Kurt Vonnegut — nato l’11 novembre del 1922 a Indianapolis e morto a New York il 10 aprile del 2007 — è stato uno degli scrittori americani più importanti del Novecento. Il suo libro più celebre si intitola Mattatoio n° 5 ed è ispirato alla sua esperienza a Dresda, in un mattatoio, durante il bombardamento alleato che distrusse completamente la città tedesca nel febbraio del 1945. Proprio per la capacità di unire alla potenza della critica sociale un immaginario fantascientifico e un po’ surreale, tipico di Vonnegut, Mattatoio n° 5, pubblicato negli Stati Uniti nel 1969, è diventato da subito un grande classico del pensiero indipendente e del pacifismo.
Il racconto che vi proponiamo si intitola Ruth l’ha tradotto Franceco Pacifico ed è stato pubblicato per la prima volta in Italia in Baci da 100 dollari, un volume di racconti scritti negli anni Cinquanta (molti pubblicati originalmente su riviste femminili) ed edito nel 2011 da ISBN Edizioni, che ringraziamo per averci permesso la pubblicazione dell’intero racconto.
Buona lettura.
Ruth
Le due donne si fecero un cenno formale sulla soglia dell’appartamento. Erano donne solitarie, vedove; una di mezza età, l’altra giovane. Il loro stesso incontro – chiaramente mirato a combattere la solitudine – non faceva che confermare quanto entrambe fossero sole.
Ruth, la più giovane, aveva viaggiato migliaia di chilometri per questo incontro con un’estranea; aveva affrontato lo sferragliare e la fuliggine e i pruriti di una carrozza di treno dalla primavera di una cittadina militare della Georgia fino a un paese operaio nella valle ancora congelata di New York. Ora si chiedeva perché le fosse parso così giusto e imperativo farlo. Questa donna pesante, anziana, che ostruiva la porta e sorrideva solo a fatica, era sembrata anche lei volerlo, nelle sue lettere. «Così lei è la donna che ha sposato il mio Ted» disse fredda la più vecchia delle due. Ruth cercò di immaginare di avere un figlio sposato, e pensò che forse anche lei avrebbe usato le stesse parole. Posò le valigie nell’ingresso. Si era aspettata di sfilare nell’appartamento fra saluti affettuosi, di scaldarsi al termosifone, darsi una rinfrescata e solo allora cominciare a parlare di Ted. Invece, la madre di suo marito sembrava già intenta a esaminarla prima ancora di averla lasciata entrare. «Sì, signora Faulkner» disse Ruth «abbiamo passato insieme cinque mesi prima che partisse oltreoceano.» Sotto lo sguardo critico della donna, si trovò ad aggiungere, quasi sulla difensiva: «Cinque mesi felici». «Ted è tutto ciò che avevo» disse la signora Faulkner. Lo disse come fosse un rimprovero. «Era un uomo fantastico» disse Ruth a disagio.
«Il mio bambino» disse la signora Faulkner. Era un a parte verso un pubblico invisibile e compassionevole. Scrollò le spalle.
«Avrà freddo. Entri, Miss Hurley.» Hurley era il nome da nubile di Ruth. «Posso anche prendere una stanza d’albergo» disse Ruth. Lo sguardo della donna la fece sentire straniera, troppo consapevole della propria parlata strascicata, dei propri vestiti, che erano poca roba, adatti a un clima più caldo. «Non ti permetterei di stare altrove. Abbiamo tanto di cui parlare. Quando nascerà il figlio di Ted?» «Fra quattro mesi.» Ruth fece scivolare le valigie oltre la porta e si sedette, con aria provvisoria, su un divano coperto di chintz scivoloso.
La sola illuminazione nella stanza troppo riscaldata veniva da una lampada sulla mensola del camino, la debole luce attutita da un’ombra a guscio di tartaruga.
