Anche quest’anno, le elezioni di midterm – in programma il prossimo 4 novembre – cadono in un momento difficile per l’amministrazione Obama. Nonostante l’andamento favorevole della congiuntura economica, la popolarità del presidente è da tempo in fase calante; al contrario, il favore per i candidati repubblicani – che lo scorso anno avevano risentito delle vicende che hanno portato allo shutdown dei servizi federali – è cresciuto negli ultimi mesi, anche a causa dell’incertezza con cui l’esecutivo si è mosso sulla scena internazionale.
Come sempre, la posta in gioco è alta: quest’anno saranno in palio tutti e 33 i seggi senatoriali in scadenza (seggi di classe II), tre seggi senatoriali in altri classi (elezioni suppletive), 435 seggi alla Camera dei Rappresentanti in scadenza e quelli dei delegati (non votanti) del Distretto di Columbia e dei ‘territori insulari’ rappresentati al Congresso (Samoa, Guam, Marianne Settentrionali e Isole Vergini). Sul piano politico, si tratta, ancora una volta, di comprendere a chi andrà il controllo del legislativo e, in particolare, del Senato, oggi in mano democratica. Negli anni della presidenza Obama, il controllo della Camera Alta da parte del Partito democratico ha rappresentato una costante e, per molti aspetti, una garanzia per il presidente. Una garanzia che proprio le prossime elezioni di midterm potrebbero fare venire meno.
Quello fra Barack Obama e il Partito democratico non è mai stato un rapporto semplice e gli esiti elettorali potrebbe complicarlo ulteriormente. Nonostante la nomination del 2008 e l’endorsement da parte del principale avversario nella corsa alla presidenza, la ex first lady (e senatore per lo stato di New York) Hillary Clinton, Obama ha sempre dovuto convivere con un partito solcato da divisioni profonde e che si riconosceva solo in parte nella sua figura. L’incapacità di soddisfare le aspettative di cambiamento che la sua elezione ha sollevato ha accentuato questo senso d’insoddisfazione, che in diverse occasioni si è tradotto in fronda aperta.
Sul piano politico, si tratta, ancora una volta, di comprendere a chi andrà il controllo del legislativo e, in particolare, del Senato, oggi in mano democratica
Il successo del 2012, per quanto agevole (332 voti presidenziali contro i 270 di Mitt Romney e il 51,1% del voto popolare, ma in calo rispetto al 53,8% del 2008), è stato reso possibile – più che dalla capacità del presidente di sanare le contraddizioni emerse durante il suo primo mandato – dalla debolezza dello sfidante repubblicano. La debolezza del Grand Old Party (a sua volta legata ai problemi che questo incontra nel trovare un equilibrio credibile fra le sue varie anime e una strategia per rispondere alla sfida lanciata dal ‘Tea Party’) spiega anche la relativa facilità con cui l’amministrazione ha saputo reagire – lo scorso autunno – alla sfida politica e ideologica lanciata intorno al tema del tetto all’indebitamento federale.
Dodici mesi dopo, tuttavia, il capitale di credibilità raccolto dalla Casa Bianca sembra essere stato, in larga parte, dilapidato. Obama e il suo entourage non sembrano, infatti, essere riusciti a sfruttare a proprio vantaggio le divisioni che (seppure in misura minore che in passato) continuano ad affliggere il GOP. Parallelamente, le divisioni del Partito democratico, passate sottotraccia nel corso del dibattito sul deficit federale, sembrano essere riaffiorate. Sia in campo interno, sia internazionale, quella che è percepita come la postura esitante del presidente si riflette negativamente sull’immagine del partito e – nell’attuale fase pre-elettorale – su quella dei candidati, spesso impegnati a marcare la propria distanza rispetto alle posizioni della Casa Bianca.
L’avvio delle manovre per le elezioni presidenziali del 2016 accentua questa tendenza alla frammentazione, anche a causa dell’emergere delle prime ‘cordate’ interne. Sebbene nulla sia stato ufficializzato, da qualche settimana circolano, infatti, vari nomi di possibili candidati, fra cui quelli del vicepresidente Joe Biden; dell’ex segretario di stato Clinton; dei senatori del West Virgina, Joe Manchin, della Virginia, John W. Warner e del Vermont, Bernie Sanders; dell’ex senatore della Virginia, Jim Webb; dei governatori del Maryland, Martin O’Malley e dello stato di New York, Andrew Cuomo, e dell’ex governatore del Vermont, Howard Dean.
Il capitale di credibilità raccolto dalla Casa Bianca sembra essere stato, in larga parte, dilapidato
Nei mesi a venire, questo scenario è destinato a semplificarsi parecchio. Nel frattempo, però, la ricca offerta politica concorre ad allargare il solco che divide l’amministrazione dalla rappresentanza al Congresso. Inoltre, l’agenda attuale ha all’ordine del giorno una serie di punti potenzialmente assai divisivi. In campo internazionale, la crisi ucraina e il perdurare della guerra civile in Siria contrappongono frontalmente il pragmatismo della realpolitik con la riaffermazione di un’autorità morale su cui Obama ha costruito buona parte della propria immagine.
Sempre in campo internazionale, le azioni militari che la Casa Bianca ha intrapreso per contenere la minaccia dell’IS in Iraq sono state criticate da diverse parti per la loro scarsa incisività, anche se nessuno ha sinora violato in modo esplicito il tabù del ‘no boots on the ground’. Anche sul piano interno, le scelte fatte dal presidente hanno scontentato – per un motivo o per l’altro – larghe fatte del suo partito. In questo ambito, il dibattito ruota intorno a issues che vanno dalla portata della riforma sanitaria avviata con l’Affordable Care Act del 2010 ed entrata a regime nei primi mesi di quest’anno, a tematiche ambientali quali il completamento dell’oleodotto ‘Keystone XL’ fra il Canada e il Golfo del Messico e la prosecuzione dell’attività di fracking nello sfruttamento dei giacimenti presenti sul territorio nazionale.
*Gianluca Pastori è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.