Antonio Monda: l’uomo venuto per restare

Antonio Monda: l’uomo venuto per restare

Antonio Monda

«Non si tratta di mettere assieme grandi nomi, ma di condividere le idee». C’è un piccolo studio che si affaccia tra Waverly e Broadway, alla NYU. Dentro, tra pile di libri di critica cinematografica, romanzi italiani e americani, ritratti di attori e di attrici in bianco e nero, bobine, dvd e almeno una spilla per celebrare gli ottant’anni di Philip Roth, c’è una fotografia: David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Zadie Smith, Nathan Englander e Jeffrey Eugenides a Capri nei primi anni Duemila. Giovanissimi e contenti — qualcuno ha detto che è stata l’ultima volta in cui Wallace è sembrato sinceramente felice. Al centro ci sono due italiani, uno è Davide Azzolini, l’altro, con le stampelle, è Antonio Monda.

Se sei italiano, ti occupi di cultura e ti trovi a New York, c’è sempre qualcuno che ti dice che devi incontrare Monda. Per un consiglio, per un parere, per semplice cortesia. Perché prima o poi tutti passano dal suo studio o dal suo salotto e non è una faccenda di prestigio o di trovare la persona giusta, ma semplicemente di seguire il naturale evolversi delle cose. Sono salito da Antonio senza avere la più pallida idea di cosa avrei trovato. Avevo letto di lui in un paio di profili sul New York Times, uno dei quali lo definiva come «l’italiano più potente di New York del quale non avete mai sentito parlare». Non sapevo se essere divertito o preoccupato: la mia idea originaria era di fargli una breve intervista sullo stato dell’industria letteraria americana, argomento al quale sto lavorando in questo periodo. Ma con queste premesse, con il fatto che non sembrava esserci nessun altro in città dotato di un tale magnetismo culturale da trasformare qualsiasi personalità passi per Manhattan in una pagliuzza di ferro, ho deciso — ero già in ascensore verso l’undicesimo piano dell’edificio in cui si trova l’ufficio di Antonio — che non mi sarei dovuto limitare. Volevo sapere chi era, cosa faceva e come faceva a farlo. Quello che non potevo prevedere è che avrei trovato ad accogliermi un sorriso carico di una cordialità che va oltre il campanilismo geografico e che avrei imparato ad associare al fondamento stesso della sua socialità. Di nuovo: condividere le idee.

In Italia lo hanno definito come una specie di macchina del networking. Un’agenda vivente, l’amico di Al Pacino, Brian De Palma e Robert De Niro. L’uomo delle connessioni, quello in grado di metterti in contatto con Philip Roth e Barbra Straisand, con Wes Anderson e Ethan Coen. Uno dei responsabili dell’Oscar a Paolo Sorrentino, ha insinuato qualcuno. Lo strumento da connessioni sociali, il salottaro per eccellenza, che con una manciata di speranze è sbarcato negli Stati Uniti e ha esportato la passione italiana per il piazzamento. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo. Intanto non esistono “salotti”, al limite momenti conviviali durante i quali tutte le persone coinvolte si trovano allo stesso livello e possono godere della rarissima occasione di discutere apertamente, sgusciate della crosta di celebrità che di solito le intrappola e regalate per qualche ora alla semplicità confortevole della realtà. Antonio fa le domande, imposta le connessioni, mette tutti a proprio agio e tutti in relazione con tutti. Conduce l’orchestra dalla sua postazione defilata, cercando non trovarsi mai tra la scena e chi è venuto per godersi l’armonia. Lo scrivo con un certo senso di stupore, perché anch’io pensavo di trovare qualcosa di diverso: la scaltra abilità di farsi degli amici, l’ossessione per i grandi nomi, la passione per il parlare di sé in relazione agli altri. Ma la persona che ho conosciuto ha l’energia misurata di un ragazzino che sa cos’è la vita e l’impagabile curiosità per tutto ciò che lo circonda, vent’anni dopo aver trovato l’America.

