“Is your love in vain?”. Ci avvaliamo ancora di Bob Dylan per parlare di euro: è amore vero per la moneta unica quello della Germania o solo una limitata benevolenza? Può sembrare una domanda inappropriata, non lo è. Gli spread non segnalano rischi di rottura, grazie alla Bce e all’abbondante liquidità mondiale. Ma se l’incendio è domato, vi è brace sotto la cenere. Un euro senza politiche di stimolo della domanda produce stagnazione. E misure di stimolo vere (cioè non il piano Junker) non possono aversi se non si supera l’atteggiamento di negazione della Germania, a cominciare dalla correzione dei suoi squilibri. Le riforme strutturali nei periferici non risolvono l’impasse: non possono avere un ruolo se in queste economie l’inflazione deve essere zero. Una condizione di difficoltà per tre quarti dei cittadini dell’Unione, a causa di politiche economiche errate, è la ricetta per minare l’euro che invece può e deve funzionare meglio. L’Europa ha di fronte, sin dalle prossime settimane, un periodo di appuntamenti elettorali, può riattizzarsi l’incendio. Per questo l’egocentrismo tedesco deve essere superato. Già a inizio 2015 c’è un banco di prova del grado di coinvolgimento della Germania nell’unione monetaria: il Qe della Bce, entità e composizione. Come dice la canzone: are you willing to risk it all or is your love in vain?
Se si vuole bene all’euro
Avere oggi a cuore le sorti della moneta unica significa preoccuparsi non già delle pause nell’aggiustamento fiscale dei Paesi periferici né delle insufficienze nei loro processi di riforma strutturale, ma dell’atteggiamento di negazione verso qualsiasi misura di sostegno del ciclo economico che viene dai paesi core, in particolare dalla Germania. Un’opposizione che si connette strettamente al rifiuto di tali economie ad adottare azioni di correzione dei propri squilibri, propagatori di effetti depressivi nell’area.
In verità, questo è un problema che non emerge all’improvviso nel 2014. Esso era evidente sin dagli albori della crisi dell’euro nel 2010. Il non capirlo per tempo ha portato agli esiti deleteri che si osservano oggi. Perché questo ritardo? Vi ha probabilmente contribuito anche una subalternità culturale – oltre che politica ed economica – nei confronti del paese dominante da parte non solo della Commissione, ma degli stessi paesi periferici. Un atteggiamento a cui hanno concorso diversi elementi: la sottovalutazione dell’impatto dell’austerità su economie già provate dalla recessione del 2008-09 e senza il sostegno della politica monetaria; una malintesa fascinazione per il cosiddetto modello tedesco, con gli addentellati che esso comporta di mercantilismo e rigetto delle regole base della politica economica; il perseguimento di agende politiche (riduzione del peso dello stato e modernizzazione dell’economia) che poco avevano a che fare – erano anzi in potenziale contraddizione – con quella prioritaria dell’uscita dalla recessione. Oggi i nodi sono al pettine. Le economie periferiche fanno i conti con forti danni strutturali indotti dalle recessioni (secondo stime di lavori di ricerca della Banca d’Italia, la capacità produttiva italiana si è ridotta del 2,5%, quella manifatturiera fino al 17-20%), con una stagnazione della domanda senza vere prospettive di ripresa, con rischi deflazionistici che ostacolano gli sforzi di risanamento fiscale.
In questa situazione puntare i riflettori sugli squilibri dei paesi creditori nell’unione monetaria non è un rimandare la palla nel campo altrui, non è un additare i difetti degli altri per distogliere l’attenzione dall’incapacità di risolvere i propri. Argomentare che è una diversione dai problemi domestici non fa che ribadire l’errore di valutazione della crisi europea. In un contesto di lunga stagnazione, con mancanza di domanda e inflazione zero, i ritardi strutturali dell’Italia e degli altri periferici sono difficilmente rimediabili, forse nemmeno affrontabili. Se si vuole, quindi, tornare ad avere la possibilità di perseguire gli obiettivi di modernizzazione ed efficienza delle nostre strutture economiche si deve assolutamente superare la trappola della depressione. Se ciò non avviene, non ha senso parlare di misure che migliorano il potenziale di lungo periodo, un concetto che rischia di diventare una pura astrazione teorica: con una domanda aggregata persistentemente inadeguata quel lungo periodo, in cui si confida di vedere i benefici delle riforme strutturali, non lo si incontrerà mai.
