A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, uno dei tormentoni del calcio italiano fu la corte spietata che la Juventus fece a Gigi Riva. Raccontano i soliti bene informati che Gianpiero Boniperti, allora presidente della Vecchia Signora, inviasse un suo uomo in ogni stadio d’Italia in cui il Cagliari di Riva scendeva in campo. Non c’erano distanze che tenessero. Udine, Bologna, Napoli: Riva poteva stare certo che tra gli spogliatoi e il tunnel che portava il campo, trovava un emissario juventino che lo avvicinava e con fare suadente gli diceva «Dai, facciamo una telefonatina all’Avvocato». Ma ogni volta, era un no. A volte con la forma scontrosa del suo viso spigoloso dal profilo greco, altre con un sorriso e un «E che gli telefono a fare?» buttato lì prima di scaricare un gol in fondo al sacco con il suo sinistro potentissimo.
A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, la Juve che tutto poteva e voleva dovette arrendersi a Gigi Riva. E non solo sul campo, come nel caso dello scudetto del 1970. Gigi disse no e no fu. Raccontano i soliti bene informati, o magari sono solo malelingue, che alla fine Gianni Agnelli sbottò con Boniperti: «Mi porti quel pecoraio sardo a Torino per un orecchio», esalò prima di desistere. Dovettero farlo tutti. Perché portare via Riva da Cagliari sarebbe stato impossibile. Ed è per quel legame, quello scudetto e quel sinistro potentissimo, che siamo qui a raccontare la sua storia, in occasione del compleanno numero settanta.
Una storia che comincia sulla “Prealpina”, storico quotidiano lombardo che al lunedì pubblica formazioni e risultati del calcio locale. Tutti, dalla Serie A del Milan e dell’Inter che stanno per dominare l’Europa alle partite dei dilettanti, oratori compresi. E sotto i campanili delle chiese di Leggiuno, nel varesotto, c’è un ragazzino gracile ma con un sinistro che è una bellezza. Il destro lo usa solo (forse) per scendere dal letto, tanto che l’Inter lo scarta a un provino. Ma Gigi Riva non ne fa un cruccio. Per lui il pallone è una libertà che aveva perso presto. A 9 anni, con la morte del padre, era finito in collegio fino ai 14. Niente partite a calcio infinite, niente giri per il paese alla ricerca di altri bambini da sfidare. Quando esce dal collegio, Riva finisce a lavorare come operaio in fabbrica. E la sera, torna ad assaporare la libertà del pallone negli oratori. La Prealpina racconta ogni domenica dei suoi gol, tanto che alla fine lo ingaggia la squadra dei dilettanti locali del Laveno Mombello. Poi arriva la Serie C, con il Legnano, prima squadra di professionisti a credere in un ragazzo magrolino ma col sinistro esplosivo. Gigi gioca da esterno sinistro e gli basta un anno per farsi notare dal calcio che conta.
Ma Gigi non vuole allontanarsi troppo dalle sue zone. A 16 anni, prima di andare al Legnano, è morta anche la madre. La possibilità di tornare a casa tutte le volte che può, per lui è indispensabile. Lì c’è la sorella, gli amici di un tempo, gli ultimi sapori quasi stinti di quella libertà. È la sua famiglia, o la sua idea, alla quale Gigi si aggrappa. Tanto che quando lo cerca il Bologna, lui resta per giorni in attesa di una chiamata del presidente Renato Dall’Ara. La città emiliana non è troppo distante da Leggiuno. Di sicuro, lo è più di Cagliari, altra città che lo cerca. La squadra locale gioca in Serie B e Andrea Arrica, vicepresidente del club, sta girando l’Italia per cercare giovani sui quali fondare il futuro della squadra. Il passato del Cagliari non è glorioso, mentre il Bologna ha già degli scudetti in bacheca. Insomma, per Gigi non c’è storia. Ma il Legnano vuole un bel po’ di soldi e Dall’Ara non è convintissimo di sborsarli per quel gracilino lì. Arrica, che lo ha già visto giocare nella Nazionale italiana juniores, invece è innamorato del suo sinistro e per 37 milioni di lire lo porta in Sardegna.
