per l’Italia qui a Firenze lo facciamo già». La Camusso era stata avvertita. Tanto più che sulle maglie in vendita tra i banchetti c’era scritto: «I dinosauri non si sono estinti da soli».
“Ascoltiamo Confindustria e Cgil, Cisl e Uil ma decidiamo noi. Avremo i sindacati contro? Ce ne faremo una ragione”
Nonostante la folla della Leopolda, il “dinosauro” Bersani non si estingue e vince le primarie del 2012. In piena campagna elettorale la Camusso accusa Renzi di avere atteggiamenti «autoritari e autoreferenziali». E, a urne chiuse, dichiara quello che già tutti sapevano: «Alle primarie ho votato Bersani». Dalle politiche 2013, però, non ne esce sconfitto solo il Pd bersaniano, ma anche tutto l’arco sindacale. Grillo urla: «Aboliamo i sindacati». Poi aggiunge: «Esclusa la Fiom e i piccoli sindacati». Gli ex sindacalisti che sopravvivono allo “tsunami” tra Montecitorio e Palazzo Madama sono pochi. Nel 2013 Renzi vince le primarie, in poco tempo scavalca Enrico Letta e arriva a Palazzo Chigi. Tra i primi tweet da presidente del Consiglio c’è questo: «La disoccupazione è al 12,9%. Cifra allucinante, la più alta da 35 anni. Ecco perché il primo provvedimento sarà il JobsAct #lavoltabuona».
Da neocapo del governo, la location di un nuovo attacco ai sindacati è ancora una volta un salotto televisivo, quello di Che tempo che fa su Rai Tre. Dalla poltrona di Fabio Fazio Renzi prova a mandare in pensione sindacati e Confindustria insieme, dicendo di esser pronto a rinunciare a ogni tipo di concertazione. «Ascoltiamo Confindustria e Cgil, Cisl e Uil ma decidiamo noi. Avremo i sindacati contro? Ce ne faremo una ragione», dice. Del resto, rincara la dose, «cosa avete fatto negli ultimi anni?». Raffaele Bonanni, leader della Cisl, gli risponde con un tweet: «Non faccia l’errore di fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono sindacati e sindacati, come ci sono politici e politici. Tolga i paraocchi».
E Renzi i paraocchi se li toglie, stringendo una strana liaison con il segretario della Fiom Maurizio Landini, quando Landini, tentando la scalata alla Cgil, entra in lotta con la Camusso. Il sodalizio tra i due si celebra nel nome della trasparenza e della riforma del sindacato. Dal congresso della Cgil di Rimini Landini rompe con la segretaria e lancia la proposta di un sindacato «casa di vetro», mettendo online il bilancio della Fiom. Nella spaccatura tra i due c’entra Renzi: mentre la Camusso lo attacca da sempre contrapponendo alla velocità dei primi giorni di governo i riti della concertazione, Landini loda gli 80 euro in più in busta paga, chiedendo addirittura le primarie per la scelta dei leader della Cgil.
Un renziano alla guida dei metalmeccanici? Non proprio. O almeno finché Renzi non nomina l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Nel corso dell’estate c’è chi solleva la questione, ma lui dice che no, la questione della reintegra non è in discussione. In poco tempo, però, si torna sull’argomento che nell’Italia berlusconiana del 2002 aveva portato 3 milioni di lavoratori a Circo Massimo. I tempi, però, questa volta sono cambiati. A proporre l’abolizione dell’articolo 18 è un premier di centrosinistra. I sindacati si spaccano anche questa volta. La Camusso, come al solito, è la più dura: «Mi sembra che il presidente del Consiglio abbia un po’ troppo in mente il modello della Thatcher», dice, e annuncia lo sciopero generale per il 25 ottobre. Landini cambia atteggiamento, diventa furioso, e promette che la battaglia sarà durissima. La Cisl apre a una modifica dell’articolo 18 a patto che venga ridotta la precarietà, ma in quegli stessi giorni Raffaele Bonanni abbandona il sindacato di via Po, in polemica con il governo Renzi e le continue accuse di essere a capo di un sindacato-casta incapace di rinnovarsi: «Con Renzi finisce l’autorevolezza del potere politico, perché rinuncia al dialogo», scrive in un comunicato, e affida il cambiamento del sindacato a una sua fedelissima, Annamaria Furlan, che subito esorta il sindacato a tornare tra la gente.
