La musichetta su toni bassi, che tutti conosciamo. La goccia che rimbalza nella tazzina. Uno slogan di tre parole e un punto di domanda che non è mai cambiato. Il sorriso di George Clooney soddisfatto ma con gli occhi bassi – un trucco che già molti anni fa avevano smascherato i Simpson, che gli fecero fare una brutta fine. Ripetete queste quattro cose, presenti negli spot pubblicitari, infinite volte al giorno, aggiungete una presenza sul territorio che dà visibilità e “standing” (quando mai il venditore di caffé in passato si è messo in eleganti abiti scuri?) e un packaging coerente: otterrete un ipnotizzamento di massa. O un innamoramento, vedetela come preferite. L’effetto è che milioni di caffettiere moka rimangono a fare muffa in qualche ripostiglio e milioni di macchine per il caffè in capsule si posizionano a portata di mano in cucina. Soprattutto, l’effetto è che milioni di persone sono disposte a spendere 48 euro al chilo per il caffè, contro i 10 euro o meno della moka, in anni in cui tutti gli altri consumi sono precipitati. Come per gli iPhone della Apple da 700 euro o per l’insalata già lavata da due euro per 200 grammi, più che la razionalità economica poterono il fascino, i meccanismi di proiezione e la pigrizia. Comunque sia, l’Italia c’è finita dentro.
Consumi in direzione ostinata e contraria alla crisi
Gli ultimi dati di Iri, che considera la grande distribuzione organizzata (Gdo) dicono chiaramente che la perdurante contrazione dei consumi non ha risparmiato il caffé: nell’anno terminante a luglio 2014 le vendite sono scese del 2,2% a valore e salite dell’1,1% a volume, con fatturato di poco più di un miliardo di euro.
Dentro questo dato generale, la moka, pur salendo nelle quantità (+2,3%), scende a valore (-3,7%). Calano sia a volume che per ricavi l’espresso (rispettivamente -5,5% e -8,3%), i grani (-0,6% e -1,4%) e le cialde (-2,4% e -5,9%). Precipita poi il decaffeinato, sceso di 6,8 punti percentuali nella quantità e dell’8,9% a valore.
In questa Caporetto del caffè, le capsule hanno ottenuto una crescita a doppia cifra tanto a volume (+20,1%) quanto nel fatturato (+16,6%, per un totale di oltre 146 milioni di euro). Come ha spiegato il mensile Distribuzione Moderna, dal 2011 a oggi il numero di famiglie che usa questo prodotto è quasi raddoppiato, passando da 1,5 a 2,6 milioni (pari all’11% delle famiglie italiane). I livelli di penetrazione più alti (16%) si registrano nelle famiglie under 35, ovvero le coppie senza figli e i single, che hanno probabilmente una maggior capacità di spesa e danno maggior valore alla comodità offerta da questi sistemi.
I numeri sulla gdo (supermercati, ipermercati, libero servizio) dicono un’altra cosa: dato che non considerano il leader di mercato, la Nespresso (quella di cui sopra, che vende in proprie boutique o a domicilio), mostrano quanto anche gli altri produttori si siano lanciati nel business.
Nespresso Italiana, ha ricostruito Emanuele Scarci sul Sole 24 Ore, nel 2013 ha realizzato da sola quasi il doppio delle vendite nella gdo: 240 milioni di euro, contro i 213 dell’esercizio precedente. Le previsioni per il 2014 sono di chiudere a 260 milioni. È presente in Italia da 15 anni, ha 33 boutique, con 548 addetti (72 nuove assunzioni nel 2013) e nel prossimo anno punta a 5-6 nuovi negozi e investimenti raddoppiati rispetto a ora, pari a 10-12 milioni di euro. Le spese per pubblicità pesano per quasi 17 milioni di euro e hanno permesso in un anno di far passare la “brand awareness” presso i consumatori dal 12% al 20 per cento.
