Nel mese appena trascorso ho seguito la campagna elettorale di Midterm dagli Stati Uniti. Che la parabola del primo presidente nero stesse volgendo verso una fine non contenuta nelle premesse sembrava inevitabile come i mugolii e i sospiri introduttivi che, nonostante la scarsa abitudine degli americani alla comunicazione non verbale, ottenevo nominando Obama a scrittori e intellettuali liberal, gli stessi che l’hanno comunque sempre sostenuto a spada tratta.
Era grossomodo il 2006, o 140 anni fa in tempo dei media, quando Obama era solo un senatore nero dell’Illinois che si vociferava potesse concorrere alla presidenza degli Stati Uniti. Allora si trattava di uno scenario improbabile quanto elettrizzante, circa un gradino sotto Chris Rock che diventa presidente in uno di quei film in cui l’uomo della strada arriva per vie inaspettate alla Casa Bianca, salva il pianeta, legalizza l’erba, bacia la first lady e la telecamera gli gira attorno salendo verso il cielo. Poi però di solito si accendono le luci in sala e fuori c’è ancora George W. Bush a chiedere conto di tutta quella facile serotonina opponendo il solito reazionario principio di realtà. Insomma nulla di realmente fattibile.
Due anni dopo però Obama è diventato l’inaspettata rockstar definitiva che firma assegni post datati alla banca mondiale del cambiamento, fa discorsi a Berlino, incassa Nobel sulla fiducia e introduce la rucola presso un popolo per il quale un’alimentazione sana generava dubbi sulla tua sessualità.
Il fatto che Obama fosse nero, o quantomeno più nero di un bianco, veniva visto da buona parte del mondo come inevitabile segno del cambiamento, un’equazione che con il senno di poi sembra scontare una visione degna più di uno spot anni Novanta di Oliviero Toscani che di un analista politico. Ci sono poche cose che si possono vendere più facilmente del cambiamento e della speranza, e Obama ha sfruttato la propensione della specie umana all’ottimismo con sapienza, carisma, talento e una discreta dose di coolness afro-americana, generando un’aspettativa che ha preso in fretta dimensioni globali.
Dopo 4 anni di governo, Obama ha rivinto le elezioni con una campagna che per entusiasmo ricordava la precedente come le pizzate di ex compagni classe che lavorano in banca e ricordano i tempi del liceo. Il grande cambiamento era infatti ancora da venire e il clima parecchio ingrigito. Altri due anni e i repubblicani, in un’elezione trasformata in un referendum sulla presidenza (domenica su un giornale della Pennsylvania una vignetta riportava un uomo triste davanti alla cabina elettorale intento a sospirare “ho nostalgia di quando le elezioni avevano qualcosa a che fare con i candidati che si votavano”) sbancano, anche oltre le previsioni, che di default danno l’opposizione sempre avvantaggiata nelle tornate di midterm.
Nell’onda repubblicana che ha posto definitivamente fine al grande cambiamento ci sono una serie di personaggi notevoli, il mio preferito dei quali è questo:
Joni Ernst, neo senatrice dell’Iowa, che spiega come sia cresciuta castrando maiali in una fattoria e come sia intenzionata a portare questo suo know how in Senato per fare “grugnire” (di dolore ovviamente) i suoi colleghi, sottintendendo la loro natura maialesca con una grazia tale da far apparire Beppe Grillo un fine umanista.
La neo senatrice dell’Iowa con la sua violenza anti-suina esemplifica bene la deriva iper conservatrice presa dal partito repubblicano sulla spinta del Tea Party, movimento di ultra liberisti, populisti, cristiani e teorici dello stato minimo che guardano con lo stesso sospetto al welfare state e all’evoluzionismo e hanno fatto dell’ostruzionismo e dell’opposizione cieca l’unico metodo di confronto politico, rifiutando di sedersi allo stesso tavolo dei democratici dell’amministrazione Obama. I loro seguaci sono gli stessi che disseminano cartelli lungo le highway che recitano “l’uomo non discende dalla scimmia”.