«Quasi esattamente trentacinque anni fa — quando lo intervisto sono i primi di ottobre e Antonio si riferisce all’autunno del 1979 — sono venuto qui per la prima volta. Ero in taxi e guardavo imbambolato i grattacieli di Manhattan. Il tassista mi ha visto così, ha riso e mi ha detto: “Sei nel cuore del mondo, te ne rendi conto?”. Io ho ancora la stessa sensazione». Non è difficile credergli. Mi elenca brevemente i motivi per cui ha scelto di espatriare e, anche se le cose non sono andate esattamente nella direzione che si aspettava, sembra che le premesse non siano cambiate di una virgola. La connessione di Monda con New York è viscerale, si intreccia profondamente alle sue radici in una maniera che non è spiegabile se non con il fatto di trovarsi esattamente dove dovrebbe stare, nel posto che è nato per occupare al mondo. Una specie di adattamento evolutivo, in cui Midtown rappresenta l’habitat predisposto cui la specie — Antonio — tende per tutta la sua esistenza e nel quale può vivere e proliferare senza minacce reali. C’è un suo libro, intitolato Nella città nuda (Rizzoli, 2013), che descrive alla perfezione questa condizione, riflessa nelle anime che popolano la metropolitana, fotografate nella loro quotidianità integrale e sorprese a vivere per caso, come tutti.

«Sono venuto qui per fare il cinema, invece ho fatto tutto tranne che il cinema». Fa il giornalista, cura una colonna settimanale su Repubblica e una video-rubrica su RaiNews 24, e scrive. «Ho questo progetto di dieci romanzi su New York, uno per decade. Ora sto per consegnare il terzo, ambientato negli anni Dieci del Novecento». Mentre me lo racconta il manoscritto è sulla scrivania, accanto ai papers degli studenti ai quali insegna cinematografia, entrambi aspettano di essere corretti.

È del 1990 l’ultima esperienza di pura cinematografia di Monda, un lungometraggio intitolato Dicembre, presentato a Venezia e apprezzato dalla critica ma «un disastro al botteghino, avrà fatto sì e no diecimila lire al box office». Sull’onda di quell’insuccesso, nel 1991, ha comprato i diritti per l’adattamento cinematografico di un racconto di Isaac Bashevis Singer, intitolato Taibele e il suo demone, che da un shtetl mitteleuropeo doveva essere riambientato a New York — uno dei motivi, o dei pretesti, che lo hanno portato negli Stati Uniti per la volta decisiva. «Questo film era come la tela di Penelope, non finiva mai. Ho cominciato a montarlo nel ’91 e sono andato avanti fino a quando mi sono trasferito, nel ’94. Ho incontrato attori e produttori ma non ce l’ho fatta, non l’ho mai finito. In quel periodo ho cominciato a insegnare e a poco a poco ho realizzato che stare dietro alla macchina da presa non era né la mia passione, né probabilmente il mio talento e quindi ho cominciato a fare altre cose. A organizzare festival e rassegne, dal MoMA al Guggenheim, dal Lincoln Center all’Accademy di Los Angeles, e quella è diventata la mia vita». Per cinque anni, dopo essersi trasferito nell’Upper West Side assieme a sua moglie Jacquie — che dal 1985 lo ha accompagnato e supportato nella costruzione della propria carriera — e in attesa di essere confermato come ordinario alla NYU, ha lavorato come responsabile di un condominio. «Ero terrorizzato dal dover avere a che fare con la caldaia» ha raccontato qualche anno fa al Times. Poi è arrivata la conferma come insegnante, assieme all’infittirsi delle connessioni sociali che prendono avvio in quel periodo dall’amicizia con altri notabili emigranti come Isabella Rossellini e Giovanna Calvino. «Antonio e Jacquie erano di una generosità unica — scriveva Giovanna Calvino — a New York tenevano in vita un senso di comunità inestimabile per quelli come noi». Le cose non sono cambiate, ne ho la prova mentre divido un panettone siciliano curiosamente fuori stagione con altri italiani di passaggio, in una sera limpida di autunno che so somigliare a centinaia di altre passate e future.

«Nei primi tempi in cui mi trovavo qui, stavo lavorando a un documentario per la Rai sugli ebrei americani. È un argomento con cui ho sentito sempre una particolare connessione e credo sia anche una questione di vicinanza ideologica tra la cultura italiana e quella ebraica. Isaac Singer mi disse che siamo bagnati dallo stesso mare, non so bene a che mare si riferisse perché lui era di origine polacca, ma c’è qualcosa di giusto in questo». Non c’è probabilmente modo migliore per ambientarsi a New York che quello di passare per la comunità ebraica, specialmente nell’ambito dello spettacolo. «Avevo ventisei anni e dall’albergo ogni mattina facevo le mie telefonate. Chiamavo Saul Bellow, Woody Allen, Barbra Streisand, Henry Kissinger e poi uscivo. Quando rientravo la sera il concierge mi riportava i messaggi con tanto d’occhi. “Ha chiamato Kissinger”, mi diceva, “ma, lei, chi è?”». Se c’è un momento in cui Monda comincia a diventare Monda, probabilmente è proprio questo. È qui che comincia anche l’elenco dei grandi nomi che confonde tanto la maggioranza della stampa italiana, ed è qui che comincia la passione.

