Di questi tempi, impantanati in una crisi economica e sociale dalle proporzioni mai viste, stiamo rivedendo nascere l’interesse per il lavoro manuale, che fino a qualche anno fa consideravamo alla stregua di una condanna e una sconfitta. Stiamo riscoprendo l’arte di arrangiarci, di costruire o riparare le cose, di riutilizzare il riutilizzabile. Ma sono anche gli anni del trionfo del midcult, del conformismo imperante, degli hipster fuori tempo massimo e della moda delle startup.
Per capire cosa c’è dietro ci siamo rivolti a Davide Colombo, grafico milanese, fondatore di uno dei nostri blog preferiti, il deboscio, probabilmente il posto migliore della rete per identificare e disinnescare le nostre indulgenze al conformismo e le nostre idiosincrasie a colpi di meme provocatori, infografiche spietate e riflessioni tanto ironiche quanto lucide.
Cosa ne pensi della diffusione – o meglio del ritorno, in tutti i campi – dell’estetica del “do it yourself”?
Secondo me serve a giustificare delle necessità causate da questa crisi, ovvero dall’effettivo ritorno indietro dal punto di vista economico e sociale, un impoverimento che stiamo vivendo veramente in questi anni. Da questo punto di vista la moda del DIY potrebbe essere vista come un modo per invertire la tendenza e cercare di rendere figo qualcosa che invece è semplicemente un bisogno materiale contingente, dovuto proprio a questo arretramento economico e anche sociale.
Negli anni Cinquanta affittare una stanza della propria casa poteva essere considerato normale. Negli anni Ottanta, se al bar dicevi a un amico che affittavi una camera di casa tua lui o ti chiedeva se andava tutto bene o, al peggio, ti guardava come un poveraccio. Oggi è tornato normale: con AirB&B, anzi, è diventato figo. C’è gente che addirittura arriva ad affittare casa propria (regalata dai genitori) e dai genitori ci va a dormire. Ma ci sono anche altri esempi, prendiamo quello dei makers, una categoria che in questo momento sta andando forte, ma che in realtà è semplicemente un’etichetta più figa per chiamare i fornitori. Come la segretaria che si chiama Executive Assistant.
Ovvero: io decido di definirmi un maker, però in fin dei conti faccio il fornitore, l’artigiano. Ma visto che fornitore e artigiano sono parole che rimandano a una estetica che non ci piace, a un mondo — quello dei nostri nonni — che pensiamo come inferiore solo perché legato al lavoro manuale, ci siamo inventati un modo per rivalutarlo esteticamente senza che la sostanza cambi. Ci definiamo makers, ma restiamo falegnami, fabbri, panettieri. È un complesso tipicamente piccolo borghese quello del non dover lavorare con le mani. E infatti i borghesi le chiamano “le estremità”.
Il ritorno al lavoro manuale è solo una moda passeggera?
No, è anche giusto e necessario, perché in qualche modo dobbiamo cavarcela, se no non se ne esce. Il problema è che, per riuscire a giustificare a noi stessi quello che siamo stati abituati a vedere come un arretramento, un peggioramento della nostra qualità della vita — ovvero l’abbandono della ricerca di un lavoro intellettuale per andare a fare un lavoro manuale — lo stiamo facendo attraverso una rivalutazione estetica, che in fondo è un modo per mentire a se stessi. Anche mestieri come il barbiere o il ciclista sono diventati fighi, e fa ridere perché non lo sono mai stati, o comunque già solo dieci anni fa di certo non lo erano.
Il ciclista poi è un caso veramente esemplare: negli anni Ottanta era un lavoro che nessuno voleva fare e in bicicletta non andava nessuno. Ora non lo è più, tutti vanno in bici e il ciclista è diventato un lavoro figo. Ed è diventato figo anche perché avere una macchina in città comincia a costare troppo ed è diventato scomodo. Anche perché se ci ragioni è diventato di moda un certo tipo di bici che, sì, costa tanto, ma è abbordabile. Per le moto, per esempio, la moda della custom non si è diffusa perché costava troppo, anche 10, 20mila euro. Era campo per i fighetti.
