Più di 570mila euro al giorno, 210 milioni all’anno. Questo è quanto il nostro sistema penitenziario potrebbe risparmiare, riducendo anche il tasso sovraffollamento delle carceri per il quale la Corte di Strasburgo ci ha condannati, se si utilizzassero di più le misure alternative alla pena, dalle comunità alle case di accoglienza. Dove torna a delinquere meno del 20% dei detenuti, contro il 75% del carcere. Non solo: favorendo le misure alternative, nascerebbero 1.500 nuovi posti di lavoro per i primi 10mila detenuti trasferiti. I calcoli li hanno fatti il Centro nazionale per il volontariato (Cnv) e la Fondazione volontariato e partecipazione, coordinatrici del network di lavoro “La certezza del recupero”, che mira alla istituzionalizzazione delle comunità di accoglienza, ad oggi solo strutture private non riconosciute che quindi non godono di alcun finanziamento pubblico.
Sovraffollamento Al 30 novembre 2014 i detenuti negli istituti di pena erano 54.428. Il 33,4% di loro è di origine straniera, e appena il 4,4% è composto da donne. La quota più alta di detenuti – 32.427 di cui 9.013 stranieri – sconta una pena per un delitto contro il patrimonio. Al 30 giugno, quando i detenuti sono cresciuti a 58.092, circa un terzo (36.962) erano imputati in attesa di giudizio.
In base a questi numeri, 5.119 dei detenuti non potrebbero stare in carcere. Cioè risultano in esubero rispetto alla capienza complessiva, 49.309 “posti utili”, degli istituti di pena stimata dal ministero della Giustizia. Un’eccedenza del 10,4%, distribuita in maniera non omogenea lungo i penitenziari di tutta Italia. La situazione più critica è quella della Puglia, con un indice di sovraffollamento del 43,3%. Le regioni più virtuose sono invece Trentino Alto Adige, Valle D’Aosta e Sardegna, dove molti posti restano addirittura vuoti.
Il sovraffollamento, come ha spiegato Giulio Sensi, della Fondazione volontariato e partecipazione, «va quindi esaminato per ogni singolo istituto di pena». Dei 202 esistenti in Italia, 44 (cioè il 22%) contengono un numero di detenuti superiore del 60% rispetto alla capienza, mentre 80 hanno un numero di detenuti inferiori alla capienza. La situazione attuale, invece, è che gli istituti sovraffollati ospitano il 73,3% del totale dei detenuti: solo in queste strutture i detenuti in più sono 9.671 unità. A parità di istituti, la riduzione di 5.119 detenuti non risolverebbe il sovraffollamento se non accompagnato da una redistribuzione dei detenuti fra tutte le strutture d’Italia. «Redistribuzione che di certo deve tenere conto di questioni delicate come la distanza geografica dei familiari del detenuto», spiega Sensi. E che in parte è ostacolata dalla specificità degli istituti, suddivisi tra case circondariali, case di reclusione, carceri ecc. La redistribuzione dei denuti, spiegano infatti i ricercatori che hanno lavorato sui dati del ministero, «potrebbe avvenire solo fra istituti dello stesso tipo. Considerando tale vincolo, l’eccedenza di detenuti la cui riduzione consentirebbe di eliminare il sovraffollamento ammonterebbe infatti a un minimo di 5.723 unità».
Anche perché misure come quella dell’indulto approvato nel 2006 si sono rivelate solo espedienti di emergenza e non soluzioni vere e proprie al problema del sovraffollamento. «Se si guardano i numeri della presenza nelle carceri, si vede che la popolazione carceraria ha avuto un crollo al momento dell’indulto, seguito però da una crescita che ha superato in alcuni casi anche il periodo precedente», spiegano i ricercatori, con il picco più alto nel 2010. «Anche perché», spiegano, «la recidiva di coloro che hanno usufruito dell’indulto è stata di circa l’80%».
Le misure alternative al carcere I condannati e gli imputati che scontano o aspettano una pena attraverso misure alternative al carcere, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova nei servizi sociali, al 30 novembre 2014 erano 31.045. Di questi 19.953 erano in affidamento in prova ai servizi sociali, in semilibertà o in detenzione domiciliare, di cui poco più di 9mila sono arrivati alla misura alternativa dallo stato di detenzione dal carcere.
Le misure alternative al carcere riguardano soprattutto gli italiani. Secondo gli ultimi dati, di giugno 2014, la percentuale di stranieri (33,4% sul totale dei detenuti) arriva solo al 14,4% per i servizi sociali, al 12,3% per la semilibertà e al 20,6% per gli arresti domiciliari (in questo caso spesso per l’assenza di una residenza da indicare come domicilio).
Il costo del detenuto e il risparmio delle misure alternative In base all’ultima stima del 2013, ogni giorno un detenuto in Italia costa 123,78 euro, per un costo complessivo annuo del sistema penitenziario pari a 2,9 miliardi. Un costo che scende se il numero dei detenuti sale. E infatti nel 2007, anno successivo all’indulto, quando il numero dei detenuti è crollato, si è raggiunto il picco dei 190 per detenuto al giorno. Questo accade perché nella gestione delle carceri incidono molto i costi fissi, costi che non sono comprimibili a meno che i detenuti diminuiscano così tanto da consentire la chiusura di alcuni istituti. Il costo per il personale, ad esempio, copre l’82% del costo del detenuto, mentre il costo netto del mantenimento effettivo di ciascun detenuto è leggermente inferiore ai 10 euro.
