Fondi con sedi in paradisi fiscali che speculano sulle cessioni dei calciatori. Squadre medio-piccole che, a garanzia dei pagamenti sulle percentuali dei giocatori ceduti, mettono gli introiti futuri sui diritti televisivi. Club che sognano in grande, ma che vengono usate dalle big come supermercati e costretti a vivere di gloria in Europa League piuttosto che in Champions. Campionati di medio livello usati da fondi e società come terreni di caccia. E poi un mare di agenti, intermediari, dirigenti che si spartiscono parti più o meno cospicue delle percentuali di una cessione. Benvenuti nel calcio delle “terze parti”. Un calcio che rischia di impoverirsi, economicamente e moralmente.
Dove c’è crisi, ci sono le Tpo
Il pallone europeo, come quasi tuti i settori legati all’economia, ha conosciuto negli ultimi anni la crisi. E se fino a qualche stagione fa poteva permettersi di essere autonomo grazie a sponsor e diritti tv tipici del calcio europeo, ormai le cose sono cambiate. I soldi ci sono, ma non per tutti. Tanto che anche nel Vecchio Continente si sta via via affermando il cosiddetto fenomeno delle third party ownership (Tpo), ovvero la proprietà di terze parti dei cartellini dei giocatori. Una modalità che abbraccia sia i fondi d’investimento che le società private, passando per alcuni intermediari coinvolti nelle cessioni di giocatori da una squadra all’altra.
Che il fenomeno sia in aumento, lo spiegava già a fine 2013 un report di Kpmg. Secondo la società di consulenza, gli operatori del ramo Tpo hanno investito quote in 1.100 calciatori in Europa; mentre in Brasile (area dove ha cominciato a diffondersi il fenomeno) le partecipazioni in giocatori della Serie A hanno raggiunto il 90%. Nel dettaglio, le quote degli investitori nei giovani calciatori in Europa hanno raggiunto un valore di 1,1 miliardi di euro. Tradotto: il 5,7% del valore del mercato dei trasferimenti nell’area del Vecchio Continente. In particolare, i Tpo sono diffusi nei Paesi dell’Europa orientale, dove gli investitori hanno in mano il 40% del valore di mercato dei calciatori. Una modalità che per un club rappresenterebbe prima di tutto un vantaggio: i flussi di denaro provenienti da questi fondi permettono alle società di calcio di non dipendere troppo dai prestiti erogati dalle banche, come spesso accade. Il meccanismo di funzionamento dei Tpo legati a fondi e società di investimento è semplice. I proprietari dei fondi di investimento agiscono come dei veri e propri scout, andando a cercare giovanti calciatori di talento e che possano assicurare una rendita tecnica ed economica. Il fondo che ha investito si prende una percentuale sulla vendita futura del calciatore, come interesse.
Detta così, non sembrerebbe male. «Il problema è legato alla finanziarizzazione nel calcio. Parliamo di un mercato poco trasparente, che come risultato dà dei trasferimenti operati a scapito della carriera dei calciatori». A spiegarlo a Linkiesta è Raffaele Poli, membro del Cies (Centre International d’Etude du Sport), l’osservatorio con sede in Svizzera e co-fondato dalla Fifa nel 1995: «Per colpa della crisi economica, si è creata una cerchia ristretta di club che possono permettersi di spendere grandi cifre, ma ci sono molti club medio-piccoli dove i dirigenti operano sfruttando il sistema delle terze parti a scapito dei giocatori. In quest’ultimo contesto, spesso ci si aggrappa a degli avvoltoi: è il sintomo di decadenza di un sistema».