Riva ci arriva arrabbiatissimo, con l’idea di starci il meno possibile. Giusto il tempo di fare un po’ d’esperienza e ritornare vicino casa. «Sembrava proprio che il destino ce l’ avesse con me. Ecco perché, quando arrivai in Sardegna, ero incazzatissimo con la vita. Avevo il calcio in testa, il calcio era nei miei sogni. Anche mio padre, per quello che ricordo, era un grande appassionato di sport: lo rivedo in piazza, discutere soprattutto di ciclismo», racconterà Riva al “Corriere della Sera”.
È il 1963. Oltre a quella della Nazionale, quella del Cagliari sarà l’unica maglia che indosserà in carriera. Arturo Silvestri, tecnico di quel Cagliari, lo mette nel suo ruolo iniziale di esterno sinistro. Quel Cagliari va come un treno, leggero e potente come quel ragazzino con la maglia numero 11. E a fine stagione arriva il secondo posto, che significa promozione in Serie A. Silvestri, alla prima stagione tra i “grandi”, ha grandi progetti per Riva. Sotto il ragazzo gracilino c’è la scorza del campione, ma quel sinistro potente è sprecato sulle corsie esterne del campo. Riva deve diventare centrattacco.
Gigi prende la cosa seriamente. Tanto che comincia ad arrivare agli allenamenti mezzora prima e ad andarsene mezzora dopo. Costringendo il portiere Pietro Pianta a fermarsi con lui. C’è da limare il sinistro, per regolare quella scarica di energia che, in maniera del tutto naturale, Gigi mette quando calcia il pallone (che è di cuoio, più pesante di quelli di oggi). Pianta spesso si lamenta: «Gigi, si è fatto buio, non vedo più nulla». Ma lui è inflessibile: «Non importa, io tiro lo stesso». Si allena senza sosta Gigi. E quando Pianta lascia Cagliari per il Vicenza, Riva ha sviluppato un sinistro che può arrivare a 120 chilometri orari. E che gli fa raggiungere il titolo di capocannoniere del campionato italiano nel 1966/67, con 18 gol.
Sui tavolini dei salotti, tra le foto dei genitori e dei nonni, spesso ce n’è anche una sua, con la maglia bianca e il colletto rossoblu con i lacci. Sì, Gigi è arrivato a casa
Ma non doveva lasciare subito Cagliari? No, non la lascerà più. Perché la passione dei sardi non lo fa partire. I cagliaritani trovano in Gigi un motivo di orgoglio, di vanto nei confronti del “Continente”. E Gigi trova nei cagliaritani quella famiglia alla quale cercava di aggrapparsi da tempo. I pescatori locali gli portano il pesce fresco dopo un gol, o lo invitano a casa a mangiare, Poche cose, ma buone. Tutti a tavola assieme e lui non è un ospite, è uno di famiglia. Sui tavolini dei salotti, tra le foto dei genitori e dei nonni, spesso ce n’è anche una sua, con la maglia bianca e il colletto rossoblu con i lacci. Sì, Gigi è arrivato a casa.
La serenità lo porta a fare grandi cose anche in Nazionale. La maglia azzurra è la seconda grande epopea di Gigi Riva: «Ti si attacca alla pelle e non si stacca più, per tutta la vita». Non comincia però bene. Nel 1967, durante Italia-Portogallo, si rompe il ginocchio dopo uno scontro contro il portiere lusitano. Deve stare 3 mesi fuori e la riabilitazione è lunga, lunghissima. Tanto che nel 1968, anno degli Europei in casa nostra, il ct Ferruccio Valcareggi decide comunque di convocarlo, anche se sa bene che, molto probabilmente, non potrà giocare nemmeno un minuto. I medici sono stati chiari: per altre due gare, Gigi non deve vedere il campo. All’epoca, la formula dell’Europeo era diversa da quella di oggi, ipertrofica e gonfiata ad hoc per lo spettacolo e le televisioni. Nel 1968, a giocarsi il Trofeo Henri Delaunay ci sono 4 squadre. In semifinale, a Napoli, l’Italia supera l’Urss grazie al sorteggio con la monetina nella pancia del San Paolo, dato che ancora non esistevano i rigori. Per lo stesso motivo la finale contro la Yugoslavia, all’Olimpico di Roma, viene giocata due volte. Dopo la prima, finita in pareggio, si rigioca due giorni dopo. Passate due gare, quindi, Riva è disponibile. Valcvareggi non ci pensa due volte e lo mette titolare. E non sbaglia. Perché Riva la mette dentro a incrociare, di sinistro. Un tiro che rivedremo presto, sempre in maglia azzurra.
