Quel percorso lo faceva da sempre, Maria. Prendi la metro, esci dalla metro e poi dritta verso casa. Poi un bel giorno quelle strade non erano più le stesse. E il suo indirizzo, lo stesso che per anni aveva letto sulle bollette e recitato a memoria, era scomparso improvvisamente dai ricordi. Erano i primi sintomi del morbo di Alzheimer. Un nome, quello dello psichiatra tedesco che diagnosticò la malattia all’inizio del Novecento, entrato ormai nella vita di oltre 650mila famiglie italiane (su 1 milione di italiani colpiti da demenza). Nel mondo i casi sono 44 milioni, che secondo l’Alzheimer’s Disease International (Adi) diventeranno 76 milioni nel 2030 e 135 milioni entro il 2050, con un costo economico globale di oltre 600 miliardi di dollari.
Memoria, capacità di ragionamento, linguaggio e orientamento pian piano si sfaldano. Figli, mogli, mariti, nipoti, amici diventano sconosciuti. Le parole non arrivano più sulla lingua. E quelle persone che conoscevamo non sembrano più le stesse. Quelle che per prime il giorno del tuo compleanno chiamavano per gli auguri non ricordano più in che mese sei nato. Quelle che non perdevano occasione per fare un regalo non ricordano più neanche quando è Natale.
In Italia la demenza colpisce 1 milione di persone, di cui più di 650mila colpite da Alzheimer
«Non perché siano improvvisamente diventate matte», dice Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, «ma perché sono persone malate». La causa sono le placche amiloidi che si formano nel cervello e che provocano un progressivo deterioramento delle cellule cerebrali. Il principale fattore di rischio individuato resta l’età, anche se secondo le ultime ricerche fumo, obesità, diabete e scarso esercizio fisico possono aumentare la probabilità di comparsa della demenza. E in un Paese come il nostro che invecchia di anno in anno, al secondo posto nella triade dei Paesi con una più alta presenza di over 65 insieme a Germania e Giappone, la malattia scoperta da Alois Alzheimer (insieme al neurologo italiano Gaetano Perusini) potrebbe diventare una delle emergenze principali per la sanità pubblica.
Eppure solo il 30 ottobre 2014 è stato sottoscritto un accordo tra il governo e le regioni per un Piano nazionale demenze. Al momento della presentazione, la ministra della Salute Beatrice Lorenzin non si è neanche presentata, in realtà. «Il che dimostra l’interesse che possono avere per il tema», sottolinea la presidente della Federazione Alzheimer. E oltre a stilare un elenco di linee guida per le strutture sanitario-sociali, il documento non prevede neanche un euro di finanziamento.
A fine 2013 a Londra i capi del G8 dichiararono l’Alzheimer una priorità nell’agenda globale degli anni successivi, ma il problema resta ancora ben lontano dai palazzi romani. Nel resto del mondo, in compenso, si danno da fare. Nel 2012 Barack Obama aveva già stanziato 150 milioni di dollari per la ricerca sulla malattia (nella speranza di trovare una cura entro il 2025), con l’aggiunta di 26 milioni di sussidi per chi si prende cura dei malati. A fine 2013 il premier inglese David Cameron ha annunciato che i finanziamenti per la ricerca di una cura per l’Alzheimer passeranno dai 66 milioni di sterline nel 2015 ai 122 milioni nel 2025. Intanto, in 20 città inglesi, sono nate le Dementia Friendly Community per ospitare le persone affette da demenze, inclusi i malati di Alzheimer. Un piano simile quello del presidente francese Francois Hollande, che nel settembre 2012 ha annunciato di prolungare il piano anti Alzheimer di Nicolas Sarkozy da 1,6 miliardi di euro destinati alla cura, accompagnamento e ricerca.
