«Don, mi sono perso Roberto».
«No Aldo, non te lo è perso. Indovina dov’è».
Aldo Mancini non ha dubbi. Lascia il piazzale della chiesa di San Sebastiano, a Jesi, e va al campo di calcio più vicino. Il figlio Roberto è da poco entrato in campo ed ha già segnato un paio di gol. I compagni sono andati a cercarlo poco prima in chiesa, dove Roberto ha appena ricevuto la prima comunione, per chiedergli di aiutarli a vincere una partita che si sta mettendo male. Roberto si fa trovare pronto. Si toglie la tunichetta e si mette la divisa da calcio che si è portato dietro. Perché la testa Roberto ce l’ha sempre lì.
Se non fosse che l’appellativo “Provvidenza” non piace a chi lo ritiene troppo retorico – e considerato che non vogliamo sottrarlo a Daniele Massaro – a Roberto Mancini starebbe bene addosso quanto la sua famosa sciarpa di cachemire. Perché la sua carriera da giocatore e da allenatore è stata spesso quella dell’uomo giusto al momento giusto. Con tanto di corsi e ricorsi storici niente male.
Diciamo che la Provvidenza lo zampino ce lo ha messo. Come quella volta che il Milan lo nota e vuole portarlo a Milano. Il padre Aldo è un ex atleta e dirigente dell’associazione sportiva jesina Aurora. Qui fa tesserare Roberto, che si mette in mostra tanto da attirare l’interesse di alcune grandi squadre. Lo nota il Milan, che qualche tempo dopo averlo osservato in un torneo decide di prenderlo. All’epoca niente mail, o sms: i club chiamano i giovani via lettera cartacea. Ma per un disguido, che qui chiameremo Provvidenza, la lettera arriva ad una squadra avversaria dell’Aurora, la Real Jesi. Che tiene nascosta la lettera. Qualche mese dopo, Aldo Mancini va a Casteldebole, poco fuori Bologna, per parlare con i dirigenti rossoblu. L’affare tra che porterà il tredicenne Mancini al Bologna si conclude a Senigallia, al ristorante di Peppino, specialità pesce: 700mila lire subito, 5 milioni più tardi. Con quei soldi, l’Aurora compra i pulmini nuovi per la squadra.
Roberto Mancini a Bologna vince il campionato Allievi. Destro naturale, usa il sinistro solo quando serve davvero. A 17 anni esordisce in prima squadra. In Coppa Italia. In carriera, Mancini ne vincerà 6 da giocatore e (finora) 4 da allenatore. E con 120 presenze in campo sarà quello che ne avrà di più nel torneo. La prima la vince nel 1985, ma con la maglia della Sampdoria. Un incastro praticamente perfetto di situazioni ha fatto sì che a Genova si trovino assieme, negli anni, oltre a Mancini il presidente Paolo Mantovani e l’altra metà dei “gemelli del gol”, Gianluca Vialli. Mantovani, noto galantuomo, lo porta in maglia blucerchiata per 4 miliardi di lire. Tantissimo, per l’inizio degli anni Ottanta. Non siamo più allo scandalo per il miliardo pagato dal Napoli per avere Beppe Savoldi, ma per un ragazzo di 18 anni l’assegno è importante. Oltre ai soldi, Mantovani ci mette anche i cartellini di Galdiolo, Logozzo e Roselli. Quando sta per arrivare a Genova, all’imbocco di Nervi, la prima auto che Mancini incontra è quella di Liam Brady, che chiuso da Platini è arrivato dalla Juve. Pochi mesi prima, l’irlandese ha regalato lo scudetto ai bianconeri con un rigore insaccato a Catanzaro. E in Calabria Mancini esordisce, segnando il primo gol in blucerchiato all’Inter, a San Siro. Provvidenza, destino, fate voi.