Tra gli altri concorrenti, quello che si è mosso prima e meglio in Italia è Lavazza, con il sistema A Modo mio. Ma non è certo l’unico: Illy e Kimbo hanno siglato nel 2013 un’intesa per creare una nuova macchina da caffè che funziona con le capsule di entrambe le case produttrici. Nel business delle capsule si sono gettati da tempo anche Caffè Vergnano, Segafredo Zanetti (dove la quota è ancora piccola: 20 milioni sul miliardo circa di fatturato totale) e nuovi giocatori come Pellini. L’entrata in campo è stata resa possibile da una serie di battaglie legali, che si sono concluse con la perdita dell’esclusività per i produttori di sistemi “chiusi”. Come ha ricostruito un articolo di Maurizio Bertera per Linkiesta, Nestlè aveva «reagito intentando cause legali praticamente in ogni Paese della Ue, ma ha perso regolarmente». Nell’ottobre 2013, «l’European Patent Office ha chiuso il dibattito per sempre, sancendo che chiunque, in ogni membro dell’Unione europea, può offrire sul mercato la “sua” versione delle capsule in alluminio».
Industria sottosopra
Questa tendenza apparentemente irreversibile non poteva che avere effetti sulla produzione. Nel 2013 il mercato delle caffettiere a gas in Italia è sceso del 7,3% ed è pari a 19 milioni di euro. In termini di volumi, il mercato delle caffettiere a gas raggiunge 1,6 milioni di pezzi annui (-11,4% rispetto al 2012). Quello delle macchine espresso, elettriche, in Italia ammonta a valore a 113 milioni di euro (trend -4,8%). In particolare, le macchine espresso a sistema aperto (caffè macinato da inserire) valgono 45 milioni (trend -6,6%), quelle a sistema chiuso (capsule) valgono 42,2 milioni (+2,4%).
Tra i produttori di caffé, Lavazza, come detto, si è mossa per tempo e ha evitato danni (lo scorso anno l’utile è stato di 100 milioni di euro), ma lo spostamento non è stato indolore. Attualmente, spiega la Flai Cgil, l’azienda avrebbe deciso di far scattare da gennaio la cassa integrazione per una parte dei dipendenti di Torino, dove si producono le classiche confezioni di caffè. Il piano prevede un rafforzamento dello stabilimento di Gattinara, Vercelli, dove si realizzano le capsule per i sistemi espresso A Modo mio e dove dal prossimo anno sarà aggiunto un impianto per torrefare e confezionare il caffè.
La holding Illy, anche grazie alle capsule, hanno visto nel 2013 il business del caffè salire in Italia da 147 a 150 milioni e nel resto del mondo da 213 a 224 milioni, mentre il segmento delle macchine da caffè è aumentato lievemente ed è stato di 21,7 milioni.
Bialetti e De Longhi, percorsi opposti
Meno scontato il percorso di due storici produttori di macchine da caffè, Bialetti e De’ Longhi, la prima simbolo della moka classica e la seconda delle macchine elettriche.
Bialetti ha affrontato negli scorsi anni una crisi profonda, che ha portato la posizione finanziaria netta in negativo per 87 milioni di euro a fine 2013 (con debiti correnti per quasi 91 milioni), a fronte di un fatturato totale di 159 milioni (in discesa dell’1,9% rispetto a un anno prima; in Italia il calo è stato del 4,3%). Nel gennaio 2012 è stato fatto un accordo con le banche nell’ambito del piano di risanamento ex articolo 67 della legge fallimentare. Sul fronte del lavoro, alla luce di un progetto di ristrutturazione avviato nel 2011, è stato fatto ricorso alla cassa integrazione straordinaria. Dall’8 luglio 2013, si legge nell’ultimo bilancio disponibile, sono stati collocati in Cigs 19 impiegati degli uffici di sede, che si sono aggiunti agli 81 operai già sottoposti al trattamento.
