Joel e Ethan Coen: storia di una visione complessiva

Joel e Ethan Coen: storia di una visione complessiva

Sulla via della rettitudine ci sono momenti di perdizione e momenti di lucidità. Ci si può smarrire, si può tornare sui propri passi, si può prendere velocità e non si sa mai quando arriverà la prossima battuta d’arresto. Quello che c’è in fondo però non cambia: l’onestà degli uomini è un punto certo su un orizzonte indefinito.

La prima volta che ho visto A Serious Man avrei voluto rimanere in silenzio per due giorni, per lasciare scendere il boccone con tutta la calma di cui aveva bisogno. La seconda volta mi ha divertito, perché ho fatto trapelare tutta la leggerezza che punteggia la pellicola e che alla prima visione è impossibile da decifrare. La terza volta ho individuato il processo di crescita che, di pari passo con quello del protagonista, ha investito i registi e allora è diventato una meraviglia indimenticabile. La visionarietà di Joel e Ethan Coen è immensa e se esistesse una parola che esprime l’esatto contrario di “spettacolare”, sarebbe il termine adatto per completare la descrizione. Possiedono quella rarissima abilità di costellare ogni scena di tanti piccoli nuclei di significato, tante piccole vescicole esplosive che prima o poi scoppietteranno e lasceranno la sensazione di una soddisfazione completa, senza che mai la scena sia stata troppo affollata. Daphne Merkin, qualche anno fa sul New Yorker , criticava il vuoto che popola i film dei fratelli Coen. Aveva ragione, ma non nel senso che ha in mente lei.

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Jeff Bridges che sulla cima di una rupe ventosa riceve in piena faccia le ceneri dell’amico morto, contenute in un barattolo di caffè fino a un momento prima, Xavier Bardem che si controlla le suole delle scarpe per poi avviarsi verso un destino di crudeltà inflitte, Oscar Isaac che torna per strada a caccia di un gatto che non gli appartiene. Ognuno di questi momenti è la porta che dà su un numero talmente grande di implicazioni future che non ci sarà mai tempo per farle stare tutte nello spazio di un film. Eppure, conoscendo le scene, le espressioni e le situazioni che ci hanno condotto lì, possiamo cogliere tutti i loro significati in una sola volta. Grazie ai silenzi, grazie alle immobilità, grazie al vuoto. Ogni volta che la macchina da presa si ferma su un campo aperto, ogni volta che prende il tempo per lasciar scorrere i piccoli gesti degli attori prima di rituffarsi nella storia, denuncia un significato sommerso che, capito il gioco, non può che stimolare l’attenzione dello spettatore. Ci sono talmente tanti punti focali in ogni inquadratura di una pellicola dei Coen da uscirne frastornanti. È l’abilità geniale di generare momenti di sospensione in cui fermarsi a riflettere su quello che si è appena visto e concedersi l’opportunità rarissima di azzardare una previsione.

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Non sono i particolari a rendere unico il lavoro dei Coen, ma è il tutto a cui quei particolari conducono. Esiste un disegno complessivo che aleggia sulla loro filmografia, prende avvio da Sangue facile, che ha visto la luce quasi esattamente trent’anni fa, e da quell’unico nome alla regia: Joel. Poi si snoda in avanti, attraverso l’affermazione, la ricerca della voce e il quasi casuale incontro con i grandi paesaggi e il profilo di John Turturro. Arizona Junior, Barton Fink, il vento che soffia sul ghiaccio di Fargo. Il grande Lebowski è un’esplosione di ricerca, di sperimentazione che porta a galla quella comicità sussurrata lasciandola correre per un po’ fuori dai suoi binari e rendendola più esplicita, ma ancora non immediatamente accessibile. Fratello, dove sei? è una dannata pazzia modellata sui classici e su John Goodman più ancora che George Clooney, L’uomo che non c’era è il ritorno alla poesia originaria. Poi tutto comicia a spezzaresi in tante piccole parti di cinematografia che rotolano come una cascata di ghiaia lungo il pendio della carriera. Ladykillers è il punto di rottura, Non è un paese per vecchi e Burn After Reading lasciano l’ironia soffocata sotto una serietà disarmante.

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È a questo punto che c’è bisogno di tirare il fiato, di confessare quel processo di elevazione spirituale che conduce all’onestà dei registi. E allora l’onestà — intesa come completamento dell’uomo, esaudimento del mitzvah — va messa in scena, sguainata e dichiarata senza ombra di dubbio come l’obbiettivo finale, oltre il quale non c’è che il coronamento di una vita. A Serious Man è un lavaggio di coscienza ammantato di comicità diffusa e particolare. È la massima espressione della poesia dei Coen, così intima e naturale da richiedere uno sforzo di comprensione impossibile a una visione superficiale. Dopodiché la maturità artistica viene quasi naturale, assieme alla ruvidezza de Il Grinta e la malinconia vivida di A proposito di Davis — cosa ci faccia in mezzo Gambit, per me resta ancora un mistero.

Joel Coen trascina una specie di tradizione familiare per l’infinitamente piccolo, contenuto e diluito nell’infinitamente grande, incastonato nei vuoti e nei silenzi che riempiono le scene di significato. I fratelli Coen sono un monumento del cinema degli ultimi trent’anni. Tanto lucidi e determinati da rendere impossibile dubitare in un quadro complessivo.

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