“L’unica azienda al di sopra dei 15 dipendenti che non ha l’articolo 18 sa qual è? È il sindacato”
Renzi, intanto, prende un cameraman e si fa riprendere a Palazzo Chigi mentre risponde alla Camusso. Il risultato è un video che è la summa del Renzipensiero sui sindacati: «… Quando si parla del lavoro noi non siamo impegnati in uno scontro del passato, ideologico. Noi non siamo preoccupati di Margaret Thatcher, ma di Marta, 28 anni, che non ha la possibilità di avere il diritto alla maternità. Lei sta aspettando un bambino ma a differenza delle sue amiche che sono dipendenti pubbliche non ha nessuna garanzia. Perché? Perché in questi anni si è fatto cittadini di serie A e di serie B. Noi quando pensiamo al mondo del lavoro non pensiamo a Margaret Thatcher. Pensiamo a Giuseppe che ha 50 anni e non può avere la cassa integrazione o a chi, piccolo artigiano, è stato tagliato fuori da tutte le tutele, la banca gli ha chiuso i ponti e improvvisamente si è ritrovato a piedi. Pensiamo a quelli a cui non ha pensato nessuno in questi anni, a quelli che vivono di co.co.co e co.co.pro e che sono condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito occupandosi soltanto dei diritti di alcuni e non dei diritti di tutti». E poi chiede ai sindacati: «Dove eravate in questi anni quando veniva prodotta la più grande ingiustizia che ha l’Italia? L’ingiustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi il lavoro non ce l’ha, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario, e soprattutto tra chi non ha potuto pensare a costruirsi un progetto di vita perché si è pensato soltanto a difendere le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della gente».
Di nuovo, dalla poltrona di Fazio, il 28 settembre scorso Renzi sfida il sindacato: «L’unica azienda al di sopra dei 15 dipendenti che non ha l’articolo 18 sa qual è? È il sindacato, che poi ci viene a fare la lezione». E per rincarare la dose aggiunge che «l’imprenditore non è uno cattivo, deve avere diritto di lasciare a casa» un lavoratore, «ma lo Stato no». E di fronte alla minaccia dello sciopero generale da parte delle forze di polizia dopo l’annuncio del blocco del contratto dei dipendenti pubblici dice: «Se il tono di chi protesta è quello del confronto sarà porte aperte, se il tono è quello del ricatto, non lo accetteremo».
“Noi pensiamo a quelli a cui non ha pensato nessuno in questi anni, a quelli che vivono di co.co.co e co.co.pro e che sono condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito occupandosi soltanto dei diritti di alcuni e non dei diritti di tutti”
Lo scontro di Renzi con il sindacato non è solo fuori dal suo partito ma anche all’interno, visto che di ex sindacalisti il Pd è pieno. Non è un caso che nomi come Cesare Damiano e Guglielmo Epifani siano i più duri verso il Jobs Act renziano, riprendendo questa volta – come fa notare Pietro Ichino – il progetto Boeri-Garibaldi che qualche anno fa avevano duramente criticato. Ma in un sondaggio condotto da Ipsos per il Corriere della sera, viene fuori che due elettori su tre del Partito democratico pensano che i sindacati non siano più in grado di rappresentare giovani, precari e dipendenti delle piccole aziende e che si siano ridotti a rappresentare solo i garantiti.
Non è una sorpresa, quindi, se nella direzione del Partito democratico del 29 settembre, quella dei 130 voti favorevoli, il presidente del consiglio abbia di nuovo lanciato la sfida dei sindacati, ma senza escludere la possibilità di un confronto. E non solo con loro. «Noi oggi abbiamo detto con serenità che gli imprenditori sono dei lavoratori e non dei padroni e che la sinistra si candida a rappresentarli», ha detto. Non a caso, a Palazzo Chigi, un’ora dopo il confronto con i sindacati, il 7 ottobre nella sala verde Renzi ha incontrato pure i datori di lavoro.
D’altronde a Renzi quella piazza caciarona di sinistra da cui vengono i vari Damiano, Camusso, Cofferati e Civati, non è mai piaciuta. Scrive David Allegranti nel suo The Boy che già negli anni Novanta l’adolescente scout si era messo in testa di mandare in pensione un po’ di gente. E nel 1992, sul Divino si esibisce in un attacco ai suoi compagni di classe che avevano manifestato in occasione della prima guerra del golfo e della guerra in Jugoslavia. Cosa avevano detto i lavoratori durante la seconda Leopolda? Renzi restava in aula, anche quando fuori c’era sciopero generale.