«Non sapete quanto è stato difficile per me farlo restare a scuola e farlo diplomare?», grida Leslie McSpadden. «Sapete quanti neri si laureano? Non molti. Perché li trascinate giù, a questo livello, e alla fine loro sentono che non hanno nulla per cui vivere? Perché?». Grida così la madre di Michael Brown il 9 agosto 2014, dopo che il figlio diciottenne afro-americano è stato ucciso da un colpo d’arma dell’agente di polizia Darren Wilson. «Dovremmo essere qui a festeggiare con lui il diploma. E invece gli hanno organizzato un funerale», dice il padre di Mike lo stesso giorno.
Nel 2014, a Ferguson, il 67,5% degli abitanti è afro-americano. Il 9 agosto, a Ferguson, Mike è appena morto e i suoi genitori gridano al mondo la fatica fatta per crescerlo «bene». «He was doing well», dice il padre, si stava comportando bene. Siamo nella Rust Belt, la cintura della ruggine, nel nord degli Usa, chiamata così a partire dagli anni Ottanta, quando il declino dell’industria manifatturiera aveva già iniziato a mietere le sue vittime, portando disoccupazione, povertà, disuguaglianza.
Sei anni dopo l’elezione del primo presidente nero d’America, due genitori cui hanno appena ammazzato un figlio parlano del diploma che Mike avrebbe preso a giorni. «Aveva tutto il diritto di essere trattato come gli altri, come i bianchi», è la prosecuzione taciuta del ragionamento dei due genitori, che fin dal giorno della morte di Mike hanno chiesto alla comunità di Ferguson di rinunciare alla violenza nelle proteste. «Lui non lo avrebbe voluto», ripetono.
Gli scontri a Ferguson nella notte tra 25 e 26 novembre 2014 (Reuters)
Lo hanno detto anche ieri, di fronte alla nuova ondata di scontri scoppiati dopo che il Gran Giurì ha deciso che non ci sono sufficienti prove per aprire un processo contro l’agente Darren Wilson, responsabile dell’omicidio. La notte successiva, tra il 25 e il 26 novembre viene descritta come la peggiore mai capitata nell’ultima generazione Usa per manifestazioni legate a motivi razziali.
«Le statistiche mostrano che il sogno americano è un mito», ha detto in un’audizione di fronte al Senato Usa l’economista Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia e docente universitario alla Columbia University, lo scorso aprile. Il Paese del primo Presidente nero sarà anche tornato a crescere in termini di Pil. Ma la ricchezza negli ultimi anni è andata condensandosi nelle mani di pochissimi. «Gli Stati Uniti hanno ottenuto la distinzione di essere divenuti il paese con il livello di disuguaglianza di reddito più elevata tra tutti i paesi avanzati. Anche se non esiste una cifra singola che possa rappresentare tutti gli aspetti della disuguaglianza sociale, le cose sono peggiorate in ogni dimensione: più soldi vanno in alto (più di un quinto di tutto il reddito va all’1% al vertice), più persone sono povere in fondo alla scala sociale e la classe media ha visto stagnare il proprio reddito», ha detto il premio Nobel, che vede nella disuguaglianza di opportunità «l’aspetto forse più odioso» della disuguaglianza statunitense. «Le prospettive di vita dei giovani statunitensi dipendono più dal reddito e dall’istruzione dei genitori che in altri Paesi sviluppati. Abbiamo tradito uno dei nostri più fondamentali valori. E la conseguenza è che stiamo sprecando la nostra risorsa più preziosa, le nostre risorse umane».
Proteste a New York City dopo la sentenza del Gran Giurì sul caso Michael Brown
Nelle stesse ore in cui a Ferguson scoppiava la violenza, Barack Obama interveniva in diretta tv per chiedere il rispetto delle decisioni del Gran Giurì e dello stato di diritti statunitense. «Abbiamo fatto enormi progressi nel corso degli ultimi decenni. L’ho visto nella mia stessa vita. E negare questi progressi è negare la capacità dell’America di cambiare», ha detto il Presidente, che dietro la rivolta della cittadina del Missouri con il 67,5% della popolazione afro-americana, vede una «profonda sfiducia» nei confronti della polizia, «eredità – ha commentato il Presidente – di una lunga storia di discriminazione nel nostro Paese».
La rabbia di Ferguson è solo eredità o è attualità? L’America di Barack Obama è davvero meno razzista di quella precedente?