Si fanno le cose semplicemente per estetica, per velleità, per definirci socialmente, non per farle veramente. Faccio l’avvocato o faccio il giornalista, non perché mi interessa fare l’avvocato o fare il giornalista, ma perché mi piace l’estetica dell’avvocato o del giornalista. Nello stesso modo, i lavori che mancavano completamente di appeal come il barbiere o il ciclista sono stati rispolverati esteticamente e ora sono quasi diventati di moda, mentre su altri, come il macellaio o l’operaio, forse ci arriveremo. Già un macellaio hipster a Milano c’è, è sui navigli…
Come funziona una dinamica del genere? Da dove parte?
Noi sul deboscio ci siamo divertiti a inventarci una sorta di teoria del complotto, come se questa rivalutazione fosse eterodiretta dall’alto, come se fosse necessario dare una mano di appeal a lavori che non l’avevano mai avuta o che l’avevano persa soltanto perché c’è il bisogno sociale di occupare un sacco di gente che altrimenti starebbe per strada.
Come ci siamo arrivati?
A un certo punto, per la nostra generazione — quella dei nati tra la metà degli anni Settanta e la seconda metà degli anni Ottanta — andare all’università è diventato un obbligo sociale e si è creata un’intera classe sociale inadeguata al paese. Perché l’Italia è sempre stata un paese contadino e operaio, anzi, direi soprattutto contadino visto che la parentesi operaia è durata tutto sommato poco. Dagli Ottanta in poi è come se avessimo deciso che non dovevamo più lavorare con le mani, che dovevamo lavorare tutti seduti.
Durante gli anni Novanta il problema non si è posto più di tanto, erano anni in cui c’era ancora lavoro. Il problema si è posto quanto ci si è resi conto che i posti messi a disposizione dall’industria culturale sono in fin dei conti molto pochi e che gran parte della generazione che aveva studiato e che aspirava a fare quei lavori si apprestava ad essere una generazione di gente frustrata che il lavoro se lo deve inventare. Tra l’altro questa consapevolezza risale a pochi anni fa.
Come si trasforma un lavoro “da sfigati” in un lavoro figo?
Il procedimento si applica anche a tutto il resto: si carica di significato e di valore un’attività o un oggetto che in teoria non dovrebbe averne, fino a che, a furia di caricarlo, quel valore lo ottiene. Nel nostro caso, partendo dal fatto che ci sono dei forti pudori sul lavoro manuale, una volta che tu sei obbligato a tornare a fare quei lavori — i lavori di tuo nonno — devi riuscire a caricarli di un valore che ti permetta di vincere quel pudore, di giustificare l’accettazione di quella che ti hanno sempre dipinto come una cosa degradante. Secondo me è semplicemente un complesso di inferiorità rispetto a qualcosa.
Rispetto a cosa?
Qualcuno ti direbbe che c’entra la società dello spettacolo, e fino a un certo punto potrebbe essere vero: l’immagine che si da di sé è diventata più importante del sé. Ma è un discorso che puoi fare in coda dal panettiere. La risposta io non la so, è una domanda che mi faccio anch’io, perché non me lo spiego. Lo noto, lo vedo, lo percepisco, ma non me lo spiego fino in fondo.
Forse c’entra il fatto che siamo portati a descriverci socialmente attraverso il lavoro che facciamo. Il lavoro ha da sempre una funzione sociale, non è una novità. Ci etichetta, o meglio, soddisfa la necessità che abbiamo di cercare un’etichetta che ci definisca: per questo ultimamente guardiamo soprattutto il lato estetico del lavoro. Uno ora fa l’avvocato per dire — soprattutto a se stesso — di fare l’avvocato, o il giornalista per dire di fare il giornalista, è pura velleità, soprattutto se pensiamo che questi due lavori, ma anche altri, non sono più lavori di prestigio se non per una minima quantità di persone, per gli altri sono semplicemente forme di sfruttamento.
Come si inserisce internet in questa dinamica?
