Gorky ParkCecenia nel caos, è la spina nel fianco di Putin

Cecenia nel caos, è la spina nel fianco di Putin

L’11 dicembre del 1994 il presidente russo Boris Eltsin ordinava ufficialmente l’intervento delle forze armate in Cecenia, repubblica della Federazione russa che con l’implosione dell’Urss aveva annunciato alla fine del 1991 la propria indipendenza, non riconosciuta da Mosca. A guidare la rivolta separatista era stato Dzhokhar Dudayev, ucciso poi nell’aprile 1996, poco prima della pace di Khasavyurt e della fine del primo conflitto.

In quasi due anni di guerra morirono circa 100mila uomini, un quarto dei quali solo nell’assedio di Grozny, bombardata a tappeto dall’aviazione russa. Da parte di Mosca combatterono inizialmente 40mila soldati, poi quasi raddoppiati, sul fronte indipendentista i ribelli guidati dal generale Aslan Maskhadov e dai comandanti islamisti Shamil Basayev e Ibn Al-Khattab vennero sostenuti da mujaheddin provenienti da diversi paesi arabi e anche gruppi di nazionalisti anti-sovietici, come gli ucraini dell’Una-Unso. Qualcuno dice anche che i servizi americani e britannici abbiano avuto un ruolo sul modello già sperimentato in Afghanistan negli anni Ottanta.

Oggi, a vent’anni di distanza dalla guerra e dalle sue appendici del 1999-2000, quando Vladimir Putin avviò la seconda fase, il Caucaso russo è rimasto una polveriera e gli scontri della scorsa settimana che nella Repubblica autonoma di Cecenia hanno causato una ventina di morti sono il segnale che il Cremlino continua ad avere nella regione enormi problemi. Non solo a Grozny, ma anche nelle varie repubbliche limitrofe, dove gli spiriti separatisti degli anni Novanta si sono sovrapposti alle lotte tra clan, alle infiltrazioni dei grandi gruppi criminali e mafiosi, ai fermenti interetnici e interreligiosi e ovviamente all’estremismo islamico terrorista con i suoi legami al di fuori della Russia.

Le sette regioni del Distretto federale del Caucaso settentrionale (Stavropol, Daghestan, Inguscezia, Cabardino Balcaria, Circassia, Ossezia del Nord e Cecenia) sono quelle che non fanno dormire sonni tranquilli a Putin che di questi tempi, dall’economia traballante alle sanzioni occidentali, ha più di una gatta da pelare. Se però, come è stato negli scorsi decenni, i problemi economici sono andati e venuti con ciclica regolarità, la questione caucasica è stata una costante spina nel fianco per il Cremlino. L’Occidente infatti ha guardato e guarda a corrente alternata a ciò che succede a sud di Mosca e solo nei casi più sanguinosi, come quello della passata settimana, le notizie fanno capolino oltre la cortina di propaganda che oggi più che mai separa la Russia dal resto dell’Europa: il vaso di Pandora aperto esattamente vent’anni fa non è mai stato in sostanza richiuso.

Un paio di numeri aiutano a capire: solo nel terzo trimestre del 2014 ci sono state quasi ottanta vittime, tra conflitti armati e attentanti, due terzi nelle quali nel solo Daghestan. La Cecenia, retta con mano pesante da Ramzan Kadirov, sembrava negli ultimi tempi destinata a rimanere tranquilla, ma l’episodio di guerriglia urbana a Grozny ha riportato tutti coi piedi per terra. Tra il 2012 e il 2013 nel Caucaso russo i morti di questa guerra stratificata sono stati oltre 5200, una strage continua che non pare fermarsi e che periodicamente raggiunge il centro della Federazione.

Mosca, dopo l’attentato del gennaio 2011 all’aeroporto di Domodedovo che ha provocato una quarantina di morti rivendicati da Doku Umarov, fondatore dell’Emirato del Caucaso ucciso a sua volta nel 2013, è rimasta illesa, ma il pericolo è sempre lì, nemmeno troppo latente. Sia perché da un lato il filone terroristico islamista continua a rigenerarsi, alimentato anche dall’estero, sia perché il Cremlino non ha mai trovato la strategia adatta per combattere le cause principali che accendono le micce sul fianco meridionale della Federazione. Non serve mettere il coperchio alla pentola che bolle, bisogna spegnere il fuoco.

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