A un certo punto ho sentito parlare di Ben Lerner da talmente tante persone che non potevo più permettermi di ignorarlo e mi sono procurato il suo secondo romanzo, 10:04 — uscirà nella sua traduzione italiana nel 2015, per Sellerio. Non ho capito subito di cosa si trattasse, ma non riuscivo a fare a meno di andare avanti a leggere. Leggevo durante le pause pranzo, sulla metropolitana, tra un appuntamento e l’altro. A un certo punto ho deciso di lasciar perdere i mezzi pubblici, perché spostandomi a piedi avrei avuto più tempo per macinare capitoli. La storia prende forma con calma, ma quando finalmente si apre è come scoperchiare un microcosmo segreto, un minuscolo universo autogeneratosi dai resti di un esperimento biochimico. E la cosa sconvolgente è che, se fosse stato solo per Lerner, 10:04 avrebbe rischiato di non esistere.
Ben Lerner è un poeta. Un poeta vero, con un master in poesia alla Brown e tutta l’intenzione di rimanere poeta per il resto dei suoi giorni. «La poesia rimane il mio centro. Entrambi i miei romanzi sono letteralmente costruiti sulla poesia. Ultimamente ho cominciato a considerare il romanzo come una forma “curativa” — è uno spazio in cui si possono drammatizzare le intersezioni tra le arti, inclusa la poesia», mi ha detto qualche giorno fa, quando gli ho chiesto come avesse fatto a scegliere tra l’una e l’altra forma. Il fatto, mi ha risposto in quel suo modo pacato e ragionevole, è che in realtà non ha mai scelto. Qualcun altro lo ha fatto per lui e ora, a tre anni dal suo debutto narrativo, comincia anche a sentirsi al suo posto. Il suo primo libro — Leaving Atocha Station, tradotto come Un uomo di passaggio, da Laura Prandino per Neri Pozza — è la storia di un poeta a Madrid nel 2004, conteso tra il brutale materialismo, Tolstoj e l’erba. Le tinte autobiografiche sono palpabili e filtrano attraverso la tela del racconto di Topeka, Kansas, tanto quanto si perdono nell’ambientazione madrilena. «L’ho pubblicato con una piccola casa editrice indipendente di Minneapolis e non avevo alcun interesse nel cimentarmi nella narrativa mainstream. I miei primi tre libri sono libri di poesie e per molto tempo ho pensato che quella dovesse essere la mia unica strada».
Topeka è una terra pragmatica, ruvida e sterile, che il poeta si lascia alle spalle. Madrid è il collante della narrazione, ma è ancora una volta la poesia il punto di arrivo. «Il Kansas è di un’importanza vitale per la mia scrittura, è il posto dove sono cresciuto e ha fatto tanto per la mia formazione. Sia per quello che era che per quello che non era. Non era una metropoli o un centro culturale e quindi mi ha permesso di fantasticare sulle grandi città della costa. Topeka è un posto del cazzo in un’infinità di sensi, ma ha anche prodotto una ricca generazione di scrittori che io sono stato fortunato a conoscere fin da ragazzo. Madrid è più che altro l’ambientazione, ma senza l’ambientazione non ci sarebbe il romanzo». E senza Brooklyn, punto di arrivo in fondo all’imbuto che guida chiunque abbia aspirazioni letterarie in questo periodo, non ci sarebbe 10:04, la seconda incarnazione di Lerner nella sua forma cartacea. Come uno scrittore compiuto, adesso, rassegnato a osservare la sua vita divisa tra il compimento della sua carriera e la possibilità di morire da un momento all’altro: tra il successo, sotto forma di proposta editoriale da parte del New Yorker, e la minaccia di una malattia imprevedibile.
Sepolto sotto due strati di meta-narrazione, uno dei quali rappresentato da un romanzo nel romanzo, una storia di dinosauri che Roberto — un ragazzino cui il protagonista fa da insegnante di sostegno — è intenzionato ad auto-pubblicarsi, persiste lo scrittore. «Proprio come Marcel Duchamp mette un oggetto qualunque in un museo con l’intenzione di trasformare sia l’oggetto che il museo, a me piace l’idea di vedere cosa succede quando si incastrano una varietà di testi provenienti da altre realtà nello spazio fittizio di un romanzo. Il mio libro è un meta-romanzo nel senso che fa spesso riferimento al modo in cui si scrive un’opera di finzione. Non si tratta di una fuga dalla realtà, ma di come noi persone normali assorbiamo la finzione e la utilizziamo per organizzare la realtà in maniera significativa».
La scrittura di Lerner è ricca, costruita sulla consapevolezza di ogni frase, sulla profonda conoscenza del significato. Termine per termine, periodo per periodo, capoverso per capoverso. La letteratura americana è generalmente una terra di studio, non esistono buoni romanzi che possano essere scritti in meno di un anno, ma nel caso di Lerner si tratta di chimica, di fisica dell’atomo, di scienza dell’equilibrio quantistico. Oltre la matematica pura c’è la sua applicazione pratica. Ecco, è questo: la finzione al servizio della realtà, per superare il concetto di perfezione in teoria e puntare alla sua realizzazione tangibile. «Nella scrittura è sempre presente una sorta di ironia formale e in 10:04 ho cercato di raccontare il tentativo di un sincero attaccamento al presente, uno scontro diretto con la realtà che rifiuti l’ironia come distacco. Il distacco è il nemico». Non è difficile da comprendere, se a parlare è un genio di coinvolgimento. Se mai qualcuno vi parlerà di 10:04, non aspettate di sentirvelo ripetere: trovatelo e leggetelo. Ogni volta che potete.