Quale contributo può dare il trasporto locale ai 4 miliardi di spesa in meno chiesto alle Regioni, senza penalizzare il servizio? Si potrebbe cominciare a costruire un trasporto nell’interesse di tutti e non di pochi, con aziende che non siano più una riserva di consenso elettorale.
Non l’hanno presa bene: per molti governatori i tagli ai trasferimenti alle Regioni previsti dalla manovra sarebbero “inaccettabili”. Ma è davvero così? Oppure, come sostiene il presidente del Consiglio, esistono ampi margini per la riduzione delle spese. Analizziamo il caso del trasporto pubblico locale che rappresenta la seconda voce di costo dopo la sanità.
È possibile spendere meno oppure ciò significherebbe tagliare in misura inaccettabile i servizi? Partiamo da una visione complessiva per poi passare ad analizzare alcune situazioni specifiche. Secondo un’analisi della Cassa depositi e prestiti, su 100 posti-km offerti ne vengono occupati solo 22. Il divario è in parte fisiologico, stante la forte variabilità nel tempo e nella direzione degli spostamenti (un autobus che si muove verso il centro nell’ora di punta del mattino effettua la corsa di ritorno con un numero di passeggeri molto ridotto), ma in parte sembra suggerire che, in alcune aree e fasce orarie, vi sia anche un “patologico” sovradimensionamento dell’offerta.
A tal riguardo è forse utile sottolineare quanto accaduto lo scorso anno nella città di Torino: a seguito di una riduzione dei trasferimenti della Regione, si è proceduto a un taglio dei servizi intorno al 10 per cento; ciò nondimeno il numero di passeggeri trasportati è rimasto pressoché invariato, intorno ai 200 milioni all’anno. E sulla base dei risultati di un recente studio del Politecnico di Torino, nel capoluogo piemontese sarebbe possibile un ulteriore significativo taglio dell’offerta che, accompagnata da una riorganizzazione dei servizi, non comporterebbe nel suo complesso peggioramenti per l’utenza.
Il risultato non appare particolarmente sorprendente se si considera la distribuzione dell’utenza per linea che si riscontra tipicamente in un’area urbana. Un’analisi di alcuni anni fa relativa alla città di Firenze, ad esempio, mostrava come l’80 per cento delle linee coprisse solamente poco più di un terzo dei passeggeri trasportati.
Figura 1 – Curva dei passeggeri cumulati per linea Ataf – Anno 2003
Fonte: Ataf / Earchimede, 2004
La situazione è analoga in ambito extraurbano: un’indagine svolta alcuni fa nella provincia di Alessandria mostrò come il 70 per cento dell’utenza fosse concentrata sul 30 per cento dei servizi.
Per tentare di porre rimedio a questo amplissimo divario fra offerta e utenza, in alcune aree “a domanda debole” i collegamenti tradizionali di linea effettuati con mezzi di grandi dimensioni sono stati sostituiti da servizi “a chiamata” per i quali si impiegano abitualmente minibus. I dati disponibili mostrano peraltro come questi stessi servizi presentino livelli di frequentazione molto al di sotto della capacità disponibile. Nel caso del servizio “Provibus” della provincia di Torino, per una percorrenza complessiva pari 93mila km all’anno, si è registrato un numero di passeggeri pari a circa 17mila (tabella 1).
Tabella 1 – Offerta, utenza e costi di produzione di alcuni servizi “a chiamata” in Italia
Fonte: Provincia di Torino, 2009
Non diversa appare la situazione relativa al trasporto su ferro caratterizzato da una domanda concentrata su un numero limitato di collegamenti e una parte maggioritaria della rete con livelli di frequentazione molto contenuti.
Sia per la gomma che per il ferro sarebbe quindi opportuno valutare la possibilità di ricorrere a modalità di produzione del servizio meno costose: nel primo caso con l’adozione di servizi gestiti con veicoli ordinari da conducenti non professionisti (modello “Uber pop”) e nell’altro con la sostituzione del treno con autobus.
Sebbene non siano mancati nell’ultimo decennio alcuni sforzi per cercare di ridurre i costi di produzione, ancora oggi persiste un divario molto rilevante fra l’efficienza delle aziende italiane e le migliori in Europa: il costo unitario per i servizi su gomma in ambito urbano è quasi doppio rispetto a quello delle aree metropolitane inglesi.
Tale divario è da ricondursi in larga misura a un costo del lavoro molto più elevato, superiore ai 45mila euro per dipendente, a una produttività più bassa e a una struttura amministrativa assai più numerosa, tutti elementi che sembrano essere ascrivibili al permanere di una condizione di monopolio de facto con procedure di gara per l’affidamento dei servizi a misura di incumbent.
Da questo stallo verosimilmente non si uscirà fino a quando non verrà eliminato il conflitto di interesse degli enti locali al contempo “arbitri” in quanto enti appaltanti e “concorrenti” in quanto proprietari di società. Sarebbe possibile immaginare un altro caso di acquisto di beni o servizi da parte della Pa nel quale l’ente pubblico partecipa a un appalto con una società sotto il proprio controllo?
Un trasporto nell’interesse di tutti e non di pochi
Non vi è dubbio che:
a) se venissero forniti solo quei servizi di trasporto collettivo per i quali i benefici superano i costi per la collettività,
b) se tali servizi venissero prodotti con il modo di trasporto più economico in grado di soddisfare la domanda,
c) se i costi di produzione fossero allineati a quelli delle aziende più efficienti che operano in contesti analoghi,
l’onere per la finanza pubblica del trasporto pubblico locale potrebbe essere ridotto in misura elevata.
Come dovrebbe essere evidente, ogni euro in più speso per pagare stipendi superiori a quelli “di mercato” o per assumere personale in eccesso rispetto al reale fabbisogno è un euro in più di costo dei servizi e, a cascata, un euro in più prelevato dai contribuenti (o dagli utenti, che però oggi pagano, indipendentemente dal loro reddito a differenza di quanto accade nel Regno Unito, tariffe tra le più basse in Europa).
Certo, un prezzo da pagare ci sarebbe. Il trasporto pubblico non sarebbe più un mezzo per raccogliere il consenso elettorale degli addetti del settore e delle rispettive famiglie e per disporre di assai ambiti incarichi dirigenziali da assegnare ad amici fidati e riconoscenti.
Vi è un solo, importante, rischio da tenere in considerazione: quello che le amministrazioni locali, invece di procedere a riformare il settore secondo i criteri sopra delineati, lascino indebitare le aziende (molte delle quali già oggi in condizioni assai critiche) e che il problema sia solamente rimandato nel tempo. L’alternativa sembra però peggiore: che, in assenza di tagli, si preferisca mantenere immutato lo status quo.
Considerata l’ampia varianza che sussiste in termini di efficienza fra le diverse aziende sarebbe auspicabile che la riduzione delle risorse adottasse come riferimento il criterio del costo standard. Si potrebbe anche chiedere alle Regioni di programmare aumenti tariffari (abbonamenti, soprattutto) leggermente superiori al tasso di inflazione per i prossimi cinque anni a condizione che non vengano concessi aumenti salariali aziendali superiori al tasso di inflazione.