«Molto è cambiato dalla Marcia su Washington del 1963» si legge in questa ricerca del Pew Research Center del 2013. «Eccetto questo: il tasso di disoccupazione tra i neri è circa il doppio di quello tra i bianchi. Ed è stato così per la maggior parte dei sessantanni passati». Se il gap minore tra occupazione dei bianchi e dei neri si raggiunge solo nell’estate del 2009, in piena crisi economica (e in pieno mandato Obamiano), continua il Pew research Center, è solo per un crollo verticale dell’occupazione bianca.
Ma le statistiche mostrano anche che il 29,3% dei bianchi con più di 25 anni ha una laurea o titoli più alti, mentre i neri sono il 17,7%. Ad avere un diploma di scuola superiore è il 10,8% dei bianchi e il 6,1 dei neri (Census 2012, dati relativi al periodo 2006-2010).
Il divario resta alto anche se si guarda alla salute e agli stili di vita. Tra 1980 e 2011 aumenta il gap tra bianchi e neri cui viene diagnosticato un diabete. Nel 1980 le donne bianche cui viene diagnosticato un diabete sono il 2,6% della popolazione. Nel 2011 sono il 5,4 per cento, 2,8 punti percentuali in più. Se guardiamo alle donne nere, nel 1980 il 4,9% ha il diabete, nel 2011 il 9 per cento, 4,1 punti percentuali in più. La forbice si amplia anche se si guarda ai dati degli uomini (Centers for Disease Control and Prevention)
La differenza tra bianchi e neri resta costante nel tempo anche in termini di stipendio. Nel 1975 il reddito medio di un capofamiglia bianco è di 39mila dollari circa. Nello stesso anno un capofamiglia nero guadagna 23mila dollari circa. Nel 2011 il capofamiglia bianco guadagna in media 55mila dollari, quello nero 32mila circa (Census).
Secondo un recente report del Sentencing Project, nel Paese di Barack Obama un nero su tre deve aspettarsi di finire in carcere almeno una volta nella vita. Per gli ispanici accade a uno ogni sei, mentre ciò si verifica solo per un americano bianco su 17. «Gli Stati Uniti operano con due diversi sistemi di giustizia: una per le persone benestanti, l’altro per i poveri e le minoranze», denunciano i membri del Sentencing Project. Più del 60% della popolazione carceraria appartiene a una minoranza etnica o razziale, continua l’associazione. Ogni giorno, ogni dieci maschi neri trentenni, uno entra in prigione. «Questi trend sono stati intensificati dalla guerra alle droghe, si legge sul sito, in cui due terzi delle persone incarcerate per reati di droga sono persone di colore.
«In tutta l’America, che sia a New York, in California e a Cleveland, giovani ragazzi di colore vengono uccisi da ufficiali della polizia. Poi i pubblici ministeri del posto mettono insieme questi “giusti e imparziali” Gran giurì, che producono sempre lo stesso risultato», ha dichiarato Benjamin Crump, il legale della famiglia Brown.
«Ci avete spezzato il cuore, ma non la schiena», ha detto il Reverendo al Sharpton, attivista fondatore della National Action Network, uno dei principali leader per i diritti civili degli afroamericani, che ha accusato il procuratore di Ferguson, Robert McCulloch, di aver screditato la vittima Mike nel corso della sua conferenza stampa. «Cosa mai vista prima», ha detto al Sharpton. «Uno studente al primo anno di legge avrebbe fatto un lavoro migliore», ha continuato, convinto che molte delle testimonianze rilasciate dall’agente Darren Wilson non collimino con le prove fisiche o con le indagini della polizia scientifica.
La rabbia di Ferguson è solo eredità o è attualità? L’America di Barack Obama è davvero meno razzista di quella precedente? «Obama non prova la nostra sofferenza, perché lui non è mai passato attraverso tutto questo», dice un abitante di Ferguson ai microfoni del Guardian nella notte appena trascorsa.
L’agente di polizia Wilson ha raccontato alla Gran Giuria che nello scontro avuto con Mike Brawn il ragazzino pareva «un diavolo». Il papà del giovane Michael Brown ha avanzato una proposta di legge, chiedendo che ogni ufficiale di polizia indossi una piccola telecamera, così da non dover più «giocare sempre allo stesso gioco di testimoni, specchi e procedimenti segreti del Gran giurì».
In questa America di agenti che parlano di «diavoli», e di padri neri che si aggrappano a proposte di legge per trovare la speranza di un futuro diverso, Barack Obama è un simbolo o un’illusione?