Internet ha distrutto tutto quanto, io sono di questo parere, almeno. Evidentemente è colpa di internet se nessuno guadagna niente, perché la percezione in rete è che tutto sia gratis. O meglio qualcuno che guadagna c’è, ma sono sicuramente più le persone che hanno perso il lavoro a causa di internet di quelle che l’hanno trovato. Certo, come tutte le cose del mondo, dipende da che punto di vista le vediamo: vista dal basso è un’ingiustizia, vista dall’alto è evoluzione. Sicuramente internet da la possibilità, o da l’impressione di avere la possibilità, di creare qualsiasi cosa, visto che lo spazio è infinito e che potenzialmente tutti possono lanciare la propria idea e sperare che funzioni.
Come la moda delle startup?
Sì, la moda delle startup è un po’ la stessa cosa. Anche lì si basa tutto sulla velleità e la maggior parte delle volte non produce alcun utile. Non voglio dire che sia sbagliato, il mio non è un giudizio di valore. In fondo le startup sono imprese che hanno una funzione sociale di contenimento della disoccupazione. Se non ci fossero le startup le strade sarebbero piene di gente che non ha niente da fare: è chiaro che tutti devono fare qualcosa, o devono fare finta di fare qualcosa, perché se no è il caos sociale.
Però in fondo se lo facciamo è perché ce lo possiamo ancora permettere, e ce lo potremo permettere ancora per un po’, almeno fino a quando resistono i risparmi dei nostri genitori. L’Italia è un paese che ha un risparmio privato enorme. Probabilmente i nostri figli questa ricchezza non la vedranno, ma credo che per una generazione potremo andare avanti (male).
Credi che abbiamo così tanto tempo?
Non lo so, in ogni caso, io il sangue che scorre per le strade non lo vedo ancora, quindi credo che nessuno ne abbia voglia, o quantomeno c’è ancora un grande cuscinetto da erodere. C’è ancora tantissimo da perdere, siamo ancora primo mondo, con tutti i problemi del primo mondo, ovviamente. Come quelli descritti dai meme “first world problems”. A voler essere cinici direi che soltanto una guerra è in grado di resettare tutto e di ristabilire le priorità, che forse non sono le startup.
Il DIY è anche una parte di una moda che negli ultimi anni è esplosa, anche se in maniera complessa e spesso non pura, quella degli hipster. Che ne pensi?
Per molti versi gli hipster sono già finiti. Se ne ha parlato Panorama nel 2011, è la prova provata che ormai sono già passati. Poi, intendiamoci, hipster è una parola che ha assunto molti significati diversi, e se chiedi a dieci persone cosa sono avrai dieci risposte diverse. Magari un ragazzo di Napoli ti dirà che gli hipster sono quelli che hanno la bicicletta a scatto fisso a Milano, ma se poi vieni a Milano ti accorgi che le bici a scatto fisso non ce le ha più nessuno. A questo proposito ti racconto una storia che mi ha fatto ridere. Ero al Milano Film Festival quest’anno e a un certo punto è arrivato un ragazzo in bicicletta, l’unico con una scatto fisso. Ci si avvicina e cerca di spiegare a un mio amico che era con me cosa fosse quella bici. Mentre diceva che quella era una bici molto particolare, noi lo guardavamo un po’ straniti. Poi mi sono guardato intorno e ho notato che in effetti era l’unico che ce l’aveva. Lui probabilmente nella sua testa è convinto di essere all’inizio di un trend, e in realtà è arrivato quando era già finito. Questo ti da un po’ l’idea di come percepiamo i fenomeni e le mode: magari per me una moda è strafinita, mentre per te sta iniziando.
Se gli hipster sono già finiti, come possiamo chiamare quello che ora etichettiamo come hipsteria?
Invece di hipster li chiamerei early adopters, che per me è il significato più sensato della parola hipster. Ovvero coloro che fanno le cose prima degli altri, early adopter poi ha il vantaggio che è un’etichetta che si sposta con il tempo, perché i personaggi in gioco non sono sempre gli stessi. Quasi sempre sono giovani, sono quelli che sono più vicini alle mode.
