È difficile immaginarsi, a ottantasei anni esatti dalla proiezione inaugurale, cosa deve essere stato vedere per la prima volta Steamboat Willie. New York, Universal’s Colony Theater, 18 novembre 1928. Ora sappiamo che il topo, non troppo avanti nella sua storia, acquisirà una voce: un tono perfettamente riconoscibile, acuto e vagamente lamentoso. Sappiamo che il gatto perderà una gamba — che poi sostituirà con una protesi perfettamente funzionale — smetterà di masticare tabacco, anzi di addentarlo come se si trattasse di una barretta di cioccolato fondente, e passerà al sigaro prima di rinunciare per sempre a quel tipo di vizi. Sappiamo che quasi tutti gli animali a bordo del vaporetto ci guadagneranno in personalità e per molte volte ancora si incontreranno, non più sul fiume, magari. Verranno le città dei topi e dei paperi, nipoti e cugini, amici e nemici storici e più recenti. A un certo punto ci sarà anche l’occasione di rimettere assieme i ricordi e rileggere quella vecchia storia come un’Odissea. Ma allora, che le mucche muggivano, i pappagalli ridevano e le capre servivano da carillon, nessuno, tranne forse il loro creatore, poteva prevedere il futuro e Topolino — o dovrei chiamarlo Mickey, visto che oggi compie gli anni e che con lui ho maturato quel genere di rapporto che va oltre le formalità? — nasceva sullo schermo assieme alla sua leggenda.
Steamboat Willie dura circa sette minuti e comincia con uno dei fotogrammi più famosi della storia del cinema: Mickey che fischietta Steamboat Bill mentre regge la barra di un piccolo battello a vapore. Già dai primi secondi la parodia è sul piatto, il riferimento è a una pellicola di Buster Keaton dello stesso anno, Steamboat Bill Jr. — chiamata in italiano Io… e il ciclone. Quello che succede dopo che il vero capitano, Pete, fa la sua comparsa e rimanda uno spaventosamente elastico Mickey a spazzare il ponte sotto lo sguardo beffardo di un pappagallo, si risolve in Minni, caricata a forza, e in una serie di situazioni all’insegna dello slapstick che culminano in una specie di orchestrina nella quale gli animali diventano strumenti musicali e i topi sono i maestri di cerimonia. Sdegno animalista a parte, è proprio nella musica la chiave del successo di questo piccolo capolavoro: è la prima volta che un cartone animato viene proiettato con il sonoro sincronizzato e la voce disarticolata di Walt Disney, che da solo doppia tutto il cast, fa una bella impressione.
Il topo del primo cortometraggio è del tutto diverso da quello che conosciamo oggi. Un personaggio semplice che non sa nulla del destino radioso che il suo creatore gli ha deciso davanti. Ha qualcosa di rurale e grezzo, germinale. Parliamo di un’epoca in cui forse le donne non si potevano trascinare sul ponte arpionandole con la gru di carico, ma l’America era pronta ad aprirsi a una nuova visione di se stessa e dei suoi angoli più reconditi e primitivi. Mickey è un topo del Sud, una sorta di Huck Finn animato, senza un soldo in tasca né una maglietta per coprirsi e con l’allegria per non credere nella crisi nera che è già dietro l’angolo. Chi ha visto Steamboat Willie la prima volta, stava ancora abituandosi all’idea di cinema e aspettava un film che ormai nessuno ricorda più, non poteva credere in un futuro peggiore e si teneva forte alle pendici del progresso. L’immaginario si costruiva sugli orizzonti sterminati delle praterie e nelle storie dei gangster che afferravano le grandi città per il bavero del proibizionismo. Disney sapeva giocare con l’universo rurale che conosceva da vicino e ha regalato al mondo un personaggio che avrebbe potuto essere tutto e che in effetti si è evoluto in talmente tante forme da non riconoscersi più nel suo gommoso progenitore di celluloide.
Mickey è cambiato con la società, ha riso della propria miseria mentre si arrabattava tra un lavoretto e l’altro e si è trasferito in periferia, con villetta e cane al guinzaglio, quando le cose hanno cominciato a mettersi meglio. Aveva una cabriolet negli anni del boom e un’impresa di costruzioni in quelli del miracolo immobiliare. Poi è stato un uomo del popolo, un membro della stampa e infine uno dei detective — ma questo quasi solo per noi italiani — più in gamba che la malavita potesse trovarsi contro.
Ottantasei anni non sono tanti per una leggenda, ma questo è quello che è diventato. Non può più essere dimenticato e a guardare bene il suo destino è stato scritto dal momento in cui ha messo le mani, ancora senza i guanti bianchi, sul timone per la prima volta.