Gli introiti futuri dei diritti tv in pegno per ripagare gli interessi
Non è un caso che le Tpo agiscano solo in determinati contesti. «Nel Regno Unito, le Tpo sono ufficialmente bandite. In Premier League, ovvero in un campionato che sa vendere in maniera più remunerativa i propri diritti tv, di questo sistema non c’è in larga parte bisogno», precisa Poli. La Premier non ha più voluto sentire parlare di terze parti ed altri giri strani dopo il caso Tevez-Mascherano. Nel 2006, i due giocatori argentini arrivano dal Corinthians al West Ham. Li portò a Londra l’iraniano Kia Joorabchian, uomo d’affari diciamo controverso (a un certo punto risulterà essere registrato con due date di nascita differenti) che nel 2004 aveva acquistato il Corinthians, inclusi Tevez e Mascherano, attraverso il fondo Media Sports Investments. I due giocatori finirono in maglia Hammers tra multe, inchieste della Federcalcio inglese (i trasferimenti dei due atleti violavano le norme inglesi) e mandati di cattura internazionale per Joorabchian, accusato di riciclaggio. Il faccendiere ricercato pagò 3 milioni di euro al West Ham per non proseguire nella diatriba davanti al Tribunale d’Arbitrato per lo Sport (Tas).
Nonostante il ban della Football Association, la Premier è anche uno dei simboli del modo di agire delle Tpo, che fioriscono soprattutto quando una squadra è in difficoltà e cerca di tenere il passo con le grandi. Secondo un’indiscrezione riportata da Bloomberg a fine settembre, un fondo con sede delle Isole Vergini, chiamato Vibrac, avrebbe finanziato in maniera occulta alcuni club come lo stesso West Ham, Everton e Southampton, arrivando a staccare assegni fino a 200 milioni di euro. Come? Sia come proprietari di quote di cartellini di giocatori, sia comportandosi come una vera e propria banca in grado di erogare prestiti per far respirare le casse di squadre come quella del Southampton, che negli anni passati ha vissuto gravi problemi di bilancio che ne hanno messo a rischio l’esistenza.
Il problema è che i tassi di interesse di tali prestiti oscillerebbero tra il 6,5% e il 10% e le squadre, già in difficoltà economiche, a garanzia dei pagamenti avrebbero messo a disposizione i proventi futuri dai diritti tv. Il West Ham, che viaggia su debiti pari a circa 70 milioni di sterline, già nel 2013 aveva impegnato 60 milioni di sterline dai futuri guadagni dalle televisioni. Altri 10 milioni di sterline la Vibrac li ha prestati al Reading. Il club di Championship (la serie B britannica) quest’estate è stato messo sul mercato dai proprietari incapaci di fare fronte ai debiti: dopo la retrocessione dalla Premier League, avevano messo a disposizione di Vibrac il “paracadute” economico che la Premier stessa elargisce a chi arriva tra le ultime tre in classifica.
Le squadre relegate a ruoli di comprimari dalla Doyen
Il Vibrac, come modo di agire e come sede in un paradiso fiscale, ha molto in comune con un altro fondo divenuto noto negli ultimi anni, il Doyen. Attivissimo soprattutto tra Spagna e Portogallo, come conferma Raffele Poli: «Parlando sempre di terze parti, fuori dalla Premier League c’è molta più disonestà, perché le difficoltà economiche dei club sono più grandi. In questi contesti ci sono molte squadre, alleate a fondi d’investimento, che grazie a questo sistema riescono ad ottenere buoni risultati, ma non continuativi. Squadre come Porto, Benfica, Siviglia e Valencia spesso e volentieri giocano più in Europa League che non in Champions e là restano relegate».
Tutte le squadre citate dal membro del Cies a Linkiesta hanno in comune i rapporti con la Doyen. Del fondo si comincia a parlare nel calcio europeo nel 2011, quando in Liga Spagnola alcuni club come Atletico Madrid e Sporting Gijon esibiscono su maglia o pantaloncini il suo logo. Ma non si tratta solo di una sponsorizzazione. La Doyen comincia a elargire presiti ad alcuni club, aiutandoli a comprare certi giocatori che altrimenti non si potrebbero permettere. Sembrerebbe un equo scambio: tu compri un buon giocatore, migliori la tua posizione in Spagna (e in Europa) e ci guadagni da premi classifica e diritti tv; io ti pago quel giocatore e dai tuoi risultati ci guadagno sulla rivalutazione (in rialzo) del cartellino del calciatore stesso, nel momento in cui lo rivendi, intascandomi la maggior parte dei soldi.
