Agiscono nell’ombra, al riparo da sguardi indiscreti. Sono hacker abilissimi, capaci di aggirare qualsiasi sistema informatico. Ma anche agenti segreti da guerra fredda, microspie in tasca e immancabili dossier sotto il braccio. Girano per le strade di Roma da decenni, invisibili ai più. Pedinano, intercettano, tramano. Borsalino in testa e occhiali scuri per non farsi riconoscere, prediligono i palazzi del potere periferico. Il Campidoglio, la Pisana, la Giunta Regionale. Alcuni esistono davvero, altri sono solo il frutto dell’immaginazione. Ma nella Capitale non c’è politico di rango che non ne sia rimasto vittima. Una lunga lista di sindaci e governatori finiti loro malgrado al centro di torbide storie di detective.
Sono vicende da romanzo giallo. Storie che sembrano uscite dalla penna di Ian Fleming. Chi non ricorda le intrusioni del 2006 nell’anagrafe informatica del Comune? Le microspie trovate durante le bonifiche ambientali negli uffici della Regione ormai non si contano più. Roba da far impallidire Woodward e Bernstein, altro che Watergate. Senza ricordare le oscure trame dei servizi segreti scomodate a margine della vicenda di Piero Marrazzo. Una trama noir che prosegue da anni e arriva fino a questi giorni. Fino al sindaco di Roma Ignazio Marino, solo l’ultimo politico capitolino a denunciare un misterioso dossieraggio nei suoi confronti.
La vicenda è al vaglio dei magistrati della Procura di Roma, che su segnalazione dei carabinieri di San Lorenzo in Lucina hanno già aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando il reato di «accesso abusivo a sistema informatico». Una storia a tratti paradossale. Al centro del giallo ci sono otto multe della polizia locale destinate al sindaco, colpevole di essere entrato nel centro storico senza regolare pass. Un caso, denuncia Marino, costruito ad arte per screditare la sua immagine. Stando alla versione del primo cittadino, alcuni hacker si sarebbero introdotti nel sistema informatico del Campidoglio per cancellare la sua autorizzazione a circolare dentro la zona a traffico limitato. «Qualcuno in queste ore è entrato con dolo nel sistema per manipolare i miei dati e creare un danno alla mia credibilità – questa la versione di Marino in un duro videomessaggio – È un reato grave, previsto dall’articolo 615 ter del codice penale punibile con la reclusione sino a 8 anni. Queste cose accadono per avvelenare il clima in città. Per quanto mi riguarda vado avanti senza farmi toccare da questi atti criminali. Conto sulle mie idee e non mi faccio spaventare dalle calunnie».
Mentre in città si discute della presenza di un superteste che potrebbe far crollare la difesa del sindaco – un anonimo dirigente dell’Agenzia della mobilità – i carabinieri proseguono le indagini. Le opposizioni intanto sfidano Marino, accusandolo di aver inventato tutta la storia. «Abbiamo trovato l’hacker del Campidoglio – spiegava ieri il senatore di Ncd Andrea Augello – è lo stesso sindaco. Abbiamo controllato: non c’è alcuna manipolazione, nessun pass sparito». In attesa della mozione di sfiducia nei confronti del primo cittadino, la spy-story capitolina diventa sempre più surreale. Anzitutto per il contesto in cui si dipana la trama del giallo. Dopotutto, anche in assenza dei permessi giusti, è così scandaloso che il sindaco di Roma raggiunga con la sua auto il Campidoglio? «E poi – raccontano nei palazzi della politica romana – per screditare Marino era necessario tirare fuori otto multe non pagate? Con tutti i casini che ha fatto non c’era davvero nulla di più grave?».
La mente torna inevitabilmente allo scorso inverno, quando il presidente della Regione Nicola Zingaretti trovò una microspia infilata nella spalliera di una poltrona della sala riunioni. Qualcuno aveva interesse a intercettare le riunioni della giunta? Denunciato il ritrovamento ai carabinieri, ancora oggi il reato resta impunito. «Qua stiamo alla Regione Lazio, mica a CSI…» scherzano dagli uffici della Regione. Tralasciando le facili ironie sul noto commissario interpretato dal fratello del governatore, la questione è tutt’altro che divertente. Per quanto artigianale, la cimice rinvenuta durante una bonifica di routine era disattivata ma perfettamente in grado di funzionare. Non solo. Per installare la microspia la poltrona sarebbe stata portata fuori dal Palazzo – così ritengono gli investigatori – aggirando i controlli della sicurezza interna. Opera di professionisti, insomma. E neanche i primi a entrare nel palazzo della Regione. Qualche anno prima la presidente del Lazio Renata Polverini di microspie ne aveva rinvenute addirittura tre.
Ogni vicenda fa storia sé. È il caso dei computer rubati al comitato elettorale del presidente Zingaretti lo scorso anno. Stavolta non sembra esserci la mano di misteriosi detective, nessuna informazione segreta da carpire. «Ma che… quelli erano semplici ladri» racconta chi ha subito il furto. Dopotutto, romanzo giallo o meno, siamo sempre a Roma. Eppure c’è chi si fa prendere la mano. La sindrome delle trame oscure è sempre dietro l’angolo. E tra pedinamenti e intercettazioni qualcuno finisce inevitabilmente per lasciarsi andare. Quando l’ex presidente di Regione Piero Marrazzo fu trovato in compagnia di un trans nella periferia nord della Capitale, sono stati scomodati persino i servizi segreti. A rendere più torbida quella vicenda, una inquietante coincidenza. La piccola via Gradoli dove si svolgevano gli incontri clandestini del politico, era già finita al centro dei misteri italiani negli anni Settanta. Qui c’era un covo delle Brigate rosse, per lungo tempo considerato la possibile prigione di Aldo Moro. Sempre qui indiscrezioni mai confermate vorrebbero la presenza di alcuni appartamenti intestati ai servizi segreti italiani. Abbastanza per colorare l’affaire Marrazzo di articolati – e non di rado fantasiosi – retroscena.
Nel nulla, invece, si è concluso il Laziogate. Ennesimo scandalo romano a base di dossier e spionaggi. La vicenda risale al 2005, quando sui giornali finì lo scoop di una presunta intrusione nell’anagrafe informatica del Comune di Roma. Un accesso abusivo per controllare la presenza di firme false a sostegno della lista elettorale di Alessandra Mussolini. Una spy-story alla vaccinara, terminata un paio di anni fa con la definitiva assoluzione dell’ex governatore Francesco Storace. Accusato del reato, frettolosamente ribattezzato “storhacker” dai suoi avversari politici, ma mai risarcito per aver perso nel giro di un anno le elezioni regionali e un incarico da ministro.