«Ted mi ha raccontato così tanto di lei, morivo dalla voglia di conoscerla» disse Ruth. Durante la lunga corsa in treno, Ruth aveva finto tra sé per ore una chiacchierata con la signora Faulkner in cui si guadagnava il suo affetto dal primo istante. Aveva provato e messo a punto la propria biografia una dozzina di volte prevedendo la richiesta della signora Faulkner «E adesso raccontami qualcosa di te.»
Era pronta alla frase di apertura: «Be’, non ho parenti, purtroppo: se non altro, nessuno stretto. Mio padre era colonnello in cavalleria, e…». Ma la madre di Ted non pose la domanda di apertura. Muta e pensosa, la signora Faulkner versò due bicchierini di sherry da un decanter dall’aria costosa.
«Gli effetti personali…» disse infine «mi hanno detto che li hanno spediti a lei.» Ruth rimase per un attimo disorientata. «Ah, le cose che aveva con sé oltremare? Sì, le ho io. È usanza, credo… insomma, è una procedura standard, spedirle alla moglie.» «Sarà tutto fatto in automatico da macchine su a Washington, immagino» disse la signora Faulkner ironica. «Un generale ha spinto un bottone e…» lasciò incompleta la frase. «Posso avere le sue cose, per favore?» «Sono mie» disse Ruth, e pensò che doveva suonare molto infantile.
«Credo volesse che le avessi io.» Si guardò il bicchiere assurdamente piccolo pieno di sherry e rimpianse di non poterne bere altri venti per rendere più tollerabile la situazione. «Se ti conforta pensarla così, considerale pure tue» disse la signora Faulkner pazientemente. «Volevo semplicemente conservare tutto in un posto solo… quel poco che rimane.» «Temo di non capire.» La signora Faulkner si voltò dall’altra parte e parlò a voce bassa, religiosamente. «Tenere tutte le sue cose insieme lo farebbe sembrare un po’ più vicino.» Girò un interruttore su una lampada a stelo, riempiendo all’improvviso la stanza di un bianco brillante.
«Queste cose per te non significheranno nulla» disse. «Se tu fossi una madre, potresti capire quanto valgono per me.» Strofinò via una particella di polvere dal mobiletto decorato, con lo sportello di vetro appoggiato su zampe di leone contro il muro. «Guarda, ho lasciato spazio nel mobiletto per le cose che sapevo avresti portato.» «È molto dolce» disse Ruth. Si chiese cosa avrebbe pensato Ted del mobiletto: con le sue scarpe da neonato, il libro di filastrocche, il coltellino a serramanico, la spilla dei Boy Scout… Al di là del sentimentalismo da quattro soldi, anche Ted avrebbe notato qualcosa di malsano, di malato. La signora Faulkner fissò quelle chincaglierie con occhi spalancati, senza battere le ciglia, stregata.
Ruth parlò per rompere l’incantesimo. «Ted mi aveva detto che il negozio andava a meraviglia. Vanno ancora bene gli affari?»
«L’ho ceduto» disse la signora Faulkner assente. «Oh? Allora sta dedicando tutto il suo tempo alle attività del circolo?» «Mi sono dimessa.»
«Capisco.» Ruth cambiò posizione per il nervosismo, si tolse i guanti e se li rimise. «Ted ha detto che lei era un’ottima decoratrice, e vedo che aveva ragione. Diceva che lei amava cambiare tutto in casa ogni anno o due. Che cambiamenti ha in mente di fare la prossima volta?»
La signora Faulkner si allontanò con riluttanza dal ripiano del mobiletto. «Nulla verrà più cambiato, qui.» Allungò la mano. «Le cose sono nella valigia?» «Non c’è molto» disse Ruth. «Il portafoglio…»
«Quello in pelle cordovese, vero? Glielo regalai al penultimo anno di liceo.» Ruth annuì. Aprì una valigia e scavò fino al fondo. «Una lettera per me, due medaglie e un orologio.»
«L’orologio, prego. L’incisione sul retro credo dica che è stato un mio regalo per i suoi venticinque anni. Ho un posto già pronto per lui.» Rassegnata, Ruth le offrì gli oggetti, chiusi nelle mani a coppa. «La lettera vorrei tenerla.»
