Con l’avvento delle serie tv in molti pensano sia giunta la fine, tante volte annunciata, del romanzo. Secondo lei il romanzo è morto?
Sinceramente, io provo uno scarso interessa per il romanzo in genere — inteso come protratta narrazione di eventi o situazioni verosimili — e talora un sentimento più prossimo alla ripugnanza che al semplice fastidio. Ho l’impressione che oggi codesto genere sia caduto in tanta irreparabile fatiscenza che il problema è solo quello dello sgombero delle macerie, non del loro riattamento a condizioni abitabili; codesto sprofondamento ha, a mio avviso, una causa precisa. I romanzieri sono persone serie, o si comportano come tali. Questo è il problema.
In che senso, scusi, preferirebbe fossero dei mascalzoni?
Ma no, è che diventato nutrimento ideologico, insaporito di frammenti di idee, il romanzo è decaduto a messaggio edificante. E questo di per sé non sarebbe ancora rovinoso, giacché le vie della salvezza letteraria sono infinite; ma ci rattrista constatare a qual punto i romanzieri siano riusciti nel loro compito. Non per caso, il romanzo appare nella letteratura europea proprio nel momento in cui decadono il gusto e l’intelligenza della retorica classica.
Ok, il romanzo è morto, ma la letteratura che fine fa?
Possiamo forse vedere la letteratura come una satira totale, una pura irrisione, anarchica e felicemente deforme; una modulazione del blasfemo. Nel cuore della letteratura sta chiuso un riso tra olimpico e demente, qualcosa di cui molti hanno paura. È uno scandalo, lo scandalo irreparabile, da sempre. Non c’è una leggenda extra canonica che parla di una gran risata di Adamo morente? Dio dovette restare profondamente sconcertato.
Quindi che come definirebbe la letteratura?
Essa è ambigua, asociale, incorreggibile e imperfettibile. Soprattutto, è totalmente ambigua. È disonesta. Parteggia per gli assassini. È ingiusta. È diseducante. È sensuale. Non tollera che la si ammanti di qualsivoglia ideologia. È in grado di accogliere tutte le ideologie e di fatto le accoglie, le accoglierà. Non le interessano. Cercano di metterle in bocca delle risposte. Lei ha tutte le risposte dentro di sé; quelle e il loro contrario. Veramente, è mostruosa. È la libertà. Ma non la libertà bene intesa.
E dei nuovi scrittori cosa ne pensa?
Vuol saperlo veramente? Io li vedo come i nuovi, acerbi visigoti, che si affacciano tra le reliquie dell’impero romanzesco, accampati accanto ai deserti, frantumati ideodotti. Battono le loro aspre oreficerie, si rallegrano di riconoscervi i segni astratti e arbitrari, i quadrati, i triangoli; incidono i loro scacchi di avorio duro, si dispongono a giocare le loro eterne, fatali, inutili partite.
E di tutti gli aspiranti scrittori, cosa ne pensa?
Ah ah ah, penso che, di questo passo, si dirà scrittore anche il compilatore di volantini o manifesti. Neanche a pensarci. È chiaro che bisogna arrivare a un esame di Stato e iscrizione all’albo. Chi passa l’esame e viene nominato “scrittore”, è fortemente sospetto di reato. A mio avviso, tutti gli aspiranti scrittori bocciati hanno, con la loro infondata aspirazione, svelato la loro brama di pensare impunemente, e dunque vanno gettati in oscure carceri, e possibilmente rieducati all’analfabetismo, magari con l’uso di macchine da scrivere con i tasti sbagliati.
Crede che la letteratura possa avere un ruolo politico, possa veicolare un’ideologia?
No, io non credo ai tentativi che si fanno di ideologizzare la letteratura. È un’operazione sostanzialmente conservatrice. Credo, al contrario, che oggi sia urgente affermare che la letteratura è per sua natura refrattaria a qualsivoglia coonestazione ideologica. Credo che urga sottolineare il carattere provocatorio che è, quello solo, veramente rivoluzionario. Essa, nella serie dei possibili discorsi umani, è la frattura, lo scandalo.
Frattura, scandalo, ma lei non sta parlando dell’avanguardia?
A mio avviso, il compito proprio dell’avanguardia letteraria è quello di far “letteratura”: gli scrittori d’avanguardia sono dei letterati, puntigliosi escogitatori di artifici, un poco pedanti, intelligenze naturalmente inclini agli aspri e lucidi gaudi dell’acrostico, dei tecnopegnia, dei glifi, intenti agli austeri estri combinatori del linguaggio.
Nella storia dell’uomo, la letteratura sta fuori; è accusa e vergogna, una malattia illuminante. Non si può avere l’illuminazione senza la malattia. È una stortura. Un errore. Nell’opera onerosa e angosciosa di produzione letteratura, il letterato non è che il testimone. Occorre appena aggiungere che egli è ambiguo a se medesimo; giacché, quando un’opera è fatta, egli ne sa su di essa quanto l’ultimo lettore. Non di più. Neppure a lui risponde.
Che animale è lo scrittore?
Lo scrittore è un animale isterico, facile a fare la ruota, se ha la coda, quanto a spaurirsi; è un po’ infantile, e può accadere che il libro sia il suo giocattolo prediletto; ma a questo modo non è antipatico, lo si sopporta; ma se gli gira, si persuade di essere lo spirito del mondo, e se qualcuno gli dà sulla voce, gli schiuma la bocca. E questo non è bene.
E invece, delle scuole di scrittura creativa, che ne pensa? Si può insegnare a scrivere un romanzo?
Certo che si può; e poiché già lo si fa informalmente, sarebbe ora di farlo pulitamente; insomma, si può, è cosa onesta e civicamente lodevole insegnare a scrivere romanzi che non val la pena leggere, che sono quasi la totalità; così come un tempo si insegnava come scrivere sonetti che sono finiti in polvere.
E lei allora, perché lei ha scritto?
Confesso di non saperlo, di non averne la minima idea e anche che la domanda è insieme buffa e sconvolgente. Come domanda buffa avrà certamente delle risposte buffe: ad esempio, che scrivo perché non so fare altro; o perché sono sempre stato troppo disonesto per mettermi a lavorare.
*le parole di Giorgio Manganelli sono prese dal libro Il rumore sottile della prosa, di Giorgio Manganelli, Adelphi, 1994