Ma lo scambio non è equo. Perché come in Inghilterra negli interessi da ripagare finiscono quei proventi da premi e diritti tv che una squadra dovrebbe incassare per intero, magari per ripianare le pendenze con il Fisco. In Spagna, questa voce ha raggiunto livelli preoccupanti: a fine settembre 2014, i debiti totali della Liga nei confronti della Fiscalidad ammontano a 301 milioni di euro, grazie anche al corposo buco dell’Atletico Madrid, che ne deve circa 107. E i Colchoneros («che però sono più continuativi nei risultati grazie al genio di Simeone», precisa Poli) sono tra i clienti più affezionati di Doyen, come emerge dal caso Falcao raccontato mesi fa da Linkiesta. Un club che, come altri, usa le plusvalenze per reinvestire sul mercato e fare allo stesso tempo da supermercato per i grandi club, con la mediazione di Doyen: gli ultimi casi di Mangala dal Porto al Manchester City e di Rojo dallo Sporting Lisbona al Manchester United lo dimostrano. Tra Spagna e Portogallo, l’elenco dei giocatori del fondo Doyen è nutrito: Negredo, Reyes, Botía, Kondogbia, Baba Diawara, Manu Del Moral, Barrada, Pedro León, Rubén Perez, Labyad e Rojo sono solo alcuni nomi di una lista che ingrossano il business del fondo. E pazienza se le squadre affondano nei debiti: il Valencia ha rischiato di sparire, coinvolto nel crack di Bankia, mentre l’Espanyol ha ceduto i diritti di 4 calciatori a un altro fondo britannico e lotta contro il tempo per trovare i soldi (circa 60 milioni) per stare a galla.
Insomma, dove c’è odore di debiti, i fondi ci si buttano a capofitto. In Francia, il segno “meno” complessivo nei bilanci della Ligue 1 sfiora i 200 milioni di euro. E mentre il Governo ha già annunciato che dal 1° gennaio 2015 verrà rimossa l’aliquota del 75% sulle rendite sopra il milione di euro voluta da Hollande, i fondi avrebbero già pianificato lo sbarco nel massimo campionato transalpino. Oltre alla Doyen, ci sarebbero altri due fondi: Asset Management Ltd e FairPlay Capital Sicav (che ha tra i propri partner Pierfilippo Capello, figlio dell’allenatore Fabio). Questi fondi avrebbero l’intenzione di elaborare un vero e proprio piano di finanziamento per le squadre in difficoltà, aiutandole ad investire nel calciomercato, con i, rischio dei probabili effetti già visti negli altri Paesi. Solo due sarebbero le squadre non coinvolte: il Psg e il Monaco. Guarda caso, due club che non hanno certo problemi di liquidità. Il Monaco, poi, è già legato alla Doyen, grazie all’acquisto di Falcao dall’Atrletico Madrid mediato dal potente Jorge Mendes, che ha interessi nel fondo. La Lega Calcio francese non ha confermato le voci circolate negli ultimi mesi, anche perché in Francia le proprietà terze sono formalmente vietate.
«Le terze parti in Italia? Esistono da anni»
Anche in Italia sono vietate. Eppure proprio la Doyen ha manifestato l’intenzione di investire nel nostro campionato. Un campionato, il nostro, che sta cercando di rimettersi in sesto dal punto di vista finanziario: gambi di governance e nuove strategie di marketing (Thohir e Pallotta), stadi di proprietà (Juve, Udinese e Roma) sono le vie battute. Ma servono soldi freschi per il mercato. E chi meglio del fondo Doyen, disposto a mettere subito il 50% del piatto a disposizione delle nostre squadre, sotto forma di prestiti. Un altro 20% verrà girato ad alcune squadre, con l’intento di dare loro un aiutino nella ristrutturazione dei bilanci che dipendono ancora così tanto (il 60% del totale) dai quei diritti tv che potrebbero finire in parte impegnati come garanzia verso i prestiti di Doyen. Insomma, per il fondo l’Italia è un terreno ideale: i bilanci disastrati svelano che i debiti totali ammontano a 2,9 miliardi di euro. E i soldi delle tv non bastano.