«Puoi senz’altro tenere la lettera e le medaglie. Non hanno niente a che fare col ragazzo che voglio ricordare.»
«Era un uomo, non un ragazzo» disse Ruth dolcemente. «Lui vorrebbe essere ricordato così.»
«Quello è il tuo modo di ricordarlo» disse la signora Faulkner. «Rispetta il mio.» «Mi scusi» disse Ruth «lo rispetto. Ma lei dovrebbe esser fiera di lui per come è stato coraggioso e…»
«Era gentile e sensibile e intelligente» la interruppe con passione la signora Faulkner. «Non avrebbero mai dovuto mandarlo oltreoceano. Avranno anche provato a indurirlo, a involgarirlo, ma nel fondo del cuore era ancora il mio bambino.» Ruth si alzò in piedi e si sporse sul mobiletto, l’altarino. Ora capiva qual era la situazione, cosa c’era dietro l’ostilità della signora Faulkner. Per la donna anziana Ruth era uno dei cospiratori nell’ombra, lontani, che le avevano portato via Ted. «Per amor del cielo, cara, stai attenta!»
Spaventata, Ruth allontanò la spalla dal mobiletto. Un oggettino caracollò da un ripiano aperto e andò in frantumi bianchi sul pavimento. «Oh!… Oh, no, mi perdoni.» La signora Faulkner era in ginocchio, con le dita spazzava i frammenti e li raccoglieva. «Come hai potuto? Come hai potuto?»
«Mi perdoni, sono mortificata. Posso ricomprarglielo?»
«Vuole sapere se può ricomprarmelo» disse la signora Faulkner con voce tremante, ancora a un pubblico invisibile. «Dov’è che si compra un piattino per dolcetti fatto dalle manine di Ted a sette anni?» «Lo si può riparare» disse Ruth, impotente.
«Si può?» disse la signora Faulkner con tono tragico. Prese i frammenti e li mostrò a Ruth. «Tutti i cavalli e i soldati del Re, non riusciranno a rimetterlo in pié…» «Ringraziamo il cielo che ce n’erano due» disse Ruth, indicando il secondo piattino di argilla sul ripiano.
«Non toccarlo!» esclamò la signora Faulkner. «Non toccare nulla.»
Tremante, Ruth si allontanò dal mobiletto. «Meglio che vada.» Tirò su il colletto del proprio sottile soprabito di panno. «Posso usare il suo telefono per chiamare un taxi, per favore?» L’aggressività della signora Faulkner si dissolse istantaneamente in un’espressione pietosa. «No. Non puoi portarmi via il mio bambino. Ti prego, cara, cerca di capire e di perdonarmi. Quel piattino era sacro. Tutto ciò che rimane del mio bambino è sacro, ed è per questo che mi sono comportata così.» Raccolse un lembo della manica di Ruth e lo tenne stretto. «Lo capisci, vero? Se c’è un briciolo di pietà in te, mi perdonerai e non andrai via.»
Ruth fece uscire l’aria dai polmoni con esasperazione soffocata. «Gradirei andare a letto, se non le dispiace.» Non era stanca, era anzi così tesa che temeva che avrebbe passato la notte a fissare il soffitto. Ma non voleva scambiare un’altra parola con questa donna, voleva nascondere la propria umiliazione e delusione nel bianco oblio del letto. La signora Faulkner divenne l’ospite perfetta, rispettosa e sollecita. La piccola stanza per gli ospiti, arredata con gusto, fresca e sgombra, come tutte le camere degli ospiti implicava un invito a sentirsi a casa, e allo stesso tempo ammetteva che era impossibile. La stanza era fredda, come se il riscaldamento fosse stato acceso da un’ora soltanto, e l’aria era dolce del profumo della cera per mobili. «E questo è per me e il bambino?» disse Ruth. Non aveva intenzione di restare oltre la mattina successiva, ma si sentì costretta a far conversazione visto che la signora Faulkner si tratteneva sulla soglia. «Questo è per te sola, cara. Pensavo che il bambino sarebbe stato più comodo nella mia stanza. È più grande, sai. Non so proprio dove potresti mettere una culla qui.» Sorrise con sussiego. «Ora, mi perdonerai, vero, cara?» Si voltò senza attendere risposta e andò verso la sua stanza, canticchiando una melodia.
Ruth giacque a occhi aperti per un’ora fra le lenzuola inamidate. I pensieri le salivano in pulsazioni sconnesse di luce – barlumi di momenti vissuti. Il volto di Ted, lungo e contemplativo, compariva qua e là. Lo vide come un figlio che soffriva di solitudine; poi come amante; poi come uomo. L’altarino, che lo ricordava come un bambino e ignorava l’uomo, aveva un senso, seppure in maniera patetica.
Ruth si scoprì e andò alla finestra, aveva bisogno della freschezza di uno sguardo all’esterno. C’era solo un muro di mattoni a un paio di metri, striato di neve. Percorse il corridoio in punta di piedi, verso le grandi finestre del tinello che incorniciavano le pendici blu dell’Adirondack. Si fermò. La signora Faulkner, la grossa figura delineata dalla camicia da notte sottile, era in piedi di fronte al ripiano con i ricordi, e ci stava parlando. «Buonanotte, amore, ovunque tu sia. Spero tu possa sentirmi e sapere che la tua mamma ti ama.» Si fermò e sembrò ascoltare, e fece un’espressione saggia. «E tuo figlio sarà in buone mani, amore… le stesse mani che hanno cullato te.» Alzò le mani per esibirle al ripiano. «Buonanotte Ted. Dormi bene.» Ruth tornò furtivamente a letto. Pochi istanti dopo, due piedi nudi scesero in fondo al corridoio, una porta si chiuse e tutto tacque.
«Buongiorno, Miss Hurley» Ruth aprì gli occhi e vide la madre di Ted. Il muro in mattoni alla finestra della stanza degli ospiti brillava, la neve era scomparsa. «Hai dormito bene, bambina?» La voce era allegra, intima. «È quasi mezzogiorno. Ti ho preparato la colazione. Uova, caffè, pancetta e biscotti. Ti va?» Ruth annuì e si stiracchiò, e ancora mezza addormentata mise in dubbio l’incontro da incubo della notte prima. La luce del sole bagnava ogni cosa, disperdendo l’imbarazzo funereo del primo incontro. Il tavolo della cucina effondeva l’aroma di pace e abbondanza di una ricca colazione.
Mentre ricambiava il sorriso della signora Faulkner bevendo la terza tazza di caffè, Ruth si sentì a proprio agio. La sera prima non era stata che un’incomprensione fra due donne stanche e nervose.
Ted non venne nominato, non subito. La signora Faulkner parlò con spirito dei tempi in cui aveva cominciato a fare affari in un mondo di uomini. Quindi incoraggiò Ruth a parlare di sé, e ascoltò con lusinghiero interesse. «E immagino che a un certo punto vorrai tornare a vivere al Sud.»
Ruth scrollò le spalle. «Lì non ho veri legami… né altrove, se è per questo. Mio padre era un militare, ho vissuto praticamente ovunque.» «Dove vorresti stabilirti, più di tutto?» la blandì la signora Faulkner. «Oh… questa è una bella parte del paese.»
«È freddissima, però» disse la signora Faulkner. «È il quartier generale mondiale di sinusite e asma.» «Certo, la Florida sarebbe più facile. Se potessi scegliere, sceglierei la Florida.» «Be’, tu puoi scegliere.» Ruth posò la tazza sul tavolo. «Ho in programma di stabilirmi qui… come voleva Ted.»
«Intendevo dopo la nascita del bambino» disse la signora Faulkner. «A quel punto sarai libera di andare dove vorrai. Hai la pensione di guerra e con ciò che riuscirei ad aggiungere io potresti trovarti un posticino carino a St. Petersburg, o qualcosa del genere.»
«E lei? Pensavo volesse avere vicino il piccolo.» La signora Faulkner andò al frigorifero. «Ecco, povera cara, hai bisogno di panna, vero.» Posò il bricco sotto gli occhi di Ruth. «Non vedi quanto funzionerebbe bene per entrambe? Potresti lasciare a me il bambino, ed essere libera di vivere come si conviene a una giovane.» La sua voce prese un tono di confidenza. «È ciò che Ted vuole per noi.» «Che io sia dannata se è così.»
La signora Faulkner si alzò in piedi. «Credo di saper giudicare meglio io. È con me ogni momento che passo in questa casa.»
«Ted è morto» disse Ruth incredula.
«Ecco…» disse la signora Faulkner con impazienza. «Per te lui è davvero morto. Non riesci a sentire la sua presenza o capire i suoi desideri attuali, perché non l’hai conosciuto bene. Non ci si può conoscere in cinque mesi.» «Eravamo marito e moglie!» disse Ruth.
«Mariti e mogli per la gran parte rimangono estranei finché morte non li separa. Io non conoscevo bene mio marito, e ne abbiamo passati di anni insieme.» «Certe madri cercano di rendere i figli estranei a ogni donna che non siano loro» disse Ruth con amarezza. «Sia lodato Dio se lei non ci è riuscita soltanto per un pelo!» La signora Faulkner avanzò a larghe falcate da uomo nel soggiorno. Ruth ascoltò le molle cigolare sulla poltrona di fronte al mobiletto sacro. Di nuovo il dialogo sussurrato con il silenzio arrivò attraverso il corridoio. In dieci minuti Ruth aveva fatto i bagagli ed era in piedi nel soggiorno. «Figlia mia, dove vai?» disse la signora Faulkner senza guardarla.
«Via. Al Sud, credo.» I piedi di Ruth erano stretti uno contro l’altro. Aveva tante cose da dire alla donna, e aspettò che questa la raggiungesse e la affrontasse di petto. Le erano saltate alla mente cento frasi vendicative le erano saltate alla mente mentre faceva i bagagli… frasi inoppugnabili.
La signora Faulkner non si voltò a guardarla, continuò a fissare i ricordi. Le sue spalle grandi erano ingobbite, la testa china, una postura di saggezza e massiccia testardaggine. «Cosa credi di essere, Miss Hurley, una specie di dea che può dare o riprendersi la cosa più preziosa della vita di un’altra persona?» «Mi ha chiesto di darle molto più di quanto abbia il diritto di chiedermi.» Ruth si immaginò come avrebbe potuto sentirsi un bambino in piedi al suo posto mentre quella donna prepotente decideva cosa, esattamente, era suo dovere di bambino fare.
«Chiedo solo ciò che chiede mio figlio.»
«Non è vero.»
«Ha torto lei, vero, amore?» disse la signora Faulkner al mobiletto. «Non ti ama abbastanza da sentirti, ma la tua mamma sì.»
Ruth sbatté la porta, corse per la strada bagnata e fece fermare a gesti un perplesso automobilista.
«Non sono un taxi, signora.»
«La prego, mi porti alla stazione.»
«Senta, signora, io vado fuori, non verso il centro.» Ruth scoppiò in lacrime. «D’accordo signora. Per amor del cielo, d’accordo. Salga.»
«Il treno 427 Seneca, è in arrivo al binario quattro» disse la voce dall’altoparlante. La voce pareva intenta a demolire ogni illusione dei passeggeri che le loro destinazioni d’arrivo potessero essere meglio di quelle di partenza. San Francisco era scandito con la stessa mesta monotonia di Troy; Miami non suonava più seducente di Knoxville. Un tuono scosse il soffitto della sala d’attesa. Il pilastro accanto a Ruth tremò. Lei alzò gli occhi dalla rivista per controllare l’orologio della stazione. Il prossimo era il suo, direzione sud.
Quando aveva comprato il biglietto, controllato il bagaglio e preso posto sulla panca per ingannare il tempo con una rivista, i suoi movimenti erano stati sicuri, rapidi, il suo passo quasi sfrontato. I movimenti erano stati l’accompagnamento di un dialogo selvaggio che le ronzava in testa. Nella sua immaginazione aveva travolto la signora Faulkner di spietate verità, estraendo trionfale, da quella fortezza di donna, scuse e lacrime. Per il momento, le fantasie di vendetta lasciavano Ruth soddisfatta, dimentica della sua recente tormentatrice. Sentiva solo noia e una solitudine incipiente. Per disperderle, esaminò i gruppetti di viaggiatori nella sala d’attesa, leggendo nei volti e nei vestiti e nel bagaglio le scontate narrazioni che avevano portato ognuno di loro alla stazione. Un soldato alto col viso di bambino chiacchierava rigido con madre e padre molto ben vestiti: strappato dalla flanella grigia e dal college per colpa della leva… nient’altro che una medaglia per il tiro di precisione… intelligente, molti soldi… padre a disagio per il grado e il ceto troppo alti del figlio…
Una tosse fastidiosa si infilò nei pensieri di Ruth. Un vecchio, abbarbicato al bracciolo all’estremità di una panca completamente vuota, era scosso da un attacco di tosse. Aspettò che gli passasse, per poter prendere un altro tiro dal mozzicone di sigaretta che aveva tra le mani. Una donna fragile e dagli occhi accesi diede un dollaro a un facchino e richiese la sua cortese attenzione mentre gli dava precise istruzioni su come maneggiare il suo bagaglio: in spedizione annuale dai parenti per criticare i figli e viziare i nipoti… Di nuovo quella tosse agonizzante. Stavolta Ruth colse il fetore dell’alito dell’uomo sporco, portato alle sue narici da un improvvisa folata d’aria dalla porta. La tosse peggiorò, mozzandogli il respiro. Gli cadde la sigaretta. Ruth ruotò sul posto perché lo sguardo non le cadesse più su quell’uomo. Un tipo grasso che respirava a fatica, il volto rosso risolutamente allegro sotto a un cappello di feltro, implorava che lo facessero passare in cima alla fila per i biglietti: commesso viaggiatore… Cuscinetti a sfera o scaldabagni o simili…
Di nuovo la tosse tremenda. Irritata che una vista così sgradevole richiedesse la sua attenzione, Ruth diede un altro sguardo al vecchio. Era crollato per terra, contorto, tremante.
Il venditore grasso guardò male il vecchio, e poi ancora dritto avanti a sé, tenendo il suo posto in fila.
La signora anziana, che ancora stava istruendo il suo facchino, alzò la voce per farsi ascoltare sopra l’interruzione. Il giovane soldato e i suoi compiti genitori non furono tanto volgari da riconoscere che stava accadendo qualcosa di spiacevole. Un garzone del giornalaio piombò in stazione, si mise a percorrere il corridoio fra Ruth e il vecchio, si fermò a un metro da loro, poi puntò l’altro capo della sala d’attesa, gridando la notizia di una tragedia capitata a migliaia di miglia da loro. «Tutti i dettagli!» Un altro treno rombò sulle loro teste. Tutti ora si muovevano verso la rampa, evitando il corridoio in cui giaceva il vecchio, facendo finta che fosse solo per caso che avevano scelto un altro corridoio per avvicinarsi al treno. «Buffalo, Harrisburg, Baltimora e Washington» disse la voce nell’altoparlante. Ruth si rese conto che era anche il suo, di treno. Si alzò senza più guardare il vecchio. Era solo disgustosamente ubriaco, si disse. Meritava di starsene lì sdraiato, a farsela passare dormendo. Si ficcò rivista e borsetta sottobraccio. Qualcuno – la polizia o un’opera di carità o chiunque fosse incaricato della cosa – sarebbe passato a raccoglierlo. «Si parte!»
