Nemmeno l’universo in cui per tutta la vita ha creduto, ha potuto assolverlo dal suo sentimento più oscuro. Ezra Pound era convinto che la cattiva letteratura potesse distruggere la civiltà e che soltanto la buona scrittura avesse una possibilità di salvarla. Certo, si trattava di uno spiraglio di luce nelle tenebre di un mondo destinato al disastro, ma i poeti non hanno mai saputo dipingere meglio la modernità in un’eternità consacrata alla scrittura. Pound era vanitoso e egocentrico, ma non ha mai sentito la pulsione per il centro della scena come altri scrittori che con lui hanno diviso parte del cammino. Li ha visti passare tutti: Hemingway, Yeats, Frost, Marianne Moore. Li ha visti passare e li ha corretti, li ha editati, li ha criticati. Li ha educati alla scrittura e alla società, li ha presentati a editori e giornalisti, li ha introdotti in quello che era il suo santuario. «Ezra Pound è un miracolo di esuberanza, gusto e connessioni», diceva Joyce. Era un poeta immodesto, autoriferito e completamente privo di tatto. Come i poeti sanno essere, se davvero si nutrono di poesia.
Gertude Stein, che lo aveva frequentato a Parigi mentre tesseva il ricordo che avrebbe lasciato di sé, lo ha definito «una guida di campagna, utile se sei in campagna ma perfettamente inutile altrimenti». Non è la prima cosa che di lui si ricordi, ma negli anni Venti Pound è stato la porta di ingresso all’universo letterario per molti che si affacciavano sul mare immenso dell’editoria. Nel 1915 ha fatto pubblicare Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock e nel 1922 ha editato La terra desolata, regalando di fatto alle stampe T.S. Eliot. Ha curato l’edizione seriale dell’Ulisse di Joyce e Hemingway ha scritto di lui: «Difende i suoi amici quando sono sotto attacco, li porta nelle riviste e li tira fuori di prigione. Li presenta a donne benestanti. Trova degli editori per i loro libri. Siede con loro la notte quando dicono di stare per morire. E gli presta i soldi per le cure mediche e li salva dal suicidio».
Forse è stata veramente la guerra a segnarlo o forse l’Europa, ma nessuno ricorda la persona che sta dietro la maschera di cinismo e scarsa predisposizione alla comprensione del diverso. Io penso a Pound come a un vecchio conoscente che ad un certo punto ha perso la testa, con solo poco affetto in meno di quanto ne ho dedicato a Céline, dopo aver scoperto che non era antisemita ma solamente innamorato. Ezra Pound, la bandiera ingiusta della destra incompresa e incomprensibile, il poeta di cui nessuno ricorda nemmeno una poesia ma che tutta l’intellettualità moderna ha presente per la mostruosità delle idee imperfette. Forse meriterebbe di più, forse sarebbe il caso di riportarlo a galla dalla melma fangosa che lo ha intrappolato per quarantadue anni — se si escludono gli anni per cui è stato in vita.
Mi ricordo di quando ho scovato i Canti pisani, nella biblioteca della mia scuola superiore. Era come leggere gli scatti involontari di un malato di Tourette. Come se al centro di una folla compatta e ordinata, un signore in panciotto e bombetta rifilasse uno schiaffo in pieno volto a un ragazzino. Non sapevo niente di quello che Pound pensava della vita, del mondo e dei suoi pari, Non sapevo niente di Mussolini e della sua fascinazione per il fascismo. Non sapevo niente di cosa aveva pensato degli ebrei e delle leggi razziali. Non sapevo niente del 1941, delle trasmissioni radio e della veemenza con cui si era schierato con la Repubblica di Salò. E sicuramente è stato meglio così, perché ho avuto l’occasione unica di leggere il poeta prima di cercare di capire l’uomo. Era un fascista, inutile girarci attorno. Molti degli scrittori del tempo si possono definire reazionari, alcuni di loro erano antisemiti, rispondevano a una dottrina ingiustificabile e schifosa, ma tristemente diffusa. Pound ammirava Mussolini da quando le era stato presentato da una sua amante violinista, Olga Rudge, nel 1927. Pensava che il duce fosse un magnate, il degno promotore di una nuova avanguardia sociale, il maestro della società futura. Si sbagliava di grosso, lo sappiamo tutti e forse sarebbe il caso di smettere di ripeterlo.
Per capire la poesia di Pound bisognerebbe liberarsi dei riferimenti che lui stesso si è dipinto addosso. Delle traduzioni e della tradizione che modernista che più che seguire ha inventato. Bisognerebbe liberarsi una volta per tutte della sua voce gracchiante, di Mussolini, John Adams, Confucio e Flaubert. Cercare di immaginarlo nudo, senza ideologia, attraverso la visione di chi gli è stato amico. Come un Capote prima che la sola idea di Capote si instaurasse nell’ambiente letterario. Bisognerebbe prenderlo svuotato di tutte le idee malvagie, che sono solo idee e non hanno nulla a che vedere con il sentimento poetico, e analizzarlo senza niente intorno. Così, come un libro trovato in biblioteca e aperto per curiosità. «Un ampolloso galeone probabilmente diretto, o proveniente, dalle colonie spagnole» scriveva di lui Wyndham Lewis, «salendo a bordo, ho scoperto che tra il teschio e le tibie incrociate, avvolti di lillà e schizzati di curiosità scintillanti, c’è un cuore d’oro». Ecco, Lewis — che pure nella vita ha fatto scelte ben peggiori di quelle di Pound, dal punto di vista umano — ci ha azzeccato. Il poeta stava sotto una massa scintillante di fesserie estetiche, che non servivano a nulla, come a nulla servono le opinioni delle personalità artistiche. Sarebbe bello se l’umanità si dimenticasse di Pound tutto un tratto e trovasse una sua poesia per caso. Sarebbe finalmente l’occasione per sapere cosa il mondo pensa davvero di lui e cosa lui del resto del mondo.