Gay, trans e disabili, le discriminazioni sul lavoro

Gay, trans e disabili, le discriminazioni sul lavoro

Per trovare un lavoro, un buon curriculum non basta. Soprattutto se sei donna, omosessuale, immigrato, o anziano. Anzi. Lo dicono i numeri dell’ultimo rapporto dell’Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali (Unar), anticipati durante il Forum delle risorse umane di Milano: il 16% delle segnalazioni per atteggiamenti discriminatori arriva dal mondo del lavoro. «È uno dei settori più critici», ha spiegato Marco Buemi, referente Unar. Secondo solo alle discriminazioni nella vita pubblica, con il 21,1%, e nei mass media, con il 26 per cento. Ma denunciare di essere vittima di un abuso sul lavoro, si sa, è più difficile che denunciare un titolo discriminatorio su un giornale. «Le discriminazioni sul lavoro», spiega Buemi, «sono di certo molte di più delle segnalazioni che arrivano sul nostro sito o al nostro numero verde».

Più del 70% è relativo alle difficoltà di accesso all’occupazione. «Le persone denunciano se non riescono a entrare perché non hanno nulla da perdere», spiega Buemi. «Non denuncia invece chi è già assunto: se sei già dentro diventa più problematico. Si accettano condizioni svantaggiate e si fa un compromesso con se stessi per non rompere il rapporto con il datore di lavoro, soprattutto in questo momento di crisi».

Solo il 4,1% ha fatto una denuncia per discriminazioni per le condizioni lavorative, il 2,3% per le condizioni di licenziamento e per atteggiamenti discriminatori da parte dei colleghi. Sotto l’1% le segnalazioni per mobbing. Le denunce arrivano soprattutto dal Nord Ovest (41,9%) e dal Centro (24,7%). A farle sono nella maggior parte dei casi le vittime stesse (55,8%). Solo nel 21% dei casi partono dai testimoni.

Ma perché si discrimina? Sulla base della tipologia delle segnalazioni arrivate all’Unar si sarebbe portati a credere che sul posto di lavoro si discrimina per la quasi totalità a causa dell’età dei lavoratori (le segnalazioni per età sono oltre l’80%). Molto basse le percentuali per discriminazioni dovute all’orientamento sessuale (1,6%), disabilità (5,6%), genere (6,5) e religione (1,6%). «Le denunce per discriminazioni sulla base dell’età sono le più facili da fare», spiega ancora Buemi. «Persone come gli omosessuali o i transessuali sono quasi invisibili nelle aziende. Si sa che il 6% della popolazione aziendale ha un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale. Ma il coming out si scontra con la cultura aziendale dominante. Lo ha fatto Tim Cook perché se lo può permettere, la maggior parte non lo fa».

Stessa cosa vale per i disabili, che trovano non poche difficoltà a entrare nel mondo del lavoro. Secondo l’ufficio per i diritti dei portatori di handicap delle Nazioni Unite, nei Paesi industrializzati il livello di disoccupazione dei portatori di handicap raggiunge il 50-70 per cento. In Italia si sale all’80 per cento. Di recente, non a caso, la Corte di giustizia europea ha bocciato l’Italia per non aver adottato tutte le misure necessarie per garantire un adeguato inserimento professionale dei disabili nel mondo del lavoro. Una legge in realtà esiste, la 68 del 1999, e prevede che le aziende che superano i 15 dipendenti siano obbligate ad assumere un determinato numero di lavoratori appartenenti alle categorie protette. «Ma negli anni le aziende hanno preferito pagare le multe una tantum anziché assumere disabili, perché avere un disabile vuol dire avere dei costi, partendo dall’abbattimento delle barriere architettoniche in azienda per esempio».

E poi ci sono le donne. Il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese, al 46,7%, è tra i più bassi d’Europa. Le denunce per discriminazione sono il 6,5%, solo quelle che arrivano all’Unar. Il divario salariale uomo-donna in Italia è del 6,7 per cento e cresce ogni anno. E nonostante nel nostro Paese le donne siano il 54% di coloro che studiano materie scientifiche rispetto al 37,5% della media europea, nelle pubblicazioni scientifiche a firmare poi sono sempre gli uomini e molte abbandonano per strada. Oltre al fatto che la gravidanza rappresenta ancora uno dei motivi di licenziamento o di non assunzione.

Per quanto riguarda gli immigrati, invece, «spesso basta sentire il nome Mohammed per essere scartato», dice Buemi, «anche a fronte di titoli di studio e migliori competenze di un candidato italiano». Il risultato è che il 29% degli stranieri è ancora impiegato in un lavoro elementare, rispetto al 7% degli italiani. Neppure uno su dieci, tra gli stranieri laureati, svolge un lavoro qualificato. Più di 4 stranieri su 10 sono impiegati in lavori che richiedono competenze inferiori rispetto al titolo di studio, percentuale che tra le donne sfiora il 50 per cento. Solo il 5% occupa una posizione apicale, in confronto al 36% degli italiani. Ma è in questo ambito che «i mass media attuano le discriminazioni peggiori», dice Buemi. «Pensiamo alla parola clandestino, che etimologicamente significa qualcuno che si nasconde. È un termine che all’estero non esiste. Eppure viene spesso usata dai giornali italiani indifferentemente per indicare immigrati per motivi economici, richiedenti asilo e rifugiati. È una parola che ha fatto danni enormi nella percezione dell’immigrazione nel nostro Paese». 

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