Qualche anno dopo, a San Siro, Roberto Mancini è l’allenatore dell’Inter. Massimo Moratti, altro noto galantuomo del nostro pallone, lo chiama sulla panchina per l’ennesima ricostruzione della sua gestione. La Beneamata è reduce da una serie di annate maledette, tra il 5 maggio e l’eliminazione in semifinale di Champions contro il Milan con due pareggi. L’Inter è la solita rosa di nomi importanti, ma che alla fine non porta a casa nulla. Mancini è reduce da una carriera fulminea da allenatore. Cominciata tra mille corsi e ricorsi storici con la Fiorentina, dalla Coppa Italia vinta alle furiose polemiche lanciate contro Mancini – non in possesso del patentino da allenatore – da Renzo Ulivieri, che da allenatore della Samp con Roberto ebbe qualche screzio. E proseguita – bene – alla Lazio, dove ha vinto un’altra Coppa Italia. Il 9 gennaio 2005, l’Inter ospita la Sampdoria. Una partita a suo modo destinata alla storia del club. Sotto di due gol, l’Inter vince in rimonta con 3 negli ultimi 6 minuti, recupero compreso. Mancini è una furia e dopo la terza rete, segnata da Recoba, si gira verso il parterre dietro la panchina e indica alcuni spettatori che lo hanno insultato.
Basta mandare avanti e indietro il nastro della carriera di Mancini, per notare che Provvidenza e carattere spesso si sovrappongono. Perché la vita offre a Roberto diversi agganci perfetti, che lui spesso sfrutta con la dote del trascinatore polemico quanto basta: quel dito puntato fuori dal campo lo avevamo già visto qualche anno prima. A Dusseldorf, il 10 giugno del 1988. La Nazionale italiana sta affrontando un grande processo di rifondazione, dopo il naufragio ai Mondiali del 1986. Enzo Bearzot se n’è andato e al suo posto la Federazione chiama Azeglio Vicini, che ha fatto molto bene con l’Under 21. Il calcio italiano è un serbatoio continuo di giovani e Vicini può così impostare il proprio lavoro su una rosa fatta di giocatori già esperti come Bergomi e Altobelli, a fare da guida a giovani emergenti come Giannini, Donadoni, Maldini, Vialli.
E c’è anche Mancini, che fino a quel momento in maglia azzurra ha giocato 13 partite, ma non ha ancora segnato. Nel giro da 4 anni (l’esordio è del 1984 nella tournée azzurra in America, contro il Canada), ha però saltato il Mondiale messicano. Vicini conferma il blocco dei giovani dell’Under 21 e Mancini può così prendere parte all’Europeo in Germania. Di fronte, i tedeschi hanno un gruppo che, a differenza di quello italiano, è riuscito ad avere più continuità di quello italiano dopo il Mundial con la finale a Messico ’86. Littbarski, Voeller, Brehme: ci sono tutti. E dobbiamo affrontarli all’esordio. La vigilia è stata affrontata in due modi diversi. Dentro, il gruppo è convinto e tranquillo. A “Sfide”, Vialli e Bergomi raccontano anni dopo che in ritiro si rideva, si scherzava, si giocava a carte. Fuori, invece, la stampa non trova molto a cui appigliarsi per criticare il gruppo. La polemica, alla fine, sta tutta contro la scelta del ct di mettere Mancini titolare al posto del più esperto Altobelli, uno dei pochi a salvarsi in Messico.
La scelta di Vicini paga. Perché sulla fascia destra Donadoni vince un rimpallo e la mette in mezzo, dove Mancini è libero. Di pensare, prima di tutto. L’angolo che il portiere si aspetta è quello sul primo palo. Così Mancini usa il suo destro per metterlo sul secondo. È una rete intelligente, da vero talento. Ma a Mancini non basta. La sua corsa contro la tribuna, a indicare i giornalisti, certo. Ma anche, un’avventura in azzurro che per lui sarà avara di soddisfazioni. Tornerà a segnare nel 1993: doppietta a Malta e gol all’Estonia. La sua ultima partita con l’Italia sarà in amichevole contro la Germania.