Le persone si comportano in maniera strana non perché improvvisamente siano diventate matte, ma perché sono persone malate
In Italia, intanto, ancora si arranca. Secondo gli ultimi dati Istat, demenze e Alzheimer sono la sesta causa di morte nel nostro Paese (dati aggiornati al 2012). Anche se «nella realtà le morti per Alzheimer sono molte di più», spiega Salvini Porro. «Perché spesso sono dichiarate come morti per malattie polmonari o altro, ma alla base di tutto c’è l’Alzheimer. E il numero di casi è in continuo aumento». Per un costo socio sanitario annuo stimato dal ministero della Salute di 6 miliardi di euro (10-12 miliardi il costo delle demenze in totale).
Il primo progetto italiano di lotta contro l’Alzheimer risale al 2000 (progetto Cronos), quando al ministero della Sanità c’era Rosy Bindi: prevedeva ricerche sulla malattia, istituendo 500 Uva, Unità di valutazione Alzheimer, per lo screening dei pazienti da avviare alla somministrazione dei farmaci anticolinesterasici inclusi nello studio, che sarebbero stati rimborsabili per un solo anno. Un anno dopo partì la prima petizione dei familiari dei malati che chiedevano di non pagare le medicine. La completa rimborsabilità si ottenne solo nel 2005. Nel frattempo Girolamo Sirchia, nel 2002, istituì una Commissione di studio per la malattia di Alzheimer.
Solo il 6% delle Unità di valutazione Alzheimer offre un’equipe multidisciplinare con geriatri, neurologi e psichiatri
La creazione di centri specialistici per l’Alzheimer allora era stata un’idea all’avanguardia. Francia, Germania, Regno Unito, Austria e Irlanda arrivarono dopo con le memory clinics. Le Uva create dalle Regioni ad oggi restano le uniche a poter stabilire la diagnosi e a prescrivere i farmaci anticolinesterasici, che servono a migliorare alcuni sintomi e a ridurre i disturbi del comportamento, ma non a curare la malattia. Ma dell’avanguardia di partenza delle Uva è rimasto poco. «Anzitutto è difficile stabilire quante siano le Uva, molte cambiano denominazione di continuo (Unità di valutazione delle demenze o Centri per il decadimento cognitivo, ndr) e non tutte si chiamano così», spiega Salvini Porro. «E soprattutto non c’è un’uniformità dei servizi offerti. In teoria una Uva dovrebbe offrire una equipe multidisciplinare composta da geriatri, neurologi e psichiatri, e invece molto spesso si trova un solo medico. Per fare una diagnosi si impiega poco tempo, ma l’Alzheimer avrebbe bisogno di più incontri perché non ci sono sintomi specifici validi per tutti». In base ai dati dell’Istituto superiore di sanità, è emerso che in circa il 25% delle strutture il servizio è fornito un solo giorno a settimana e il 20% delle strutture è risultato addirittura non raggiungibile.
A 14 anni di distanza dalla creazione, lo scorso novembre l’Istituto superiore di sanità ha svolto il primo censimento delle strutture destinate all’Alzheimer in Italia. Al 6 novembre, in base agli elenchi regionali, le Uva sono 554 in tutta Italia, con la Campania in testa, che vanta 79 unità; 668 sono le strutture semiresidenziali; 919 quelle residenziali. Tra le 138 strutture contattate dall’Iss, il 27,37% ha solo un geriatra disponibile, il 26,32% solo un neurologo e soltanto il 6,32% offre una combinazione multidisciplinare di neurologo, geriatra e psichiatra.