Si potrebbe pensare a un calo delle vendite delle caffettiere moka, travolte dalla crescita delle capsule, ma non è così: il settore in crisi della Bialetti è quello delle pentole e in generale del “mondo casa” (-4,6& nel 2013), mentre è andato bene il segmento “moka e coffeemakers” (+1,1%) e c’è stata una pressoché stabilità nel segmento “Espressocaffè d’Italia” (capsule e macchine espresso a sistema chiuso). Nel segmento delle caffettiere a gas, Bialetti è ancora di gran lunga protagonista della scena: ha una quota di mercato del 45% a volume e del 65% a valore. Tra le macchine espresso a sistema aperto ha invece una quota del 21,1%, raggiunta grazie alle macchine espresso “Mokona”, Mokissima e Tazzissima. Molto più indietro è invece sul fronte capsule: nelle macchine a sistema chiuso il gruppo di origine piemontese (ma radicato oggi a Coccaglio, nel bresciano) ha una quota di mercato del 1,4 per cento. Va meglio per la produzione del caffé in capsula, dove conta il 3,3% di quota di mercato grazie a sei diverse miscele.
De’ Longhi ha visto invece negli ultimi anni conti migliori e una strategia di crescita che ha previsto acquisizioni spettacolari, come gli apparecchi per la cucina di Braun e di Kenwood. I primi nove mesi del 2014 hanno visto ricavi per 1,087 miliardi, in crescita del 6% rispetto allo stesso periodo del 2013, grazie soprattutto al traino dell’Europa nord-orientale. Quanto alle macchine da caffè c’è un aumento dovuto ai buoni risultati di tutte le principali categorie di prodotto, in particolare le superautomatiche. Ma fanno eccezione, dice l’ultima trimestrale, proprio le macchine a porzionato chiuso di acquisto esterno, vendute con marchio Nespresso.
Un cambiamento culturale a metà
L’Italia che passa dalla moka e dall’espresso macinato alle capsule è un Paese che cambia anche il proprio rapporto con il gusto del caffè? In apparenza no, perché dalle capsule si ottiene un espresso “all’italiana”. Gli stessi nomi quasi italiani delle versioni delle capsule della Nespresso (un giorno spiegheranno che vuol dire “volluto”) ci rassicurano e quasi inorgogliscono. Sembra quindi più una questione di comodità e di consumi al passo con i tempi: come sottolinea Massimo Zanetti, proprietario di Segafredo Zanetti, a Linkiesta, «indietro non si tornerà. È come per le insalate pronte, i consumatori pensano che sia meglio spendere di più per fare prima». Se si pensa che la cuccuma napoletana richiedeva dieci minuti solo per l’infusione e che la moka riduce tutto il processo a 3-4 minuti, i pochi secondi richiesti dalle capsule sono una continuazione della tendenza a voler soddisfare il bisogno di caffeina nel minor tempo possibile.
Gli italiani sono ancora molto distanti dal caffè lungo di tipo americano. La reazione tipica a questo tipo di bevanda, denominato tuttora in larga parte come o “ciofeca”, ricorda quella degli anziani di Sorrento ai nuovi prodotti di Pizza Hut nel geniale e provacatorio nuovo spot della catena di pizzerie americana. Ma probabilmente il cambiamento è in corso, anche se sotterraneo. Viaggiamo anche noi italiani, andiamo da Starbucks e scateniamo periodicamente campagne (si spera al 100% veritiere) per chiederne l’arrivo. L’arrivo di Kfc e del suo pollo fritto a Roma, nei giorni scorsi, fa capire che i tempi sono maturi per quello che si riteneva impossibile. Una catena come Arnold Coffee, larghissimamente ispirata a Starbucks, ha avuto un buon successo a Milano, si è arrivata a Firenze e ha emesso dei mini-bond per finanziarie un’ulteriore espansione. Le altre (poche) catene di caffetterie sono più legate all’espresso, ma lo propongono in molte versioni: alla nocciola, al caramello, al pistacchio, con creme stratificate in vari modi e abbinate al cioccolato. Le stesse capsule ci hanno abituato a considerare l’esistenza di varianti aromatizzate e diverse per intensità. Crescono il caffè al ginseng, i macchiati con latte di soia, le versioni corrette e in una piazza atipica come Milano spuntano i bollitori per il caffè americano. Forse non lo vogliamo riconoscere, ma il caffè “normale” rimarrà sempre più una bandiera vuota: un’altra rappresentazione stereotipata a cui ci attacchiamo, mentre la realtà va in un’altra direzione.