«Quando finalmente ho ottenuto un incontro con la Streisand, sono andato all’appuntamento piuttosto emozionato. Lei mi chiede di cosa si tratta, io le spiego del progetto e mi faccio forte della presenza di Singer, della quale ero particolarmente orgoglioso. A quel punto lei mi fa: “Benissimo, non mi interessa, il nostro incontro finisce qui”. Al che scopro che un paio di giorni prima, sull’inserto culturale del Times era uscito un articolo a firma di Singer che stroncava Yentl, film oltretutto tratto da un suo racconto».

La vita di Antonio sembra fondata sulla cura dei dettagli, che determinano un incastro perfetto tra le sue differenti occupazioni. Come nei suoi romanzi newyorchesi, in cui ogni personaggio è in relazione con gli altri, le sue giornate sono frutto dell’intreccio tra le centinaia di nomi, luoghi e interessi che popolano la sua quotidianità. Quando gli chiedo cosa conta di più tra la professionalità e le connessioni, si fa serio: «Qui la professionalità, la rispettabilità e la reputazione valgono qualcosa. Io so che se sbaglio una volta, la pago. Anche le conoscenze sono un elemento fondamentale dal punto di vista della cultura. Mio padre, che purtroppo è morto quando io avevo quindici anni, mi ha insegnato moltissime cose. Ce n’è una in particolare, che lui mi spacciava per un proverbio cinese ma che io sospetto avesse inventato lui, ed è che se io ti do una cosa e tu me dai una, alla fine abbiamo una cosa tutti e due, ma se io ti do un’idea e tu me ne dai una, assieme ne abbiamo due. Io imparo molto dalle persone che conosco, siano famose o meno, siano star o persone come te e me, con la presunzione di dare anch’io qualcosa. Chiunque venga a casa mia, accetti un’intervista, mi faccia compagnia per pranzo o per cena, sa che tra noi avverrà uno scambio». Questo va di pari passo con un altro motto di Antonio, “serietà e stile”, che gli si taglia addosso come un vestito di alta sartoria. «Cerco di essere garbato, elegante e serio. Che non significa mai essere serioso». Non per niente il sottotitolo delle Conversazioni , il festival che, assieme a Davide Azzolini, organizza ogni anno tra Capri, Roma e New York — da cui la foto citata in apertura — è “profondità nella leggerezza” e si riflette in ogni momento sociale condiviso.

Quella forma di aristocrazia tipica dei salotti all’italiana, quel dover sempre parlare di sé, ma andando a caccia di una forma universale che renda la conversazione possibilmente più boriosa, quel continuo vivere sulla punta di un biglietto da visita, qui non esistono. È vero che si tratta di un continuo scambio di idee, come è vero che passare da Antonio è fondamentale. Non per intercettare i contatti, ma per toccare le intuizioni, per vederle in azione in quella parte di mondo dove tutti sono obbligati a passare. Per capire cosa succede sotto la superficie della creatività, non dietro le copertine patinate. Qui non c’è moda, non c’è gossip, non c’è mondanità. Ci sono persone straordinarie che convergono in uno stesso punto, New York, e trovano ospitalità nella cordialità e nella sincera passione per l’arte di una stessa persona.

Conoscevo Antonio ben prima di incontrarlo di persona e non soltanto per averlo visto aprire Le avventure acquatiche di Steve Zissou, di Wes Anderson, accanto a Bill Murray, o per aver letto la sua storia sui giornali. Lo conoscevo bene come conosco quello spirito che ti porta a sorvolare l’Atlantico ogni volta con più determinazione, a farti rimbambire dalla vita assordante di Manhattan, ad attraversare la città per una stretta di mano, un caffè o un paio di battute, che nulla ha che vedere con il protagonismo ma tutto ha a che spartire con l’eterna curiosità della quale in pochi sono capaci. Lo conoscevo per la vitalità che incarna e che — spero di non uscire dal seminato — condividiamo, quella che lo ha portato qui per restarci per sempre.

X