Le loro teorie economiche sono abbracciate dall’attuale governatore Sam Brownback che ha fatto del suo Kansas una “città del sole” ultra liberista riducendo le tasse per i ricchi come mai prima d’ora e tagliando pesantemente il già stremato settore dell’istruzione pubblica, generando così un’ondata di proteste. I democratici contavano quindi di vincere lo Stato (nonostante sia storicamente rosso) ma alla fine pur perdendo buona parte del consenso ricevuto alle scorse elezioni Brownback è stato confermato sulla sua poltrona. Storia simile in North Carolina per il seggio al senato conteso fra la democratica Kay Hagan e il repubblicano Thom Tills, una sfida che i democratici contavano di vincere dato che nel ruolo di speaker del parlamento di Stato Tills ha avuto un ruolo fondamentale nel ridurre il prelievo fiscale ad una sola aliquota: 5.75% per le persone fisiche e 5% per le aziende, e subito dopo nel far passare una serie di tagli pesantissimi alla spesa pubblica, aumentare le tasse non progressive sui consumi ed eliminare le detrazioni per i redditi più bassi. Tills è stato eletto con uno scarto del 2% grazie anche a 6,5 milioni di dollari spesi in pubblicità nelle ultime tre decisive settimane di campagna. Non che la Hagan fosse un candidato privo di risorse, ma pareggiare la potenza economica dei repubblicani è dura, specie dopo il recente cambiamento della legge sul finanziamento che ha tolto praticamente ogni limite al sostegno ai comitati elettorali paralleli. Populisti ma senza problemi ad andare pubblicamente a braccetto con il potere economico, i repubblicani hanno uno dei loro campioni nel portavoce al senato Mitch McConnel, il quale, definito da un giornale “il Darth Vader del finanziamento delle campagne elettorali”, ha sportivamente appeso il ritaglio dietro la sua scrivania.
Non è comunque solo una questione di soldi, il messaggio estremo dei repubblicani incontra con forza e semplicità i sentimenti dell’America profonda. Come fa notare Evan Osnos sul New Yorker, non è facile pensare a un esatto contrario liberal di questo adesivo della campagna elettorale di McConnel:
Finito da tempo il momentum generato dalla speranza obamiana, la visione alternativa dei democratici, quando e se c’è, è difficilmente comunicabile. Il presidente persegue una linea complessa, articolata ma anche molto più moderata del preventivabile, il resto del partito invece fa fatica a mostrare un’identità da opporre alla schmittiana feroce lotta al nemico suino-morfo messa in atto dai repubblicani.
Il risultato delle elezioni è comunque sorprendente perché Obama ha pur sempre portato fuori il Paese dalla crisi economica e ridotto la disoccupazione. Il grande cruccio in tema di economia però è che alla ripartenza non ha corrisposto una riduzione delle disuguaglianze che al contrario continuano ad aumentare, una dinamica nei confronti della quale Obama sembra al tempo stesso preoccupato quanto sprovvisto di un piano efficace, anche perché nella faretra del presidente dello stato più liberista del mondo non ci sono molte frecce utilizzabili senza che i repubblicani si straccino le vesti e urlino al colpo di Stato bolscevico. Sull’altro fronte ci sono anche cose che gli elettori liberal non gli hanno perdonato, e non sono cose di poco conto: lo scandalo Nsa, gli omicidi di presunti terroristi tramite i droni che hanno causato centinaia di vittime civili collaterali. Secondo Obama sono tutti mezzi per evitare coinvolgimenti militari più ampi, nondimeno una strategia che ha causato delusione all’estero e sul fronte interno gli si è rivoltata contro non tanto per questioni etiche riguardo lo spionaggio globale e la discutibile etica dei morti ammazzati da droni telecomandati dal deserto del New Mexico, quanto per le escalation in Siria, Palestina e Iraq che hanno messo in dubbio l’efficacia di quella che agli americani è pur sempre sembrata una politica di puro contenimento, un atteggiamento a cui sono, per usare un eufemismo, poco avvezzi.
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In politica estera, Obama, pur con un nuovo approccio più strutturato e meno unilaterale, una volta scelto l’orientamento è stato tuttavia anche un presidente deciso e per la sua realizzazione si è affidato molto spesso ai suoi consulenti militari nel timore di apparire debole. È il fronte interno quello in cui si è mostrato più moderato, scarsamente machiavellico, ottenendo dei risultati importanti come la riforma della sanità, percepita però dai progressisti come “una riforma a metà” e osteggiata dai repubblicani come il soviet fatto sistema sanitario. Spesso Obama non è sembrato in grado di ottenere quello che gli serviva dai parlamentari, e nemmeno di punire con spietatezza coloro che non seguivano la linea. Una strategia che l’ha fatto sembrare una specie di inefficace antitesi di Frank Underwood.
Il sogno progressista dei primi giorni di Obama ha portato ad un risveglio nel duro mondo della Realpolitik, dove il metodo del confronto ha scontentato molti che si aspettavano al tempo stesso un retore abile e partecipativo e un politico senza scrupoli una volta ottenuto il potere. Non è andata così, e in fondo quello di cui si accusa Obama è di essere stato, almeno sul fronte interno, un po’ troppo coerente e rispettoso dei meccanismi istituzionali.
In senso figurato, il destino di Obama ricorda la vicenda, narrata da Montaigne, del luogotenente di Enrico II che invece di imporre una linea decisa tentò di comprendere e moderare una folla in rivolta per una nuova gabella e finì sgozzato, scorticato e salato come un quarto di bue.
