La giornata autarchica inizia con un caffè, di quelli con la cremina, nella migliore tradizione italiana. E qui arrivano i primi dubbi, se si vuole vivere di solo made in Italy: vale anche se il caffè è sì torrefatto, incapsulato e confezionato in Italia, ma piantato altrove? Perché altrimenti dovremmo fare la prima rinuncia. Sì, dovremmo rinunciare al caffè. Senza contare che il gas usato per prepararlo arriva dalla Russia, dall’Algeria o dalla Libia.
Nella scelta delle miscele di caffè, poi, volendo proprio essere pignoli, dovremmo escludere Lavazza, che ha due centri di produzione in Italia e altri due tra Brasile e India. Illy invece ha mantenuto come unico stabilimento di produzione quello di Trieste. Qualche dubbio ci viene pure con la Bialetti. Perché se è vero che la caffettiera tradizionale viene ancora prodotta in Italia (ma non quelle elettriche) e anche sulle capsule c’è scritto che sono prodotte in provincia di Brescia, è anche vero che il gruppo ha sedi di produzione tra la Romania e la Turchia.
Dopo tutti questi ragionamenti per sola una tazzina di caffè (sì, ma la tazzina sarà stata prodotta in Italia? Se avete quelle dell’Ikea o di ceramiche di Boemia, bisognerà bere il caffè direttamente dalla moka), a questo punto meglio prenderlo senza zucchero, che chissà da dove viene quello comprato al supermercato. Cercando e ricercando, si scopre che uno zucchero 100% italiano esiste, quello della Coprob, prodotto a Minerbio, Bologna, dove scorre uno dei più importanti canali di bonifica della provincia. Un chilo costa 1,40. Basta trovarlo.
Bene, preso il caffè, si vorranno controllare notizie, email, notifiche Facebook, retweet. Niente di tutto questo, se siete autarchici italiani. A meno che non navighiate solo su domini.it e scegliate un browser, pardon un motore di ricerca, italiano. Come Aristotele, completamente arancione. O Il Trovatore. Niente Google, gmail e hotmail. Se avete uno smartphone, dall’iPhone al Samsung, non potrete usarlo. A meno che non ne abbiate uno italiano. Di telefonini italiani, ce ne sono parecchi e non sono neanche così male. Ma, ovviamente sono tutti assemblati in Cina, quindi non vale. C’è lo Stonex della omonima azienda di Lissone, in provincia di Monza Brianza; il torinese Brondi Cesar, che però è un po’ pesantuccio (215 grammi); l’Ekoore Ocean X Pro, prodotto in provincia di Caserta; e poi anche il Komu K5, prodotto da un’azienda gestita da un trentenne cinese che per anni ha vissuto in Italia; il Nodis, di Cinisello Balsamo, in provincia di Milano; l’Oliphone della Olivetti; e anche l’Ngm, della stessa azienda che ha prodotto anche il lady phone con i cristalli swarovski incastonati e lo specchietto posteriore. Inutile dire che tutti i dispositivi hanno il sistema operativo Android, che non è propriamente italiano.
Stesso discorso vale per i calcolatori. Se volete vivere di made in Italy, abbandonate i vostri mcbook, notebook e tablet. Di italiano c’è qualche sopravvissuto Olivetti (incredibile la somiglianza estetica tra l’Olibook T14 e i macbook di Apple), che produce anche i tablet, e i SiComputer prodotti a Lugo, in provincia di Ravenna, tutti touch screen. E poi dimenticate Facebook, Twitter, Instagram e Pinterest. Divertitevi invece a commentare sui social network made in Italy, da Egomnia a Kiwi a Circleme (qui un elenco di sette social italiani), dove di certo potrete incontrare altri autarchici come voi.
Se non siete riusciti leggere le ultime notizie dai vostri smartphone e tablet prodotti fuori dai confini patri, basterà accendere la televisione e vedere un bel telegiornale italiano. Se avete un apparecchio italiano, ovviamente. Tipo uno degli ultimi sopravvissuti della Mivar, che però a inizio 2014 ha annunciato la chiusura. Per il resto, nell’industria delle tv il made in Italy è solo un ricordo, schiacciato dai colossi giapponesi e coreani, di cui i nostri appartamenti sono pieni. Piccoli gioiellini del made in Italy sono solo le tv Super//Fluo (alcune realizzate in partnership con Brionvega) prodotte nell’estremo Nord Est, a Pordenone. I prezzi sono molto più alti di quelli asiatici: quasi 1.000 euro per un 19 pollici. Non proprio accessibile a tutti, insomma. Dopo vari tentativi, per avere qualche notizia italiana, l’unica riserva dell’autarchico è l’edicola, dove si potranno gustare i giornali pensati, scritti e stampati dentro i confini patrii. Compresi Chi e Novella 2000.