Svalutazione competitiva
Mentre i paesi debitori hanno sensibilmente ridotto, dall’inizio della crisi, il loro squilibrio esterno, i creditori non hanno fatto progressi su questo fronte. Hanno anzi ulteriormente ampliato gli avanzi delle partite correnti al netto dell’influenza del ciclo economico. Secondo le stime della Commissione europea, a partire dal 2007 tutte le economie che erano in deficit hanno visto diminuire i loro passivi commerciali, anche escludendo gli effetti di miglioramento dei saldi indotti dalla recessione (tabella 1). L’Italia, in particolare, è con l’Irlanda l’unico Paese che partendo da una posizione di disavanzo sperimenta nell’ultimo periodo un attivo strutturale di bilancia delle partite correnti. Le economie che erano in surplus nel 2007 hanno invece accresciuto gli attivi strutturali con l’estero: il saldo positivo aggiustato per il ciclo della Germania era del 6% nel 2007, si è avvicinato all’8% nel 2013-2014.
Tab. 1 – Saldo della bilancia delle partite correnti aggiustato per il ciclo economico, in % del Pil
1 Saldo non aggiustato per il ciclo economico.
Fonte: EC, European Economic Forecast, Autumn 2014 ed elaborazioni Nomisma.
L’amplissimo e crescente attivo tedesco è in gran parte il risultato di una svalutazione interna di tipo competitivo realizzata dalla Germania nel primo decennio dell’euro. Svalutazione interna, in quanto in assenza del tasso di cambio è stata ottenuta limitando la crescita dei salari reali ben al di sotto della dinamica della produttività, in particolare nel settore industriale esposto alla concorrenza internazionale. Tra il 1999 (anno di avvio della moneta unica) e il 2007 (prima della crisi) la produttività dell’industria tedesca è aumentata di circa il 25% in più rispetto a quella degli altri settori non esposti alla concorrenza estera; nei paesi periferici tale squilibrio di efficienza è stato di circa 8 punti percentuali più basso (tabella 2, riga A). Una simile situazione avrebbe dovuto condurre a salari reali tedeschi in crescita e in misura superiore ai periferici. Si è invece verificato l’opposto. Tra il 1999 e il 2007 le retribuzioni reali pro-capite nell’industria tedesca (deflazionate col prezzo dell’output) sono diminuite, in rapporto alla produttività, del 12,2% (tabella 2, riga B), cioè dell’1,2% in media all’anno. Nei periferici sono cresciute più della produttività industriale, pur se in misura contenuta: del 7,8%, ovvero dello 0,7% in media all’anno. Si è trattato di una svalutazione competitiva perché il marcato abbattimento dei costi unitari reali rispetto ai competitori (-20 punti percentuali) è avvenuto in un’unione monetaria, sfruttando la mancanza del tasso di cambio e dando luogo a un vantaggio eccessivo (esportazioni tedesche al 50% del Pil, industria al 26%), ottenuto a discapito dei partner commerciali i cui prodotti subivano uno spiazzamento sui mercati interni e internazionali.
Dietro al boom dell’export netto della Germania non c’è, quindi, la crescita della produttività manifatturiera in misura superiore ai periferici, ma la forte compressione dei salari reali in rapporto alla produttività, sfruttando lo schermo fornito dall’unione monetaria. Questo è un passaggio essenziale per interpretare il successo tedesco negli anni dell’euro: se non ci fosse stato il freno sulle retribuzioni, l’aumento di produttività si sarebbe trasferito sui salari e non avrebbe dato luogo all’esplosione dell’avanzo commerciale; se non ci fosse stata la moneta unica, la compressione salariale rispetto alla produttività sarebbe stata compensata dall’apprezzamento del cambio nominale della Germania nei confronti dei paesi periferici, eliminando la possibilità dell’esplosione del suo avanzo commerciale. Tagliare i costi rispetto ai competitori in unione monetaria, per ottenere vantaggi nei loro confronti, è né più né meno che svalutare il cambio nominale quando c’è la moneta nazionale. La produttività non entra in questa storia.