Al contrario del messo reale, Obama, che nonostante i numerosi tentativi d’intrusione alla Casa Bianca non rischia la vita, paga però pegno in popolarità.
Abbandonato dai grandi finanziatori della sua campagna elettorale benché gli indici economici siano migliorati e il Dow Jones raddoppiato sotto la sua presidenza, ha scontato probabilmente il fastidio dei testosteronici poteri forti americani nei confronti del suo scarso decisionismo, oppure ancora, dopo avere propiziato la sua ascesa al potere in un momento di forte difficoltà del sistema per salvare la situazione, ora sembra preferibile sostituirlo con qualcuno che lasci nuovamente completa mano libera alle forze economiche.
Obama risponde alle accuse sostenendo che i risultati delle sue politiche si vedranno sul lungo periodo, un lasso di tempo a cui la politica si è radicalmente disabituata, e ribadisce che l’Obamacare è un cambiamento epocale.
In effetti la sproporzione fra le accuse per Healthcare.gov, il sito internet della riforma, andato per un breve periodo in black out poco dopo la sua messa online, e il fatto che comunque grazie alla riforma 31 milioni di persone avranno finalmente una copertura sanitaria danno un po’ la cifra della situazione.
Questa sconfitta può cioè essere vista anche come il contrasto fra realtà e percezione, e apre una riflessione su come pensare a una comunicazione progressista efficace anche nella fase di governo oltre che in quella di mobilitazione, e volendo salire di livello sulla natura stessa della politica, su quanta e quale etica comportamentale deve o meno guidare un’azione di governo. L’approccio aperto al confronto ha portato sì a dei risultati che andranno valutati sul lungo periodo ma anche a un generale sensazione di compito svolto a metà.
L’unilateralità della retorica della speranza si sposa male con la politica del confronto applicata nel mondo reale, con persone reali. Il presidente riflessivo non ha avuto buon gioco nemmeno con i moderni media sempre più pervasivi, meno riflessivi e a caccia di qualcosa di eclatante ogni cinque minuti da mettere immediatamente online. La deriva a destra dei repubblicani, la loro retorica della denuncia perpetua, grossolana e roboante si sposa perfettamente con le esigenze del mutato contesto mediatico.
Rimane inoltre il fatto che creare aspettative enormi, promettere un mondo migliore tout court sia forse l’unico modo per sconfiggere l’apparato economico che finanzia generosamente il fronte neo liberista, ma è anche vero che quando si vende un mito di rinascita comunicativamente efficace, si legittima chiunque a vederci dentro quello che vuole, un meccanismo che sul lungo periodo non può che generare frustrazione perché non tutti i desideri sono soddisfabili allo stesso tempo, e alle figure di stampo messianico si affidano inevitabilmente speranze differenti.
Se contro la crescente disuguaglianza i democratici appaiono privi di idee, quello a cui affidano il loro futuro politico è la tutela delle minoranze e i diritti civili, tema che domina da anni il discorso pubblico americano. Questo impegno sui diritti civili e contro la discriminazione, però, se non affiancato da una strategia economica volta al riequilibrio, rischia di rivelarsi un investimento a vuoto perché nel nuovo contesto americano in cui su questi temi si sono fatti passi da gigante, nulla impedisce a repubblicani del prossimo futuro di arruolare tra le loro file anche esponenti delle minoranze che perseguono ideali neo liberisti. Il primo esempio è fornito da queste elezioni che hanno visto eletta al congresso per lo Utah, Mia Love, ex sindaco di Saratoga, città dove la popolazione nera non raggiunge l’1%. Nata negli Stati Uniti da una famiglia di haitiani, la Love ha aderito da adulta alla religione mormona, ha sposato un bianco e ha conquistato un seggio al congresso con la stessa retorica anti-sistema dei suoi colleghi di partito.
(Mia Love mentre spiega che il miglior posto del mondo è un prato spelacchiato)
Gli analisti liberal hanno trovato confortante che, pur nella sconfitta democratica, il deputato repubblicano del Colorado, Cory Gardner, sia stato costretto a rivedere le proprie posizioni in tema di diritti civili, il che è sicuramente una conquista per la società ma è politicamente un pericolo per i democratici.
In un mondo in cui essere nero, donna o gay non sarà necessariamente un simbolo di cambiamento, cosa rimarrà ai democratici per differenziarsi? La mancanza di un progetto economico alternativo, di misure contro l’aumentare delle disuguaglianze una volta affermati i diritti civili individuali rischia di lasciare i democratici privi di una nuova frontiera verso cui orientare la propria narrazione e le proprie speranze di vittoria.