«Assegnando un detenuto a una pena alternativa, quindi il risparmio netto sarebbe all’inizio contenuto. Si risparmierebbero i dieci euro di mantenimento giornaliero, mentre i costi strutturali resterebbero», spiega Sensi. Se il detenuto va via, per intenderci, il dipendente della polizia giudiziaria resta. «Per i primi 5.723 detenuti presenti nelle case circondariali, trasferendoli nelle misure alternative il risparmio sarebbe pari a zero, per via dei costi fissi», spiega Giulio Sensi. Il primo effetto nel breve periodo, quindi, di un maggiore ricorso alle misure alternative consiste nella riduzione del grave sovraffollamento delle carceri. Che è già una buona cosa. A questo seguirebbe un possibile miglioramento delle condizioni di detenzione nelle carceri, o addirittura la chiusura di alcuni istituti (cosa che permetterebbe l’abbattimento forte dei costi, con un possibile reimpiego della polizia penitenziaria in altre mansioni).
Oltre un certo numero di trasferimenti dal carcere alle strutture che propongono misure alternative alle pena, invece, si potrebbero cominciare a vedere i primi veri risparmi. «I costi fissi vengono intaccati in maniera progressiva», spiega Sensi. «Se ne ricava ad esempio che il 10millesimo detenuto trasferito a pena alternativa consentirebbe di raggiungere un risparmio netto per l’intero sistema pari a 577mila euro al giorno, cioè 210 milioni di euro all’anno, poco meno del 10% del costo complessivo».
Nelle carceri italiane lavorano 274 unità nel terzo settore, più quasi 3mila organizzazioni di volontariato. «Sarebbero disponibili ad accogliere detenuti o ex detenuti per il reinserimento o il recupero», ha spiegato Sensi, «un numero di organizzazioni di volontariato che varia da un minimo “garantito” di 1.471 unità, a un massimo teorico, ma non irraggiungibile, di oltre 8mila. Pertanto le organizzazioni di volontariato possono offrire un contributo fondamentale per risolvere il problema di un sovraffollamento degli istituti di pena che oggi conta 5.119 detenuti in eccedenza in totale, e 9.671 se ci si ponesse l’obiettivo di eliminare il sovraffollamento da ogni singolo istituto oggi in sofferenza». Non solo: «Considerando mediamente la creazione di un posto di lavoro ogni 72mila euro circa di trasferimento dal pubblico al settore privato sociale, con un trasferimento ipotetico di 10mila detenuti si attiverebbero ad esempio 1.500 nuovi posti di lavoro».
Ma perché tutto questo non avviene? «Per prima cosa ci sono ostacoli di tipo legislativo», ha spiegato Guido Chiaretti, presidente della Sesta Opera San Fedele di Milano. «In base all’articolo 78 dell’Ordinamento penitenziario del 1975, i gruppi di volontari per avere l’autorizzazione da parte del ministero a lavorare in carcere aspettano dai 12 ai 15 mesi. Molti di questi, nell’attesa, si tirano inditero. L’articolo 17, che riguarda istituzioni o associazioni pubbliche o private, deve essere invece esteso anche a loro in modo da aprire la porta del carcere a un mondo che altrimenti rimane solo potenziale. Lo abbiamo chiesto al ministro Orlando da mesi, ma non abbiamo ancora ricevuto risposta». La recidiva di chi sfrutta le misure alternative scende sotto il 20%, contro il 75% del carcere. «È un fatto che interessa la società», dice Chiaretti. «Un punto di recidiva equivale a 51 milioni di euro di risparmio all’anno. Questo modello oggi è applicato solo nel carcere di Bollate dove la recidiva è il 17 per cento. Il calcolo del risparmio di una struttura del genere è facile da fare». Eppure l’emendamento alla legge di stabilità che prevedeva un investimento di 25 milioni di euro per l’inserimento lavorativo dei detenuti è stato bocciato.
Ad aprile 2014 il Parlamento ha approvato la legge delega sulle carceri, che punta a un uso maggiore delle pene alternative. Da allora sono passati 8 mesi. «È giunto il tempo che vengano emanati i decreti attuativi», dice Laila Simoncelli della Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. «È giunto il tempo di dare dignità a quelle realtà del terzo settore che coniugano certezza della pena e certezza del recupero, che hanno costi e recidive estremamente basse, e che oggi offrono la propria opera in maniera gratuita», o comunque in condizioni di precarietà. «Ci illudiamo», ha continuato Giorgio Pieri della Associazione Comunità Papa Giovanni XXXIII, dove è stata anche creata l’Università del Perdono, «che il carcere ci dia la sicurezza. Non è vero, perché il 75% di quelli che frequentano il carcere torna a delinquere. Con un costo esagerato del detenuto, che al contribuente finale costa 550 euro all’anno. Questi soldi li daremmo a un ente che al 75% è fallimentare o a una realtà che al 10% è fallimentare? Davanti alla porta del carcere dovremmo trovare scritto “chiuso per fallimento”».