Il nuovo Piano nazionale demenze non prevede finanziamenti ma solo un elenco di linee guida
L’Alzheimer in Italia resta ad oggi una malattia invisibile. E per molti è ancora un tabù. Chiuso tra le mura delle case, dove i familiari cercano di seguire i malati, magari con l’aiuto di una badante, o nelle case di cura per anziani. L’assistenza domiciliare è a carico dei Comuni, è sporadica e soffre delle variazioni di cassa di cui i Comuni italiani soffrono. In base all’ultima indagine condotta da Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer) e Censis, nel 76% dei casi l’assistenza è offerta in prevalenza da donne, che dedicano in media 7 ore al giorno all’assistenza diretta, con un impatto pesante sulla propria salute: il 53,6% non dorme a sufficienza, il 43% soffre di depressione. «Ci sono sempre più persone anziane», dice Gabriella Salvini Porro, «e le famiglie sono sempre più piccole e più deboli per potersi occupare da sole dei malati di Alzheimer. Serve un investimento in strutture adeguate e soprattutto serve più informazione. Oggi se un malato è disorientato per strada, in pochi sanno riconoscere l’Alzheimer. Tutto è lasciato alla fortuna!». La verità è che «l’Alzheimer fa troppa paura e la gente ancora lo rifiuta. Invece bisogna parlarne e in maniera competente. Le stesse famiglie non hanno informazioni».
Il primo passo è la diagnosi, che non è così scontata. A differenza di altre malattie, non esiste un esame specifico. Si tratta di un percorso che richiede molto tempo e diverse visite di valutazione del malato, oltre a numerosi esami clinici (in ogni caso non si può arrivare a una certezza diagnostica, che è possibile solo dopo la morte con un’autopsia). «Una diagnosi difficile da accettare, che fa paura anche più del cancro», dice la presidente della Federazione Alzheimer Italia. «Anzitutto per la lunghezza della malattia, che può durare anche dagli 8 ai 20 anni, con diverse fasi, da quella lieve a quella severa». Anni in cui «vedi la persona che si spegne lentamente nel suo di dentro, ma è ancora lì con il suo corpo. E non sempre i malati sono incoscienti e inconsapevoli. Una mattina ti svegli e non riesci ad allacciare più le scarpe». La diagnosi è così dura che i medici spesso non la comunicano direttamente al paziente, ma solo ai familiari. «È capitato», racconta Gabriella Salvini Porro, «che una signora alla quale era stata finalmente comunicata la diagnosi mi disse: “Ho potuto finalmente giustificare i miei comportamenti ai miei figli. Non ero diventata matta, era la malattia”».
L’Alzheimer in Italia resta un tabù, un fatto privato di cui molti ancora si vergognano
Dopo la diagnosi, le prime ad aver bisogno di un sostegno sono proprio le famiglie. «La diagnosi di Alzheimer per una famiglia è come uno tsunami», dice Salvini Porro. «C’è bisogno di supporto psicologico, perché in tanti ancora si vergognano di dire che un proprio caro ha l’Alzheimer. Ma c’è bisogno anche di consulenza legale. Per questo abbiamo anche stretto un accordo con Equitalia, in modo che i parenti possano trovare da noi una persona specializzata che dia consigli su problemi riguardanti la situazione contributiva di cui il paziente non può più occuparsi. Servono anche più informazioni sui luoghi di lavoro e sulle leggi di cui i parenti possono usufruire». L’Alzheimer ha bisogno di uscire dalla dimensione privata in cui gli scarsi investimenti statali in assistenza e comunicazione l’hanno confinato, prima che diventi un’emergenza che nessuno conosce. Cary Smith Henderson è un professore di storia della Duke University, il primo a raccontare in un diario la sua testimonianza diretta di malato di Alzheimer, grazie a una diagnosi precoce dopo una biopsia cerebrale. In quello che poi è diventato un libro, tradotto in Italia dalla Federazione Alzheimer con il titolo Visione parziale. Un diario dell’Alzheimer (Partial View: An Alzheimer’s Journal), Henderson racconta: «Vorrei che i malati di Alzheimer non continuassero a starsene in disparte, ma dicessero, accidenti, anche noi siamo persone. E vogliamo ci rivolgano la parola, ci rispettino, perdio, come esseri umani… Un’altra cosa che fa impazzire dell’Alzheimer è che nessuno vuol parlare con noi. Forse ci temono ma possiamo rassicurarli: l’Alzheimer non è contagioso».