In tempi di patti del Nazzareno e governo delle larghe intese, gli “inciuci” non mancano. Ma da dove viene questa parola? Lo chiediamo all’Accademia della Crusca.
La Crusca risponde Severina Parodi sulle pagine della nostra rivista La Crusca per voi (n. 12, aprile 1996) scriveva: «Propriamente il napoletano ‘nciucio significa ‘pettegolezzo, chiacchiericcio’ e il verbo ‘nciucià ‘spettegolare, fare e riportare chiacchiere; malignare; mettere zizzania fra persone col proprio sparlare’; questo secondo i moderni dizionari del napoletano che riportano anche ‘nciucessa ‘pettegola’, mentre nei dizionari più antichi (Galiani ad es.) il termine non figura. Nell’uso odierno, tuttavia, la parola tende a scostarsi dal suo significato originale per assumere quello di ‘imbroglio, intrallazzo, finta’. Così come si nota nel leggere, ad es., nella Nazione del 23.02.1996, a proposito della rissa tra un giornalista e i “gorilla” di Pippo Baudo al recente festival di Sanremo, la dichiarazione del noto presentatore: “Colpa dell’inciucio che non c’è. Se ci fosse stato l’inciucio forse ci divertiremmo di più”, come dire “se avessimo fatto le finte, la cosa sarebbe stata più divertente”».
La Parodi scriveva quando il termine dialettale era da poco entrato nell’uso del linguaggio della politica nazionale come “compromesso poco chiaro, accordo pasticciato, soluzione non trasparente, intrallazzo” (S. Novelli, G. Urbani, Dizionario della Seconda Repubblica, Roma, 1997). Negli Annali del lessico contemporaneo italiano: Neologismi 1995, a cura di Michele A. Cortelazzo (Padova, 1995) si cita come primo esempio una frase di Roberto Maroni pubblicata sul Corriere della Sera del 23 dicembre 1995, ma si aggiunge che il “battesimo della politica” è stato dato al termine, o meglio al suo accrescitivo inciucione, da Massimo D’Alema in una intervista rilasciata a Mino Fuccillo su Repubblica del 28 ottobre dello stesso anno; accrescitivo che sarà subito ripreso nel titolo di un articolo del 30 ottobre, che commentava quell’intervista.
La cosa non passò sotto silenzio tanto che, dalle pagine del Corriere, già il 29 ottobre, Beppe Severgnini, con la consueta ironia, commentava l’uscita di D’Alema, il quale non forniva la spiegazione del termine, rimproverandogli di aver lasciato in ansia gli italiani, perché “Qualunque cosa sia, ha un suono minaccioso. Molte porte italiane, la notte scorsa, erano chiuse a doppia mandata. I pidiessini giurano che non mangiano più i bambini; adesso non possono terrorizzarli con l’inciucione”. Dichiarava di aver “provato a telefonare in giro per l’Italia: niente da fare. Lombardi, veneti, piemontesi, liguri, emiliani, toscani e sardi, davanti all’inciucione, sono perduti”; finalmente “I primi indizi sono arrivati da Napoli, l’inciucione, mi è stato assicurato, è un grande inciucio. D’accordo, ho chiesto: ma cos’è un inciucio? Inciucio, mi è stato risposto, è il pettegolezzo; inciucesso (parola non entusiasmante), il pettegolo. No, hanno ribattuto da Roma. Inciucione viene da inciuciamento, chiacchiera intima e compiaciuta tra più persone”.
Il titolo dell’articolo è appunto Potevano dire “pettegolezzo”. Avrebbe fatto meno paura, ma D’Alema intendeva ben altro che ‘pettegolezzo’, come è chiarito dall’interpretazione di Fuccillo nel suo commento: “Quel che non si sa o si vede poco è che, purtroppo, c’è una terza via, all’italiana. Niente elezioni, niente accordi prima del nuovo governo, solo grandi fanfare che annunciano riforme. Per questa terza via si va a un governo dove uno strapuntino non si nega a nessuno, tutti insieme si galleggia e questo è l’obiettivo. È questo e non altro l’inciucione: nessuno lo propone”. Benché il termine non fosse ancora chiaro agli italiani in ansia, doveva esserlo per i politici interlocutori di D’Alema, visto che «Berlusconi lo considera[va] “un’ammucchiata”» (Fini: il governissimo è la fine del Polo, Repubblica, 29.10.1995), usando un altro termine del “politichese”, che non risultava certo ansiogeno per il pubblico nazionale.