Ma prima del Mondiale messicano, c’è un’altra epopea. Il Cagliari sta diventando una grande squadra. Ad allenarla c’è ora Manlio Scopigno. Lo chiamano “Il filosofo”, ma per Riva sarà molto di più. Scopigno ha la capacità innata di capire i giocatori, di fiutare l’ambiente, di capire. Lo fa anche una sera nel ritiro del Cagliari passata alla storia. La società aveva comprato diversi giocatori importanti, per costruire attorno a Riva una squadra degna del suo centravanti. Negli anni erano arrivati il portiere Albertosi, oltre a Poli e Domenghini, sacrificati dall’Inter per prendere dai rossoblu l’attaccante Bonisnegna. Albertosi, Poli e Riva erano non solo grandi giocatori, ma anche accaniti fumatori, come Scopigno. Spesso, i giocatori del Cagliari le sere prima della partita non andavano a letto, ma si riunivano in una stanza per giocare a carte e fumare. Una di queste sere, alla porta bussa il mister. È il panico. Gori si nasconde nell’armadio, qualcun altro sotto al letto, mentre le finestre vengono spalancate. Riva va ad aprire, con l’aria colpevole di chi si aspetta una solenne sgridata. A raccontare com’è andata è anni dopo Pierluigi Cera, difensore di quel Cagliari: «Scopigno entrò, nel fumo e nel silenzio di noialtri che aspettavamo la bufera, prese una sedia, si sedette vicino a noi e disse tirando fuori un pacchetto di sigarette “Do fastidio se fumo?” In mezz’ora eravamo tutti a letto ed il giorno dopo vincemmo 3-0».
Nonostante le migliaia di sigarette, quel Cagliari ha cuore e polmoni da vendere. La tattica di Scopigno è semplice, ma quasi sempre letale: squadra raccolta nella propria metà campo, pronta a rilanciare il gioco in favore di Riva. Che non lo prendi mai. Non c’è, in Italia, un terzino in grado di gareggiare con lui ad armi pari. Lo sanno tutti, qual è il gioco del Cagliari. Eppure nessuno li ferma. Nemmeno Pietro Pianta, che lo allenava la sera. Passato al Vicenza, aveva avvertito i suoi. Detto, non fatto: al Lanerossi, Riva segna in rovesciata uno dei gol più belli della sua carriera, su una palla fisicamente quasi impossibile da prendere.
Solo gli arbitri potrebbero fermare il Cagliari. Ci hanno già pensato con Scopigno, che salta per squalifica tutti il girone di ritorno del campionato 69/70 causa violenti improperi contro il guardalinee durante una gara di campionato. Ci riprovano il 15 marzo del 1970. A Torino il Cagliari va a giocare in casa della Juventus da prima in classifica, ma con soli due punti in più di vantaggio. Partita tesa, difficile. Il Cagliari viene trafitto dal proprio difensore Comunardo Niccolai, leggendario autore di reti pregevoli, pregevolissime. Ma sempre nella propria porta. Riva ci mette il cuore e la testa: con essa pareggia ed esulta a sua modo, con i pugni sempre stretti verso terra a scaricare la rabbia, a rimarcare il gol come affermazione personale. Ma in quei pugni c’è altro. Tra le file del Cagliari manca lo stopper Giuseppe Tomasini, bloccato da tempo da un grave infortunio. Prima della gara, Tomasini ha fatto recapitare un telegramma a Riva, nel ritiro del Cagliari: «Gigi, gioca anche per me». Questo è il Cagliari. Questa è la sua famiglia. Nemmeno Concetto Lo Bello, l’arbitro migliore d’Italia, può minarne l’unità. Perché è sacra. E Lo Bello lo sa quando, nella ripresa, concede alla Juve un rigore che non c’è. Albertosi para, ma l’arbitro lo fa ribattere. Pietro Anastasi segna. Il Cagliari è furioso.
Riva a Lo Bello: «Dimmi che devo fare per farmi sbattere fuori»
Lo Bello: «Pensi a giocare».
Si gioca. Rigore per il Cagliari. Riva fa 2-2.
«Arbitro, e se lo sbagliavo?»
«Lo facevo ribattere».
Un mese dopo, il 12 aprile 1970, il Cagliari batte 2-0 il Bari ed è campione d’Italia. È la prima volta, per i rossoblu e per un’Isola. Quella famiglia con la quale Riva ha il tempo di festeggiare prima di partire per il Messico. Ma l’inizio del Mondiale, per Riva, è difficile. Alle tossine di un campionato faticoso si aggiunge l’altura messicana. Ma Riva si sblocca, deve farlo. La Nazionale è una seconda pelle, un’altra famiglia. Lì ci sono Albertosi, Cera, Domenghini, i compagni di tante partite. Ai quarti di finale c’è il Messico. Per Riva arriva la doppietta. Il primo è un sinistro a incrociare, che sbuca perfido e potente tra le maglie rosse dei messicani. Succederà anche in semifinale, qualche giorno. Non c’è bisogno di aggiungere molto altro. Di quella partita sappiamo tutto. Ce l’hanno raccontata i nostri nonni e i nostri padri. Ricordano dov’erano, quella notte in cui si compiva la storia del calcio. E ricordano le parole di Nando Martellini.
«Riva, Riva, Riva, tiro…ed è gol». Con un sinistro a incrociare, chiaro.
Per Riva, da quel giorno, le cose in Nazionale saranno più difficili. Si prenderà il titolo di miglior realizzatore in azzurro nel 1973 con 35 reti in 42 partite. Ma ci saranno anche i dolori di un gravissimo infortunio contro l’Austria, il 30 ottobre del 1970. A fratturargli tibia e perone è Hof, che da quel momento diventa “Il boia del Prater”. Il primo a capire la gravità dell’infortunio è Domenghini: «Quando mi avvicinai, vidi che l’osso della gamba gli aveva perforato il calzettone, uscendo di fuori». Un dramma per tutti, per l’Italia e per il Cagliari impegnato nella Coppa Campioni e nella difesa dello scudetto. Li abbandonerà entrambi, poco dopo che Riva, con una doppietta all’Inter a San Siro, si era guadagnato nella cronaca della partita di Gianni Brera, l’appellativo definitivo di “Rombo di Tuono”.
Negli anni, in molti lasceranno la famiglia di Cagliari. Albertosi andrà al Milan, Domenghini alla Roma. Anche Scopigno va in giallorosso, ma abbandonerà la panchina dopo aver capito di non poter reggere la pressione di una piazza grande ed esigente. Riva lo ha capito da anni. Avrebbe sfondato la rete ovunque, ma a Cagliari «potevi fare il primo bagno già ad aprile, andare a pesca, a funghi in campagna, non c’era lo stress della grande città». Uno stress che non potrà evitare quando, da dirigente accompagnatore della Nazionale, si prenderà in Germania 2006 quel Mondiale sfuggito contro Pelè nel 1970. Notti insonni per la tensione e gocce per limarla lo indurranno a lasciare il mondo del calcio per sempre, dopo il ritiro da quello giocato il 1 febbraio del 1976, per un infortunio durante una partita contro il Milan.
«Ho detto di no a tutti, per non far torto a nessuno. Avrei dovuto passare ore al telefono», ha detto qualche giorno fa a Maurizio Caverzan, che voleva raccogliere qualche sua dichiarazione per il compleanno numero 70. Peccato. Così, lo ricordiamo con le parole scritte da Brera nel 1976: «Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».