Come funziona una moda?
La moda è sempre un’onda che oscilla tra parodia e immedesimazione. Nasce sempre come provocazione, ironia, parodia: in questo caso il punk che monta come estetica dello scandalo e della provocazione e che poi, scendendo, sparisce l’ironia e resta come immedesimazione. È come gli altri cicli che abbiamo trattato sul deboscio: inizi ad ascoltare gli 883 perché dici che ti fanno ridere, ma poi, alla fine, lo fai davvero. Guardi Uomini e Donne della De Filippi perché dici che ti fa ridere, ma poi la guardi sul serio, lo stai facendo. Poi magari ti continua a far ridere, ma lo stai guardando sul serio. Il problema non è in realtà se ti fa ridere o meno, il problema per me è la giustificazione. In questo caso l’ironia è la giustificazione, e già in generale sentire il bisogno di giustificare un proprio comportamento ha sempre un qualcosa di mefitico, la giustificazione attraverso l’ironia, poi, è la cosa più pelosa che ci possa essere. Prendi le distanze da una cosa che in realtà ti piace, con la scusa dell’ironia ed è una cosa che ha poco senso.
E come funziona questa dinamica negli hipster?
Gli hipster sono assolutamente midcult, si appropriano di prodotti e usi popolari e pretendono di trasformarli in pose e prodotti alti. Uno dei temi ricorrenti è appropriarsi di cose di massa per ribaltarle di segno, che è poi in realtà un modo per farle digerire, perché attraverso questo procedimento i prodotti non cambiano, restano gli stessi, eppure passano, filtrano e in qualche modo imbevono la cultura.
Mi viene in mente tra l’altro il vecchio classico ciclo hipster, quello di Portlandia, ti ricordi? Ci sono un fighetto e un hipster che si incrociano. Il ciclo comincia dal fighetto, che copia una posa dell’hipster, l’hipster lo vede e smette di fare quella cosa, perché se la fa il fighetto vuol dire che è “finita”. Va avanti così, una posa dopo l’altra, fino a quando il fighetto diventa un hipster e l’hipster un fighetto. Si scambiano i ruoli, e poi ricominciano.
Che cosa vuol dire questa storia? Allora, posto che la borghesia vince sempre, tutti vogliono diventare borghesi, e contemporaneamente il borghese vuole essere anti borghese. Questo ciclo, che in qualche modo è una sorta di equilibrio instabile perpetuo, lo potremmo vedere anche nel funzionamento del mercato del lavoro di oggi, che potremmo chiamare il ciclo delle aspirazioni sociali: il figlio del borghese torna a fare il contadino o l’affittacamere, e fa l’olio o il vino bio in toscana o trasforma una villa di famiglia in un bed&breakfast, perché ha già esorcizzato e sublimato tutte le velleità, mentre i figli delle classi subalterne, della piccola borghesia in primis, vogliono risalire la china sociale, arrivare alle professioni classicamente borghesi, come l’avvocato e il giornalista che dicevamo prima, e lo fanno sottopagati, da operai. I subalterni sono sempre loro, non dipende dalla professione che fanno.
Se ci pensi questo è proprio il frutto del benessere, è figlio del privilegio di vivere nel primo mondo. Il poter fare un lavoro mettendo in conto di non essere pagati. O anche il fatto che noi studiamo fino a trentanni non è sintomo di arretratezza, ovviamente, ma di benessere, è frutto della ricchezza, anche se sta generando povertà.
Ma quanto durerà?
Non so, come ti dicevo per me abbiamo almeno un’altra generazione. C’è ancora troppa ricchezza, abbiamo ancora troppo da perdere. Poi non è che succede di botto, è un declino a rallentatore, quindi vai indietro piano piano ma non te ne accorgi. La mancanza di soldi comunque non mi spaventa quanto mi spaventa invece la mancanza di idee che l’ha generata. Con questa crisi pensavamo di morire di fame e invece moriremo di noia.