È arrivata l’ora di spostarsi, e a meno che non si voglia fare una passeggiata a piedi, servirà un mezzo di trasporto. Di biciclette italiane ce ne sono tante, dalla Olympia di Piove di Sacco (Padova) alla Atala di Monza. Di macchine prodotte in Italia, invece, ormai ne sono rimaste ben poche. La produzione italiana di Fiat copre solo il 23% del totale, ma al momento solo a Pomigliano si costruisce la Nuova Panda e a Cassino si assemblano le Alfa Romeo Giulietta. Il resto delle Fiat in circolazione sono prodotte all’estero. Anche la DR Motor di Isernia non è proprio pura: le auto sono assemblate in Italia, ma i componenti sono importati dalla casa automobilistica cinese Chery Automobile. Di automotive made in Italy, ci rimane solo una vasta gamma di piccole auto elettriche biposto, dalla Tazzari Zero di Imola con batterie al litio alla Nwg di Prato. A meno che non possiate permettervi una Ferrari rossa fiammante o una Maserati. Restano ancora, per fortuna, la Vespa e l’Ape Car della Piaggio.
Se si prende l’autobus, invece, la maggior parte di quelli presenti nelle nostre città non sono di produzione italiana. Vale la pena cercare un tram, di quelli AnsaldoBreda, casa Finmeccanica. O un treno della metropolitana di quelli prodotti in Italia. Occhio a non correre a prendere di fretta la linea lilla del metrò di Milano: i treni sono della francese Alstom.
Se poi avete il vizio del fumo, bisognerà rinunciare a Marlboro, Camel e Lucky Strike. Di bionde italiane ci sono le YesMoke che, si legge sul sito, hanno l’obiettivo di «estirpare il bubbone Big Tobacco dalla società», non aggiungendo «cocktail chimici» e con un filtro biodegradabile. Anche le vecchie Ms italiane, che fumavano i nostri nonni, sono passate ormai nelle mani della British American Tobacco. L’alternativa sono i Toscanelli, prodotti tra la Toscana e Cava de’ Tirreni (Salerno). O le sigarette elettroniche: di made in Italy ce ne è una, la ePipe di Moncalieri, che – dicono i produttori – è più sicura di quelle cinesi in commercio.
Arriva l’ora di pranzo e qui le cose si fanno più semplici, in teoria. Se andiamo al supermercato, è facile intuire la provenienza di quello che compriamo. Basta leggere le etichette. Le arance dovranno essere solo siciliane o calabresi, ma non marocchine. L’olio, solo quello pugliese o del Garda, niente spagnolo e greco. Per la pasta, occhio a non comprare la Garofalo, che è passata in mani spagnole. E anche la Nutella, sì la Nutella, fa sorgere qualche interrogativo nello spirito autarchico: la crema di cioccolato e nocciole viene sì prodotta in Italia, ma la Ferrero ha ormai portato armi e bagagli in Lussemburgo. Se andiamo al ristorante, la giornata autarchica si fa più difficile. Ma basta scegliere quello giusto. In ogni caso dimenticate i fast food americani e i ristoranti cinesi o giapponesi che piacciono tanto agli italiani (negli ultimi sette anni la spesa in cibo etnico è cresciuta del 63%. Fonte: Rapporto Coop 2014).
Nella giornata autarchica, si potrà andare anche a fare shopping, e qui viene la parte più difficile. Mentre passeggiamo ascoltando nelle cuffie l’ultimo album di Biagio Antonacci scaricato sul nostro Stonex (anche se non dovremmo perché la casa discografica del Biagio nazionale è la Sony), guardiamo le insegne dei negozi delle nostre città. I marchi della fast fashion italiana, da Benetton a Calzedonia, hanno linee pensate in Italia ma prodotte all’estero, dalla Cina allo Sri Lanka. Quindi: escluse. Ma a meno che non si scelga qualche produzione artigianale, i vestiti da autarchico sono pochi. Ci restano i maglioncini in cachmere di Brunello Cucinelli, e qualche prodotto del pantheon dell’alta moda. Da Prada, che mantiene ancora in Italia 11 fabbriche, ad Armani. Avremo di sicuro più scelta nelle scarpe: l’Italia resta ancora il principale produttore calzaturiero d’Europa, con sette “regioni” calzaturiere, dalle Marche alla Toscana. Negli occhiali, con Luxottica, siamo i leader mondiali, ma oltre ai sei impianti produttivi in Italia, il gruppo di Agordo ne ha altri due in Cina, uno in Brasile, uno in India e uno negli Stati Uniti. Se poi l’autarchico fa anche sport, lungi dal comprare Nike o Adidas, potrebbe puntare sui marchi sportivi nazionali come Lotto, Fila e Robe di Kappa, ma poi scopre che di made in Italy è rimasta poco più che la testa. Il resto, all’estero.
Mentre tutti intorno si fanno autoscatti (selfie) con meravigliosi iPhone, arriva la sera. Si può andare al cinema, ma di italiano in cartellone ci sono un film di Ficarra e Picone, un altro con Christian De Sica e Rocco Papaleo e uno con Raul Bova. Che è bello sì, ma ci basta vederlo nella pubblicità della Tre. Si può andare a teatro a vedere Toni Servillo, ma i biglietti partono da 26 euro: troppo per uno stipendio medio italiano. Non resta che affogare i dispiaceri in un bicchiere di buon vino italiano e un piatto di pasta campana al pomodoro di Pachino, mentre guardiamo Un posto al sole su uno schermo Mivar a tubo catodico seduti sulla nostra bella poltrona Frau. Ah, ma Frau l’hanno comprata gli americani? Tanto vale guardare Breaking Bad, allora. Finalmente.