C’era il collaboratore licenziato perché l’onorevole doveva pagare il mutuo di casa, quello stipendiato in nero o che figura come «volontario» ed entrava in Parlamento in qualità di “ospite”. C’era pure l’assistente che andava a fare la spesa per il parlamentare e gli scriveva le partecipazioni di nozze. Nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama i collaboratori si muovono come fantasmi. Eppure «sono considerati i fusibili del sistema, in loro assenza la macchina politica si ferma ma in situazione di crisi sono i primi a saltare». Un destino beffardo su cui si concentra il rapporto “I collaboratori dei parlamentari – il personale addetto alla politica” a cura di Hilde Caroli Casavola dell’Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione. La loro è una categoria negletta, «quella meno studiata, sfuggente all’attività di rilevazione dei dati delle istituzioni pubbliche e tuttora sprovvista di un adeguato statuto giuridico». Una nuova forma di precariato con il massimo degli sforzi e il minimo delle tutele.
Chi sono, cosa fanno, quanti sono? Sulla stampa e in tv sfilano col bollino di “portaborse”, qualcuno li associa al film del 1991 con Nanni Moretti e Silvio Orlando. I collaboratori sono spesso ragazzi al di sotto dei trent’anni, giovani e dagli ottimi curricula. Lauree specialistiche, master, dottorati, corsi di specializzazione, abilitazione forense. Le mansioni spaziano: si va dall’elaborazione di interventi, interrogazioni, proposte e articolati di carattere regolativo alla più classica segreteria comprendente la gestione dell’agenda e della corrispondenza del parlamentare, oltre al supporto per appuntamenti e interviste. Infine le ricerche bibliografiche e di materiale documentale. Trattasi di mansioni direttamente funzionali al lavoro del Parlamento, «compiti essenziali alle dinamiche della rappresentanza democratica». Responsabilità e impegni che pesano quotidianamente.
Il numero esatto dei collaboratori parlamentari è attualmente sconosciuto. Un esercito di invisibili scivola veloce tra le porte girevoli della politica. Da alcuni atti del Senato risalenti al 2007 emergevano «629 volontari accreditati»e «800 persone che supportano il lavoro dei parlamentari», mentre nel 2009 divennero «migliaia di ragazzi e ragazze». Molti, indefiniti e in crescita. Anche nei costi: nel 2012 il volume dei contributi pubblici diretti a singoli e gruppi parlamentari per le spese di staff ammontava a 97,5 milioni di euro (di cui 60 ai singoli). Nell’ultimo triennio la spesa è aumentata in modo «straordinario». Soldi della collettività, ovviamente. Ogni onorevole ha a disposizione 3.690 euro mensili di «rimborso delle spese per l’esercizio del mandato», che diventano 4.180 per i senatori. Con questa voce, metà della quale è obbligatoriamente rendicontata, vengono pagati i collaboratori. Facile intuire come una situazione del genere presti il fianco a opacità, scorciatoie e abusi.
Sebbene il parlamentare sia tenuto a depositare il contratto che lo lega al collaboratore, resta diffuso il ricorso a forme atipiche. Partite Iva e collaborazioni a progetti, contratti di lavoro intermittente, a chiamata e part time. Eppure le caratteristiche dell’impiego sono quelle del classico rapporto subordinato. Come risulta anche da interviste e questionari somministrati dal rapporto Irpa, solo una minoranza è riuscita a strappare un contratto di lavoro dipendente: il 51% dichiara una collaborazione a progetto e il 26% un co.co.co. La questione si ripercuote sulla retribuzione, che per molti oscilla tra i 500 e i 1500 euro a fronte di una giornata lavorativa superflessibile. Si lavora più delle otto ore canoniche, magari senza indennità per lo straordinario. Spesso non vengono riconosciute nemmeno ferie regolari, permessi, aspettative, congedi. Mancano le garanzie minime, di articolo 18 neanche a parlarne. La percezione di precarietà in cui vive il collaboratore si evince anche dallo stato civile dichiarato nelle interviste condotte dall’indagine Irpa. Stravincono celibi e nubili, mentre le convivenze prevalgono sulle unioni matrimoniali. E niente mutui per comprare casa.
Sono bravi, se non secchioni. Conta il merito, certo, ma nella scelta dei portaborse prevale il criterio della fiducia personale: rimane preponderante l’affiliazione politica o la provenienza dal collegio di elezione del parlamentare di riferimento. E non è un caso che molti collaboratori risultino iscritti a un partito. Dall’indagine Irpa emerge l’alta incidenza del reclutamento di carattere informale che coinvolge soprattutto la cerchia di famiglia e amici o quella del politico di riferimento. L’acquario è sempre lo stesso. Se i “cugini” collaboratori dei gruppi parlamentari sono selezionati mediante procedure soggette a controllo di organi istituzionali con contratti oggetto di un regime ben definito, i collaboratori dei singoli parlamentari sono appesi alla discrezione dell’onorevole di turno. Con annesso bagaglio di irregolarità e casi limite.
La categoria dei collaboratori è frammentata. Non esiste un albo. Col frequente turnover, il lavoro individuale, la debolezza negoziale e la paura di ritorsioni, i diretti interessati vivono in un limbo. Pochi mesi fa su queste pagine un gruppo di collaboratori si sfogava dietro richiesta di anonimato: «Vorremmo svegliarci un giorno, andare al lavoro e sentirci uguali ai colleghi del resto d’Europa e non svilenti portaborse o mercenari in attesa di una nuova occasione professionale magari con raccomandazione». Cosa chiedono? Che i contratti siano depositati presso la tesoreria della Camera di appartenenza che, solo su questa base, andrebbe a erogare lo stipendio al dipendente del parlamentare. Così avviene al Parlamento Europeo, dove il contraente è l’amministrazione parlamentare: i deputati indicano i nomi dei collaboratori e gli uffici delle istituzioni rappresentative provvedono a stipulare un regolare contratto e a pagargli lo stipendio. Per le mani del deputato non passa un euro.
Oltre alle buone intenzioni dei parlamentari in ordine sparso, incluse quelle di Grasso e Boldrini, la situazione non sembra evolversi. L’indagine curata da Hilde Caroli Casavola ha contato undici progetti di legge fermi tra Camera e Senato. E a Palazzo Madama è parcheggiato un ordine del giorno che impegna il Consiglio di Presidenza e il Collegio dei Questori «ad adottare misure idonee a disciplinare in modo trasparente il rapporto contrattuale tra senatore e collaboratore». Eppure, lamenta un senatore ai microfoni di Linkiesta, «è il solito odg in cui dicono che si occuperanno della questione ma poi non fanno nulla». Ai portaborse non resta che attendere, mentre dall’Irpa lanciano un campanello d’allarme: «A differenza degli altri Paesi, il Parlamento italiano non soltanto non ha contezza del numero dei collaboratori ma è addirittura estraneo al rapporto giuridico e, dunque, sprovvisto di poteri di verifica e sanzione». Il risultato? «I politici di professione non hanno alcun efficace incentivo a contenere le dimensioni della crescita del fenomeno».