Per capire come cambia l’immigrazione nel nostro Paese non dobbiamo guardare al mare di Lampedusa, ma nelle case, negli ospedali e nelle scuole italiane. Le famiglie composte solo da stranieri sono ormai oltre 1 milione e 300mila. I minori hanno quasi raggiunto quota 1 milione, dieci volte più dell’inizio degli anni Novanta, di cui molti nati in Italia da genitori immigrati. E oltre 800mila di loro occupano un banco nelle nostre aule scolastiche. Non sono i numeri di un’“invasione”, come vorrebbe qualche partito politico, ma cifre che raccontano la stabilizzazione del fenomeno migratorio, come documenta la Fondazione Ismu nel suo rapporto sui vent’anni di immigrazione in Italia. Dal 1994 a oggi, si è passati da un’immigrazione legata a motivi di lavoro a un’immigrazione fatta di ricongiungimenti familiari. Gli immigrati presenti nel nostro Paese hanno messo radici, creato famiglie e ben 649mila di loro sono nati nelle nostre sale parto.
Altra cosa sono invece il mare e gli sbarchi. Solo dall’inizio del 2014 al 15 ottobre scorso, i migranti in fuga dai Paesi d’origine sbarcati sulle nostre coste hanno toccato la cifra record di quasi 150mila unità, più del triplo dei 43mila sbarcati nel 2013 e più del doppio dei 63mila del 2011, anno delle primavere arabe. Negli ultimi anni quattro anni i flussi in entrata legati ai permessi di soggiorno sono diminuiti, mentre sono aumentati gli sbarchi via mare. Ma la maggior parte di chi arriva via mare in Italia non si ferma. La meta preferita resta il Nord Europa, Svezia e Germania in testa. «Tutto porta a pensare quindi che ci troviamo di fronte a una nuova dinamica migratoria», spiegano dall’Ismu, «l’Italia, dopo essersi trasformata da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione, adesso si trova al centro di complessi flussi di immigrazione, emigrazione e transito». In tanti passano, pochi si fermano.
Gli immigrati sono come il Veneto o la Sicilia. Al 1 gennaio 2014, la popolazione straniera in Italia è composta da oltre 5 milioni e mezzo di immigrati, regolari e non. Nel 1994 erano solo 500mila (solo regolari). «Negli anni Sessanta gli stranieri in Italia stavano dentro lo stadio di San Siro», spiega Gian Carlo Blangiardo, responsabile del settore monitoraggio dell’immigrazione per Ismu, «oggi il numero degli immigrati è pressoché uguale al totale degli abitanti del Veneto o a quelli della Sicilia». Rumeni, albanesi e marocchini rappresentano il 40% degli stranieri presenti: oltre un milione i primi, e oltre mezzo milione sia gli albanesi sia i marocchini. Ma mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 mille.
Negli anni ‘60 gli stranieri in Italia stavano nello stadio di San Siro, oggi sono come gli abitanti del Veneto o della Sicilia
Sono numeri «che non votano, ma fanno votare», dice Blangiardo, «basti pensare che ben 53 comuni in Italia, di cui 13 in Lombardia, superano la soglia dei 15mila abitanti grazie alla popolazione straniera residente, facendo sì che per l’elezione del sindaco si passi da un turno a due turni, per esempio». Ma soprattutto c’è un contributo demografico importante. Il tasso di natalità delle straniere è di 2,37 figli per donna, quello delle italiane 1,29. L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa, secondo al mondo solo al Giappone. Se non ci fossero stati gli stranieri, tra il censimento del 2001 e quello del 2011 avremmo avuto un saldo negativo di quasi un milione di unità. Il risultato è stato invece di meno 100mila presenze. Stessa cosa vale per il welfare, in relazione al rapporto tra popolazione attiva e popolazione anziana: in Italia gli anziani sono il 30% della popolazione, tra la popolazione straniera sono solo uno su dieci. Nel 2011 la popolazione in età attiva (15-65 anni) residente in Italia ha beneficiato di 3,2 milioni di unità in più, corrispondenti all’8% del totale. Ma attenzione «a dire che la denatalità o l’invecchiamento della popolazione italiana siano risolti dagli stranieri», specifica Blangiardo. «Nel lungo periodo questi benefici si annulleranno. Quello degli stranieri è un contributo che ci dà del tempo se vogliamo risolvere il problema. Stiamo comprando tempo, ma il contributo non è risolutivo».
Sempre più famiglie immigrate Una presenza in crescita, tra gli immigrati, è soprattutto quella femminile. Negli anni Novanta, ad arrivare erano soprattutto gli uomini, ma dal 2009 le donne hanno superato gli uomini. Ad oggi, le immigrate sono 300mila in più rispetto agli uomini. I motivi sono la richiesta crescente del lavoro di colf e badanti, ma anche i ricongiungimenti familiari, sempre più diffusi. I casi in realtà sono molto vari, e molto hanno a che fare con le nazionalità e i tipi di lavori svolti in Italia. «Le donne che arrivano dall’Est Europa sono prevalentemente lavoratrici sole che svolgono lavori di assistenza familiare», spiega Blangiardo, «latinoamericani, nordafricani, ma anche pakistani, indiani e cingalesi tendono di più a strutturarsi come famiglie, lavorando soprattutto nell’agricoltura».
Negli ultimi anni quattro anni i flussi in entrata legati ai permessi di soggiorno sono diminuiti, mentre sono aumentati gli sbarchi via mare
Se nel 1991 le famiglie con almeno un componente straniero erano 235mila, oggi sono quasi 2 milioni. Tra il 1993 e il 2013 i nuclei formati da stranieri composti da almeno quattro persone sono quasi decuplicati. «Va sottolineato che oggi la principale ragione di ingresso nel nostro Paese sia quella per ricongiungimento familiare e non per lavoro», dicono da Ismu. «Tra il 1993 e il 2013 si registra una crescita di permessi di soggiorno per motivi di famiglia pari al 1.328%, mentre per quelli di lavoro l’incremento è stato “solo” del 488 per cento».
Con la crisi, il nostro mercato del lavoro è diventato di sicuro meno attrattivo. I permessi di soggiorno per lavoro si dimezzano di anno in anno: erano 350mila nel 2010, si sono ridotti a 67mila nel 2012.«Negli anni della recessione l’occupazione straniera non ha smesso di crescere, in controtendenza rispetto agli occupati italiani, ma contemporaneamente il numero di immigrati alla ricerca di un lavoro si è quasi quadruplicato fino a rappresentare un sesto del totale dei disoccupati, mentre vent’anni fa erano un quattordicesimo», spiega Laura Zanfrini, responsabile del settore Economia e lavoro per Ismu. «In un mercato del lavoro in crisi che punta sulla contrazione del costo del lavoro, molto si è puntato anche sulla adattabilità degli stranieri. Gli immigrati offrono manodopera che si adatta a lavorare in condizioni e con salari al di sotto di un Paese civile, con fenomeni di concorrenzialità interna molto forte». Il risultato è che il 29% degli stranieri è ancora impiegato in un lavoro elementare, rispetto al 7% degli italiani. Neppure uno su dieci, tra gli stranieri laureati, svolge un lavoro qualificato. Più di 4 stranieri su 10 sono impiegati in mansioni che richiedono competenze inferiori rispetto al titolo di studio conseguito, percentuale che tra le donne sfiora il 50 per cento. Solo il 5% occupa una posizione apicale, in confronto al 36% degli italiani. «Quello che si è generato è un modello di integrazione di basso profilo», si legge nel rapporto.
“Ci sono un milione di stranieri, di cui più di 800mila nelle scuole, che sicuramente non vorranno fare i classici lavori da immigrato”
«Ma ci sono un milione di minori stranieri che sicuramente non vorranno fare i classici lavori da immigrato», dice Laura Zanfrini. All’inizio degli anni Novanta gli stranieri under 18 erano poco più di 100mila, nel 2001 sono triplicati arrivando a 323mila; tra il 2001 e il 2006 la loro presenza è raddoppiata, fino a sfiorare quota 1 milione nel 2013. E se crescono le famiglie, crescono anche i nuovi nati negli ospedali italiani, che negli ultimi vent’anni sono più che decuplicati, passando da 61 a 649mila.
Scuola e cittadinanza Presenza che è evidente anche nelle aule scolastiche, che oggi hanno un altro volto rispetto ai primi anni Novanta. Nell’anno scolastico 1991/1992 gli alunni con cittadinanza non italiana erano poco meno di 26mila. Nell’anno scolastico 2013/2014 sono 802.785, ovvero il 9% della popolazione scolastica complessiva. E se oggi gli studenti stranieri nelle università italiane sono circa 60mila, spiega Mariagrazia Santagati, responsabile del settore Scuola per Ismu, «con la presenza nelle scuole crescerà anche la presenza nelle università».
Ma l’immigrazione, poi, «finisce per essere uno specchio del malfunzionamento della scuola italiana, mettendo in luce i nodi problematici: gli studenti stranieri, come quelli italiani più svantaggiati, soffrono ancora di rendimenti peggiori, maggiori probabilità di abbandono, più elevati rischi di finire nel bacino dei Neet». E anche nella scelte delle scuole superiori permane una sorta di ghettizzazione: il 38% si iscrive a istituti tecnici e professionali, il restante 23,6% frequenta il liceo (questo è valido soprattutto per le seconde generazioni).
L’immigrazione è lo specchio della scuola, mettendone in luce i nodi problematici: gli studenti stranieri, come quelli italiani più svantaggiati, soffrono di rendimenti peggiori
«In questa fascia d’età un ruolo fondamentale per l’integrazione dei ragazzi potrebbe arrivare dal riconoscimento della cittadinanza», commenta Ennio Codini, responsabile del settore Legislazione della Fondazione Ismu. «Magari non aspettando i 18 anni per concedere la cittadinanza, ma anticipandola ai 16 anni, associandola con la frequenza scolastica e valorizzando il momento del giuramento». Il dibattito, spiega Codini, «si concentra sullo ius soli, con una maggiore propensione per il dibattito ideologico, trascurando però gli immigrati adulti. Se però dessimo la cittadinanza nei tempi francesi o tedeschi, senza l’eccessiva burocratizzazione che invece caratterizza il sistema italiano, i genitori poi la trasmetterebbero ai figli e il dibattito sullo ius soli avrebbe meno importanza».
L’emergenza sbarchi Ma mentre in Italia si ragiona poco (e male) delle politiche migratorie, dal mare continuano ad arrivare le imbarcazioni di chi fugge da Paesi in guerra o in difficoltà. Gli immigrati irregolari, in realtà, sono al minimo storico: 6% del totale, pari a 300mila unità, sia per effetto delle sanatorie, che sono servite a sanare soprattutto le situazioni di chi già viveva e lavorava in Italia, sia perché il nostro mercato del lavoro è ormai diventato poco attrattivo. Dei quasi 150mila migranti arrivati via mare dall’inizio del 2014 – una media superiore alle 500 unità giornaliere – più di 35mila erano siriani, più di 33mila eritrei, cioè persone provenienti da Paesi in guerra e quindi richiedenti asilo. Quarantamila di loro sono stati salvati grazie all’operazione italiana Mare Nostrum, che ora (ancora non si è capito bene con quali modalità) verrà sostuita da Triton.
Ma se l’Italia si occupa della prima parte del loro viaggio, il salvataggio e la prima accoglienza, la grande maggioranza delle richieste di asilo avviene in altri Paesi europei, spesso accusati invece di non fare abbastanza. Il nostro Paese, con 28.700 domande di asilo presentate nel 2013, ha segnato un incremento notevole rispetto al 2012 (oltre 10mila domande in più), ma resta in una posizione di secondo rispetto all’accoglienza vera e propria. Al primo posto in Europa per numero di richieste di asilo c’è la Germania, che nel 2013 ha raccolto 109.600 domande, confermando il suo terzo posto al mondo dopo Pakistan e Iran. Segue la Francia, con 60.100 richieste, e la Svezia con 54.300 domande. Solo una parte dei 43mila sbarcati sulle nostre coste nel 2013, di cui l’80% aveva il diritto di richiedere l’asilo, effettivamente ha presentato la domanda in Italia. Molti hanno preferito transitare per l’Italia senza farsi registrare, «approfittando della benigna negligenza di varie istituzioni preposte, per andare a domandare asilo a Nord delle Alpi».
La forte carenza italiana è evidente nell’accoglienza successiva agli sbarchi. Una volta salvati dalle onde del mare e distribuiti soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, «i rifugiati sono spesso abbandonati a se stessi anche quando vengono riconosciuti come meritevoli di protezione», dicono da Ismu. «Scarseggiano i progetti di formazione, avviamento al lavoro, integrazione nelle società locali». Il destino che attende gran parte di quelli che bussano alle porte dell’Italia in cerca di asilo sono «incertezza sul futuro, passività, giornate vuote e senza senso, lavoro nerissimo e saltuario, dipendenza assistenziale».