Qualche giorno fa è stato annunciato con grande e giustificata enfasi il lancio di Storytalia, un portale di e-commerce promosso da un gruppo di industriali con alcuni gruppi finanziari e istituzioni pubbliche allo scopo di «valorizzare nel mondo le eccellenze delle piccole e medie imprese italiane ancora da scoprire».
In ossequio alla missione di «valorizzare le storie, le tradizioni e le capacità manifatturiere: i valori che hanno reso il Made in Italy sinonimo di qualità, creatività e innovazione in tutto il mondo», il video di presentazione dell’iniziativa mostra tanti artigiani al lavoro per creare il meglio del Made in Italy. Che le persone ritratte all’opera nelle loro botteghe siano davvero artigiani lo confermano molti degli stessi, ritratti a loro insaputa all’opera nel video.
Non che si voglia farne un problema di copyright, che riguarderà semmai gli artigiani e qualche avventato copywriter dell’agenzia che ha realizzato il video, ma l’occasione richiama alcune riflessioni di carattere estetico e culturale che è bene esplicitare. Il video di Storytalia, tuttavia, mostra la sola realtà produttiva italiana che continua a dire qualcosa all’estero, attirando consumatori e turisti: delle belle botteghe artigiane modernamente attrezzate e organizzate, che non disdegnano la tecnologia ma in cui vi è innanzitutto il piacere di controllare personalmente la qualità dell’opera, perché ogni prodotto che vi esce ha un’anima, un’identità, una storia.
Il valore del Made in Italy è valore artigiano, quindi, legato a imprenditori geniali, alla capacità di reinventare la tradizione e il territorio, alla cura maniacale del dettaglio e del particolare, alla produzione non standardizzata. Per chi lavora a fianco degli artigiani italiani, questo riconoscimento proveniente dal mondo della grande industria non stupisce nel merito e regala anche qualche soddisfazione, per quanto decisamente tardiva e poco coerente.
Dall’area economico-culturale dal quale scaturisce il progetto Storytalia si sono infatti generati in questi anni alcuni mantra che hanno recisamente negato tutti quei valori difesi con grande afflato nei contenuti promossi da Storyitalia – a partire dallo stesso video di presentazione – in primis la supremazia del brand sui processi e sui luoghi della produzione e la decisa marcia verso un’economia dei servizi che relegasse la manifattura in colonia.
Dagli stessi settori che per rappresentare il Paese nel mondo scelgono una bottega artigiana continuano infatti a levarsi alti lai sul nanismo delle imprese come principale male della nostra economia, sull’inadeguatezza dei piccoli alla sfide globali e sulla loro scarsa produttività come zavorra che frena la competitività italiana.
Ancora, in quel milieu di industriali, economisti, decisori pubblici e giornalisti è negato il contributo delle imprese artigiane all’innovazione, con provvedimenti che non riconoscono il loro contributo fondamentale allo sviluppo di nuovi prodotti e soluzioni. Questo per tacere della discussione novecentesca e tutta fordista sull’articolo 18, in cui l’organizzazione del lavoro di oltre il 95% delle imprese italiane è considerata meno che marginale.
Non si tratta di un cahier de doleance, ma della consapevolezza che se si deve basare il ritorno del Paese alla crescita soprattutto sulla possibilità di vendere il suo meglio nel mondo non si può pensare di non investire adeguatamente sulla tutela e lo sviluppo di chi quel meglio lo produce da secoli: gli artigiani.
Il genio artigiano italiano non è una fonte inesauribile. Per quanto flessibile e resiliente, può morire di inedia laddove non sia adeguatamente tutelata la sua capacità di crescere, innovare, competere e trasmettere il sapere alle nuove generazioni aprendo la scuola al mondo della produzione. Tenere da conto i valori artigiani e coloro i quali li incarnano serve non solo agli artigiani, ma a tutto il Paese. Anche ai promotori di Storytalia.
*Responsabile strategie digitali di Confartigianato Imprese