Il napoletano ‘nciucio significa ‘pettegolezzo, chiacchiericcio’ e il verbo ‘nciucià ‘spettegolare. In politica è diventato sinonimo di “intrallazzo”
Quale fosse il valore di inciucio poteva averlo chiarito ai suoi colleghi Alessandra Mussolini, napoletana, che l’anno prima aveva lanciato «Una sequela di attacchi, anche feroci. […] contro Gianfranco Fini e le sue “cannonate” d’oltremare, contro l’“inciucio”, arte sommersa del “tessere le reti di nascosto”», come testimonia un articolo del Corriere, che doveva esser sfuggito a Severgnini (La Mussolini: Gianfranco, basta con i siluri al Duce, 5.7.1994). In realtà la voce era già entrata nell’agone politico da almeno quattro anni, anche questa volta proposta da sinistra: “Adesso non mettevi a parlare di inciucio, supplica Rina Gagliardi, […]. E certo, a sentire le battute di Valentino Parlato, è difficile pensare a un compromesso qualsiasi tra lui, Pintor e Rossanda e la ciurma ribelle del giornale” (Disgelo in vista al Manifesto, 27.6.1990).
Evidentemente a Roma i politici, qualsiasi fosse la loro origine (la Gagliardi era pisana), usavano il termine nel significato specialistico, mentre i romani, anche se dell’ambiente, continuavano a impiegarlo in quello rilevato da Severgnini: “E che vacanze vuoi che faccia Costanzo. È lì, fra il teatro e gli uffici, le carte, il caffè, l’inciucio al telefono, le passate di cerone al trucco”, scriveva meno di due mesi dopo il romano Paolo Guzzanti (Credetemi la gioia non è peccato, “Repubblica”, 12.8.1990). In realtà, il particolare valore che le “inchieste telefoniche” del giornalista attribuiscono all’inciuciamento romano, era già un’evoluzione presente nel napoletano, visto che Vittorio Parascandola inVèfio. Folk-glossario del dialetto procidano (Napoli, 1976) citato negli Annali aggiunge al valore di ‘pettegolezzo’ per inciucio la precisazione: “Che si realizza con una serie di conciliaboli e conventicole e, soprattutto, con una serie di parlottamenti sottovoce”. Ciò fornisce il tramite tra il significato tradizionale del napoletano ricordato da Severina Parodi e quello “politico”, e ben presto anche generico, che il termine ha assunto.
Per quel che concerne l’origine remota della voce, come la Parodi giustamente notava, essa non compare nei repertori napoletani più antichi, ma nel Vocabolario Napolitano-Toscano di Raffaele D’Ambra (Napoli, 1873) troviamo le forme onomatopeiche ciociò e ciù ciù “per indicare quel suono confuso che si fa quando si parla a voce bassa” e i verbi ciocioliare e ciuciuliare per “bisbigliare, parlottare”, da cui è probabile che inciucio derivi.
In ogni caso non c’è dubbio che la voce abbia avuto successo (mi sento di poter aggiungere purtroppo), tanto che nel 2005, quindici anni (nel libro si dichiara dieci) dopo il suo “ingresso in politica”, Peter Gomez e Massimo Travaglio hanno titolato Inciucio il volume uscito per la Biblioteca Universale Rizzoli e che il termine compare in oltre 1.400 pubblicazioni a stampa (Google libri 17.01.2011); se si passa alla rete il numero delle occorrenze balza a oltre 80.000 (Google alla stessa data). Del resto il termine è registrato nei dizionari di lingua (Vocabolario Treccani,Supplemento 2004 al GDLI, GRADIT, che dall’edizione 2007 anticipa la datazione al 1990, DISC 1997, ZINGARELLI 1997, Devoto-Oli 2002-2003), alcuni dei quali riportano anche derivati come inciucismo, inciucista, inciucioso, inciuciare.
Per ciò che riguarda i quotidiani, “luogo deputato” per questo genere di voci, sul Corriere ad oggi inciucio ha raggiunto le 1.082 occorrenze, non molte meno delle 1.175 su Repubblica; inoltre su Repubblica l’uso più recente risale solo al 12 gennaio scorso e nello stesso quotidiano il 31 dicembre 2010 la voce compariva in ben tre articoli diversi.
Nel 1995 Severgnini concludeva così il suo articolo: “Siccome la politica italiana non è abbastanza allucinante, ci volevano giusto i mostri e le sciarade”; ci possiamo domandare se l’inciucione fosse la cosa peggiore che potesse capitarci.
A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca