Il Paese più pacifico è l’Islanda, quello più violento la Siria. Nel Global Peace Index, l’indice globale della pace, l’Italia si piazza al 34esimo posto su 162 Paesi, aggiudicandosi 1,8 punti su 5 per il tasso di militarizzazione, due per la sicurezza e 1,2 per il tasso di conflitto interno. Ma quello che colpisce di più è il prezzo della violenza: 53 miliardi 215 milioni di dollari all’anno, tra prevenzione e cura. Ossia il 2,8 per cento del nostro Prodotto interno lordo: sì, quello che stenta a crescere e che decide se siamo o no in recessione. E ovviamente non è solo un caso italiano: nel 2014, mentre andiamo sulle comete e mangiamo cibi bio, quello che ancora ci costa di più sono guerre, omicidi e violenze. Una spesa che nel mondo equivale a 9,46 trilioni, l’11% del Pil mondiale, tra costi medici, polizia, funerali, investimenti mancati e posti di lavoro perduti. Che significa 1.300 dollari a persona in meno e circa il doppio del valore dell’agricoltura di tutte le terre coltivate al mondo. Intanto, il 14,5% della popolazione mondiale vive con meno di un dollaro e 25 centesimi al giorno (dati World Bank).
La vecchia idea che la guerra faccia bene all’economia, dicono i ricercatori dell’Institute for Economics & Peace che hanno fatto i calcoli, è stata ormai accantonata. E i benefici economici della pace sono riconosciuti ovunque. Un esempio su tutti, dicono, è la Sierra Leone, dove prima della diffusione dell’Ebola, la guerra civile è cominciata nel 1991 e finita nel 2002. Nel 2010 il Pil pro capite era ancora del 31 per cento più basso di quanto avrebbe potuto essere in assenza di conflitto. Anche l’indice di sviluppo umano è rimasto basso per tutti gli anni della guerra civile, migliorando solo dopo la fine delle violenze. Ma i benefici della pace non sono solo legati all’assenza di violenza. I ricercatori parlano di un “moltiplicatore della pace”: l’assenza di violenza include la possibilità di sviluppo di quelle istituzioni e di quelle strutture che incoraggiano lo sviluppo umano, dall’istruzione alla salute alle infrastrutture. E ci sono anche i risparmi: con un omicidio evitato, per esempio, i costi diretti, come i soldi spesi per i trattamenti medici e i funerali, potrebbero essere spesi diversamente. Evitando una morte, per di più, l’economia continua a beneficiare dei guadagni in vita di quella che doveva essere invece una vittima. Sembra materialista, ma è così.
Tra i costi della violenza, i ricercatori includono anche spese tangibili come quelle mediche, perdite salariali causate dalle conseguenze fisiche della violenza o dai decessi, premi assicurativi pagati per proteggersi contro la violenza e gli stipendi di guardie giurate e poliziotti. Per fare un esempio, in una popolazione di due milioni di persone con uno stipendio pro capite di 10mila dollari, se gli omicidi venissero ridotti di 5 ogni 100mila persone, il Paese potrebbe risparmiare ben 209 milioni di dollari all’anno. Non male.
Non solo, la violenza e la paura della violenza possono portare a una riduzione degli investimenti. L’analisi effettuata su 730 imprese in Colombia dal 1997 al 2001 dice che con livelli più alti di violenza le iniziative imprenditoriali hanno minori probabilità di sopravvivere. Con più alti livelli di violenza, ci sono tassi di disoccupazione più alti, livelli di produttività più bassi e gli investimenti a lungo termine sono scoraggiati. Al contrario, per ogni dollaro salvato dalla spesa per la violenza, ce ne sarà un altro investito in attività economiche.
Il totale sottratto nel mondo per la gestione e il contenimento della violenza è di 9,46 trilioni di dollari. Una cifra più grande di molte delle più grandi economie mondiali. Il Pil della Germania, per intenderci, è di 3,26 trilioni di dollari, quello dell’India arriva a quota 5 trilioni di dollari. Per fare dei paragoni con alcuni settori economici, l’agricoltura mondiale ha un volume di 5 trilioni di dollari, il turismo 1,9 trilioni, il settore aereo 711 miliardi. Il costo della violenza è superato solo dal Pil degli Stati Uniti e della Cina.
Se la violenza si riducesse del 15%, il mondo risparmierebbe ben 1,4 trilioni di dollari. Una cifra che è l’equivalente dell’ammontare necessario per il Fondo salva Stati europeo, 900 miliardi, più i 436 miliardi del debito della Grecia, più l’insieme dei fondi necessari per raggiungere gli otto Millennium Development Goals delle Nazioni Unite, stimati in 60 miliardi all’anno (meno dell’1% dell’impatto economico della violenza). Solo in spese militari, il mondo spende 2.425 miliardi: 715 finiscono alla voce omicidi, 650 per la sicurezza interna, 190 per il carcere, solo 5 per il terrorismo.
I Paesi che spendono di più in rapporto al Pil per il contenimento della violenza sono Corea del Nord, Siria e Liberia. Per la Corea del Nord, il podio è una conseguenza della spesa militare altissima, circa il 70% del totale, mentre il resto è occupato dai costi degli omicidi e dalla sicurezza interna. Per la Siria, più del 50% dei costi collegati alla violenza dipendono dalle morti dovute al conflitto interno che va via via peggiorando con la presenza dell’Isis, seguito dalla spesa militare e dalla sicurezza interna. L’Italia, con una spesa in violenza del 2,8% del Pil, è al 140 esimo posto. Nonostante la spesa sia minore rispetto agli altri, ci troviamo comunque nella parte alta della classifica del Global Peace Index: i fattori che più preoccupano e per i quali si spende di più sono la percezione della criminalità nella società (4 punti su 5), la presenza di crimini violenti (3 punti su 5), la corruzione (3,9 punti su 10) e le preoccupazioni legate all’immigrazione. Il Paese che spende di meno in prevenzione e cura della violenza, ancor meno della pacifica Islanda (1,4% del Pil), è il Bhutan, con una spesa pari allo 0,5% del pil, 35 dollari per ogni abitante.
In alcuni casi, la spesa in contenimento della violenza e Pil sono collegate. I Paesi che spendono di più in assoluto per occuparsi della violenza sono, non a caso, Stati Uniti, Cina e Russia, nonostante questi Paesi raggruppino in fondo solo il 26% della popolazione mondiale. In tutti e tre i casi, la voce maggiore di spesa è quella militare. Negli States ricopre il 70% della spesa totale per la violenza, seguita dai costi degli omicidi, che sono l’8 per cento. Anche in Cina si spende molto per la difesa militare, meno per la sicurezza interna e quella privata. In Russia, dopo la spesa militare, i costi maggiori sono collegati alla sicurezza interna e agli omicidi.
Nonostante la correlazione tra spesa per la violenza e il Pil, la relazione non è universale. Cosa che non è una sorpresa, dato che la composizione della violenza varia da Paese a Paese. Per esempio, l’Honduras ha una spesa militare bassa ma tassi di omicidi altissimi, così il costo totale è differente rispetto a un Paese come la Gran Bretagna, che ha tassi di omicidi di più bassi ma spese militari più alte. La relazione quindi non è valida per tutti. I Paesi con i costi più alti di contenimento della violenza, quando sono espressi in percentuale sul Pil, sono anche i più poveri. Cosa che è valida per molti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Per molti Paesi in via di sviluppo, il costo della violenza è anche più alto degli aiuti umanitari che ricevono.
Un caso analizzato dai ricercatori del Global Peace Index è il conflitto in Somalia, dove la rimozione del leader Siad Barre nel 1991 ha portato a un vuoto politico sfociato a una lotta tra gruppi contrapposti. Il risultato economico è che il pil pro capite è calato dai 643 dollari nel 1992 ai 452 dollari nel 2001. I consumi e i livelli di investimento sono calati significativamente con l’inizio del conflitto e sono rimasti stagnanti dal 1995 fino al 2010. In totale, il contenimento della violenza è costato alla Somalia più di un miliardo di dollari solo nel 2012, il 18 per cento del Pil. Situazione simile in Afghanistan e in Iraq, dove la violenza ha sottratto ai cittadini 1.000 dollari pro capite all’anno per il primo, oltre tremila per il secondo.