«Ogni giorno a migliaia di bambini vengono somministrati farmaci non sperimentati per uso pediatrico. Spesso senza nessuna prescrizione né controllo medico. Non dare loro i tuoi farmaci. Lattanti bambini e adolescenti non sono adulti in miniatura». Probabilmente vi sarà capitato di vedere questo video tempo fa, quando lo scorso maggio l’Agenzia Italiana del farmaco ha fatto partire una campagna per promuovere il corretto uso dei farmaci in età pediatrica. Come ricorda lo stesso spot istituzionale infatti, i bambini non sono adulti in miniatura, e spesso adattare la dose al loro peso non funziona. Non basta dimezzare la dose, perché oltre al peso, adulti e bambini differiscono anche per il modo con cui il farmaco interagisce con l’organismo e viene assorbito; e per come il farmaco si comporta una volta assunto.
Il problema insomma, è che sono pochissimi i farmaci a misura di bambino. La maggior parte sono molecole testate sugli adulti e poi veicolate anche sui bambini, senza sapere però esattamente quale sia la dose e il modo di somministrazione corretta e migliore. Oggi circa il 60% dei farmaci usati in pediatria non sono stati testati su pazienti pediatrici, ma solo sugli adulti, senza tenere quindi conto delle caratteristiche che possono renderli inefficaci o addirittura tossici per i più piccoli. Sono quindi farmaci usati fuori indicazione clinica o “off-label”. Percentuale che sale fino all’80% quando parliamo di neonati. Per cercare di incentivare le sperimentazioni pediatriche e favorire lo sviluppo di farmaci mirati e indicati per i bambini, nel 2007 l’Agenzia europea per il farmaco (Ema) ha dato il via al Regolamento Pediatrico. Un documento per cui le aziende farmaceutiche che vogliono ottenere l’immissione in commercio di un nuovo medicinale, devono presentare necessariamente anche un “piano di indagine pediatrico”.
«Qualcosa si muove – spiega a Linkiesta Paolo Rossi, direttore del dipartimento Universitario-Ospedaliero del Bambino Gesù e rappresentante italiano della Commissione Pediatrica dell’Ema – soprattutto a seguito della direttiva europea del 2007 che ha istituito il regolamento pediatrico e che di fatto obbliga tutte le case farmaceutiche che vogliono ottenere una autorizzazione al mercato dall’Ema, a presentare un piano di investigazione pediatrico. Chiaramente con le adeguate distinzioni: se il farmaco non può essere usato in pediatria (un esempio sono i farmaci per il tumore della prostata) la ditta può presentare un esenzione. In altri casi possono chiedere un differimento degli studi se la molecola è troppo precoce e ancora non ci sono dati che possono suggerirne l’uso sui bambini. Nella maggioranza dei casi però devono presentare un piano per lo sviluppo della molecola non solo nella condizione dell’adulto ma anche del bambino. Questo meccanismo che è alimentato da una serie di incentivi per le industrie che fanno questi studi ha determinato un movimento in alto del numero delle sperimentazione in pediatria».
Nonostante questo però, e nonostante i numeri di indagini pediatriche approvate dall’Ema dal 2007 a oggi siano aumentate tanto da arrivare a circa 600, i medicinali che hanno ottenuto la specifica indicazione pediatrica sono ancora pochi. Circa una quarantina. Per una serie di meccanismi tecnici, politici ed economici, infatti, non tutte le sperimentazioni approvate si sono completamente concluse e hanno dato luogo a farmaci con indicazione pediatrica. «Nonostante la positività della legge, gli incentivi, e una volontà politica per far sì che i bambini abbiano farmaci su misura, c’è ancora un ritardo nell’immissione al mercato di famaci a indicazione pediatrica» continua Rossi. «Questa è una criticità del sistema che deve essere corretta se vogliamo avere questi farmaci in farmacia».
A frenare le sperimentazioni sono prima di tutto i motivi economici. Perché fare studi in pediatria è più costoso, sia per l’assicurazione (più alta sui bambini) sia perché si devono mobilitare intere famiglie, e perché spesso si tratta di malattie rare e più complesse, più difficili e lunghe da gestire. «Purtroppo in Europa la sperimentazione non è affatto efficiente» sottolinea Rossi. «Non lo è nell’adulto (tant’è che il numero di trial è diminuito negli ultimi anni) figurarsi nei bambini. Va rivisto sia il regolamento sia le infrastrutture che questo regolamento deve supportare. Noi al Bambin Gesù, per esempio, abbiamo creato un Clinical trial center, un unico punto di contatto da parte delle industrie per far partire una sperimentazione ed entrare nell’ospedale. Con personale specializzato e dedicato. Questo già è un meccanismo di facilitazione del processo. Anche perché così c’è un contatto maggiore con il comitato etico e una riduzione dei tempi di attesa da parte dell’industrie per l’approvazione del protocollo. Ora stiamo cercando di estendere questo modello anche ad altri ospedali nel resto d’Europa, per creare una rete. L’idea è creare delle strutture dedicate a questi trial e collegarle fra loro per agevolare le aziende e le procedure».
Utilizzare farmaci fuori indicazione significa anche andare incontro a eventi avversi non previsti con l’utilizzo dei farmaci in-label (in indicazione). Dalla letteratura scientifica (qui, qui, qui e qui alcuni esempi) emerge infatti che l’uso di farmaci off-label nella popolazione pediatrica si associa a un aumento del rischio di reazioni avverse rispetto a i farmaci utilizzati in maniera conforme a quanto riportato nella scheda tecnica (cioè in indicazione). Ma non si può neanche generalizzare, come spiega Rossi, in alcuni casi sono farmaci utilizzati da molto tempo che nonostante non abbiano un’indicazione approvata possono essere considerati in-label, perché sono state fatte molte pubblicazioni su quell’uso. In altri sono maggiori i rischi di non utilizzarli che nel farlo. «Anche gli antibiotici sono stati usati nonostante non abbiano indicazione. Il problema è che magari stiamo dando una dose non è adeguata, magari troppo alta o troppo bassa, perché nessuno si è preso la briga di vedere qual è la dose giusta con dei test. O magari stiamo usando una formulazione non adatta al bambino. Un esempio sono i farmaci per l’Hiv. Ora per fortuna il problema si sta riducendo, perché sempre più i farmaci hanno ottenuto indicazioni pediatrica, ma prima i bambini dovevano prendere delle pastiglie enormi. Una formulazione non adatta ai bambini».
Uno studio clinico, a prescindere dall’età, prevede che ogni paziente per partecipare debba firmare un documento, detto consenso informato, in cui prende atto della sperimentazione e accetta di parteciparvi. E nel caso dei bambini, il consenso informato viene adattato all’età, in modo che loro stessi possano comprenderlo e accettare. «Nel nostro ospedale sono i bambini stessi a collaborare alla stesura del consenso informato» conclude Rossi. «È necessario fare come in Inghilterra e negli Stati Uniti dove sono nate delle associazioni di bambini che supportano queste attività: sono loro stessi a parlare agli altri bambini per spiegargli che cosa significa fare una sperimentazione. Io penso che questa sia la strada giusta: dobbiamo coinvolgere i nostri bambini e i nostri adolescenti e farli partecipare direttamente a queste attività. In fondo dopo i sei anni un bambino è in grado di affrontare qualsiasi argomento. Io sono un pediatra, e posso dirle che i bambini in questi anni di lavoro, mi hanno insegnato davvero molto».