Ruth aggirò l’uomo e avanzò ad ampi passi verso la rampa. Lo stridore e l’umidità raggelante del livello dei binari soffiarono giù per la rampa e la avvolsero. Luci pallide, coronate di vapore, si estendevano a ciò che sembrava l’infinito: irreali, non le offrivano nulla che potesse competere con i suoi pensieri.
E i pensieri non le davano tregua, la portavano a immaginare un suono fastidioso e ripetitivo: la tosse di un uomo. Le cresceva in mente sempre più forte, pareva echeggiare e amplificarsi sotto una grande volta di pietra.
«Si parte!»
Ruth si voltò e corse indietro per la rampa. In pochi secondi si era chinata sul vecchio, gli allentava il colletto e gli strofinava i polsi. Distese la piccola figura dell’uomo e gli piazzò il proprio cappotto sotto il capo. «Facchino!» gridò.
«Signora?»
«Quest’uomo sta morendo. Chiami un’ambulanza!»
«Sissignora.»
Mentre Ruth camminava verso la luce suonarono i clacson. Lei non ci fece caso, era occupata a rimproverare fra sé gli uomini e le donne insensibili della stazione. L’ambulanza aveva portato via l’uomo, e adesso Ruth, perso il treno, aveva altre quattro ore da passare nella cittadina natale di Ted. «Solo perché era brutto e sporco non l’avete aiutato» disse a un pubblico immaginario. «Era malato e aveva bisogno di aiuto e voi avete tirato dritto, egoisti, invece di toccarlo. Vergogna!» Lanciò sguardi di sfida a chi scendeva lungo il marciapiede in direzione opposta, ricevette in cambio sguardi perplessi. «Sareste arrivati a dire che non stava poi tanto male» mormorò.
Ruth ingannò il tempo come fanno le donne, fingendo di essere in giro per compere. Guardò con aria critica le vetrine, compulsò le stoffe, valutò i prezzi e promise alle commesse che sarebbe tornata a comprare dopo aver guardato in un altro paio di negozi. Ogni suo movimento era quasi del tutto automatico, permetteva ai suoi pensieri di tirar dritto alla loro maniera moralista e autocelebrativa. Lei era una delle poche persone, si disse, che non scappava dagli intoccabili, dagli sconosciuti sporchi e malati. Era un pensiero positivo, e Ruth si convinse che Ted lo stesse condividendo con lei. Con il pensiero di Ted affiorò l’immagine della sua formidabile madre. L’ottimismo crebbe mentre Ruth vedeva quant’era egoista la signora Faulkner in confronto a lei. La donna anziana sarebbe rimasta seduta nella sala d’attesa, indifferente a tutto tranne che alla tragedia della propria angusta vita. Avrebbe mormorato a un fantasma mentre il vecchio perdeva la vita un colpo di tosse dopo l’altro. Ruth ripercorse le poche ore amare e umilianti con la donna, prepotenze e lusinghe nel nome di un’idea di maternità da incubo e un pugno di chincaglierie. Le tornarono forti il disgusto e l’impulso a scappare. Ruth si sporse contro il bancone di una gioielleria e incontrò la propria immagine riflessa nello specchio.
«Posso aiutarla, signora?» disse una commessa.
«Come? Oh… no, grazie» disse Ruth. Il viso nello specchio era pieno di spocchia e vendetta. Gli occhi avevano la stessa patina fredda degli occhi che avevano guardato il vecchio alla stazione senza vedere nulla. «Ha l’aria di non stare molto bene. Vuole sedersi un momento?»
«No, guardi… davvero sto bene» disse Ruth assente.
«Nel negozio abbiamo un dottore in servizio.»
Ruth distolse lo sguardo dallo specchio. «Che sciocca che sono. Per un attimo mi sono sentita senza equilibrio. Ora è passato.» Sorrise, incerta. «La ringrazio molto. Ora devo andare.»
«Ha il treno?»
«No» disse Ruth stancamente. «Una donna terribilmente malata ha bisogno del mio aiuto.»