«Bisogna stare attenti quando si parla di terze parti, perché molti tendono a distinguere tra fondi d’investimento e altri tipi di proprietà terze, come certe intermediazioni e le comproprietà. Anche queste rientrano a pieno titolo nelle tpo e, da questo punto di vista, in Italia esistono da anni», spiega Poli. Che racconta poi come funzionano certe dinamiche nel nostro calcio: «Basta guardare la spartizione dei soldi derivanti da un trasferimento, operazioni nei quali sono coinvolti soggetti terzi che si intascano una percentuale più o meno alta sulla compravendita di un giocatore. Parliamo sia di dirigenti che di procuratori e, a volte, pure di allenatori. Ovvero, di terze parti. Ricordo che anni fa, un caso clamoroso fu quello dell’agente francese di Zinedine Zidane, che parlò di una percentuale versata a Luciano Moggi per poter imbastire la trattativa tra Juventus e Real Madrid».
Un caso simile (ma con meno soldi in ballo) fu quello che vide coinvolto il cileno David Pizarro e il suo agente Cyterszpiller. All’epoca del trasferimento del giocatore dall’Udinese all’Inter per circa 18 milioni di euro nel 2005, il suo assistente bussò alla porta dei friulani chiedendo un compenso di 570mila euro, facendo valere una scrittura privata stipulata all’acquisto del cileno dell’Udinese dal Santiago Wanderers. Tale scrittura prevedeva che l’agente avrebbe percepito il 10% su tutti i futuri trasferimenti del giocatore. L’Udinese si mise di traverso e la Fifa gli diede ragione nel 2008. «Anche le comproprietà fanno parte del fenomeno delle terze parti e spesso in Italia si è fatto ricorso a questo sistema, ora abolito, per ripianare i bilanci. E proprio nei bilanci spesso le terze parti vengono indicate come “consulenze di mercato”, per non farle emergere. Proprio per questo è difficile studiare tali pratiche, perché spesso e volentieri sono opache. Ma il fenomeno c’è: non è un caso che l’Italia sia stato il Paese con la più alta mobilità di calciatori», aggiunge Poli. Così come non deve essere un caso che ci sono squadre che acquistano una marea di calciatori e poi al massimo uno tra loro finisce in Nazionale, vedi il caso del Parma (178 giocatori comprati e solo Cerri in azzurro).
Sepp Blatter aveva tempo fa instituito una task force sui trasferimenti dei calciatori, con l’obiettivo di monitorare le attività tra i club e capire in che modo limitare le attività incluse tra le tpo. Giungendo alla conclusione che sì, ci sarà lo stop alle terze parti, ma dopo un periodo di transizione. Anche la Uefa sembra indirizzata al no. Lo scorso 21 ottobre, Michel Platini ha incontrato i ministri dello Sport dell’Unione Europa a Roma, per un accordo di collaborazione tra i governi politici e quello del calcio su temi importanti come Fair Play Finanziario e terze parti. Su quest’ultimo tema, il numero uno della Uefa è stato chiaro: «C’è l’urgenza di creare una cornice giuridica attorno alle terze parti. Per loro, non ci sarà spazio e se non riusciremo a fermarli, sarà un fallimento non solo per la Uefa e per lo sport continentale, ma per tutta l’Europa. Le tpo vanno conto i principi fondamentali della dignità umana, così come espressa nella Carta dei diritti dell’uomo della Ue, poiché i giocatori vengono trasformati in diritti economici da spartire tra più società o fondi d’investimento. In questo modo, sono privati della loro libertà contrattuale e o di ogni potere decisionale sulla propria professione».
La soluzione è quella di controllare l’origine dei fondi, oltre che cercare di evitare conflitti d’interesse, conclude Poli. Ma mentre il Governo del calcio cerca soluzioni, i fondi si muovono di conseguenza per eludere eventuali stop. Investendo su nuovi modelli di business: dai cartellini dei giocatori all’acquisto di piccole squadre. Un cambio radicale, perché fino ad ora i fondi hanno evitato di accollarsi costi fissi come quelli di gestione di un club, preferendo investire sul talento dei giocatori. L’idea è quella di prendere club di fascia bassa, dai quali far passare alcuni giocatori, davvero o in maniera fittizia (come già accade in paradisi fiscali come l’Uruguay), per speculare sul calciomercato. E continuare ad allargare la forbice tra grandi squadre e medio-piccole.