Chiamala Provvidenza, ancora. Dove questa non arriva, resta un senso di non finito. A Mancini non basterà vincere due scudetti all’Inter, per non fare posto a José Mourinho. Non gli basterà far vincere una Fa Cup al Manchester City dopo 35 anni di digiuno da qualsiasi trofeo, oltre alla prima qualificazione in Champions dei Citizens e alla Premier League vinta nel 2012. Così come resteranno per sempre, sul prato di Wembley, le sue lacrime per la Coppa Campioni sfuggita per una punizione di “Rambo” Koeman.
«Le vittorie danno fama, ma per la gloria serve altro, serve un’impresa eccezionale, realizzare qualcosa di mai visto», scriveva nel 1948 sulla Gazzetta dello Sport Emilio De Martino a proposito della vittoria al Tour di Gino Bartali. Una frase ripresa pochi giorni fa sul Foglio da Giovanni Battistuzzi, in suo bel ritratto dedicato a Lev Yashin, unico portiere della storia del calcio a vincere il Pallone d’Oro. L’impresa di Mancini resta ciò che ha fatto a Genova. A cominciare dalla costruzione di un gruppo vincente, unito. Il suo carisma convinse gli altri grandi a stringere un vero e proprio patto di sangue: non si va via fino a quando non si vince lo scudetto. Siamo nella metà degli anni Ottanta e mentre in Italia domina la Juventus, certe parole posso sembrare una follia. Ma fino a un certo punto, visto che nel 1985 un’altra impresa eccezionale matura in Serie A: lo scudetto dell’Hellas Verona. «Ormai eravamo lì e volevamo vincere tutto», spiegherà lo stesso Mancini qualche anno dopo. A dare la spinta definitiva alla Samp è Vujadin Boskov, che arriva dalle vittorie al Bernabeu con il Real e spiega subito cosa vuole: «Alla mattina vi voglio tutti con la barba fatta e puntuali in allenamento. E la sera vi controllo».
A Genova arriva la disciplina, ma anche l’affinamento della macchina del gol. Pardon: dei gemelli del gol. «Quanti ne ha fatti Vialli, duecento? Ecco, centocinquanta sono assist miei», spiegherà Mancini sempre a Sfide con un sorriso. Per lui, il gol non era tanto importante quanto l’assist. Servire il compagno sarà un tratto distintivo di una carriera. La rete era una cosa che se veniva bene, ma non c’era bisogno di star lì a festeggiare più di tanto. Una dimostrazione? La reazione all’impresa eccezionale del gol di tacco qualche anno dopo al Parma, con la maglia della Lazio. Esulta persino un orso come Bobo Vieri. Lui no.
Nessuna spocchia. Per Mancini, la squadra prima di tutto. I gol di Vialli sono pure suoi. Gli servirà un assist nel gol del 2-0 nella finale di Coppa Coppe 1990, vinta contro l’Anderlecht. Un destro perfido, a girare, che inganna il portiere in uscita e si posa quasi in maniera ovvia sulla testa di Vialli. Meno ovvio sarà il Mondiale italiano, un mese dopo. I gemelli del gol verranno rimpiazzati da Schillaci e Baggio. Vialli cadrà sotto il peso delle responsabilità, Mancini non giocherà nemmeno un minuto. Sarà il senso di rivalsa dei due a fare esplodere la scintilla dell’ultimo scudetto italiano vinto in “provincia”: nel 1991, la Samp è campione d’Italia. La stessa rabbia che li porterà a Wembley, dove verranno però battuti ancora dal Barça, dopo la Coppa Coppe del 1989. Il gruppo può sciogliersi. Vialli andrà a prendersi la Champions con la Juve, Mancini un altro scudetto “impossibile” con la Lazio.
Mancini è oggi un signore di 50 anni, meno polemico di un tempo, ma che viene sempre chiamato quando ce n’è bisogno. Come quella volta sul piazzale di una chiesa a Jesi, lo hanno cercato per raddrizzare i risultati di una squadra in crisi. In una recente intervista al Corriere dello Sport, ha spiegato che il 27 novembre del 2024, quando cioè avrà 60 anni, si aspetta si essere «Sulla panchina dell’Italia». Chissà la Provvidenza che percorso ha studiato, per portarlo lì.