Una misura approssimativa dell’entità della svalutazione reale tedesca rispetto ai periferici, accumulata tra l’avvio della moneta unica e l’avvento della crisi, è data dalla distanza tra il differenziale d’inflazione storicamente verificatosi in tale periodo (la dinamica dei prezzi tedeschi è stata più bassa del 10,8% rispetto ai paesi in deficit, riga C della tabella 2) e il differenziale che avrebbe invece corretto lo squilibrio competitivo intra-euro (i prezzi in Germania avrebbero dovuto crescere del 5% più dei periferici, riga D). Ne risulta una stima del deprezzamento reale tedesco di circa il 16% nell’arco di tempo 1999-2007 (riga E). In assenza di azioni di riequilibrio della Germania (come visto il surplus strutturale è ulteriormente aumentato dopo il 2007), sono i paesi periferici a doversi fare carico della correzione portando le dinamiche dei loro prezzi e costi del 16% sotto quelli tedeschi.
Tab. 2 Crescita della produttività e tassi di inflazione in Germania e nei Periferici1
(variazioni % e differenze tra variazioni % negli anni dell’euro precedenti la crisi, 1999-2007)
1I periferici includono: Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia.
2La stima del differenziale di inflazione richiesto nel periodo 1999-2007 per il riequilibrio è ottenuta sulla base di un modello semplificato a due settori (tradable/non-tradable ed elasticità di sostituzione unitaria tra i due beni nei panieri di consumo) e due paesi (Germania/Periferici) che conduce alla seguente relazione: inflazione tedesca – inflazione periferici = variazione cambio nominale Germania/Periferia (pari a zero) + 0,60 x [differenziale di produttività industria/altri settori in Germania (+24,8%) – differenziale di produttività industria/altri settori nella Periferia (+16,4%)]; 0,60 = stima del peso dei beni non industriali nel paniere di spesa dei consumatori. Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Commissione europea (Ameco)
Precedenti storici
Due ulteriori considerazioni sono utili per qualificare in prospettiva la discussione sugli sbilanci di partite correnti. La prima è che situazioni simili a quella sperimentata nell’unione monetaria – rifiuto dei paesi in avanzo a partecipare al riequilibrio – si sono storicamente già verificate in altri regimi di cambi fissi e hanno condotto alla frantumazione degli accordi monetari. Ciò è avvenuto negli anni trenta con la rottura del Gold Standard, ma anche all’inizio del decennio settanta con la crisi del regime di Bretton Woods. In quest’ultimo caso, tra le difficoltà di aggiustamento delle bilance dei pagamenti che condussero alla fine del sistema nato dopo la seconda guerra mondiale vi era proprio la resistenza da parte del paese in surplus (ancora la Germania) a rivalutare in termini reali la propria moneta attraverso una maggiore inflazione, a fronte di squilibri di produttività intersettoriali e nei confronti degli Stati Uniti molto simili a quelli intra-euro esposti nella tabella 2[1]. Quello degli sbilanci è, dunque, un terreno sdrucciolevole che può portare a esiti distruttivi.
Esportare depressione
La seconda considerazione riguarda la posizione commerciale dell’area della moneta unica nel suo insieme nei confronti del resto del mondo. Il persistere dell’elevato attivo della Germania e il contenimento dei disavanzi dei periferici hanno finito col tradursi in un saldo positivo della bilancia delle partite correnti dell’eurozona di dimensioni molto elevate (2,5% del Pil nel 2014 cioè oltre 300 miliardi di dollari; tabella 1 ultima riga), superiori a quelle che caratterizzano la Cina (1,8% del Pil, 190 miliardi di dollari). Ciò riflette l’eccesso di risparmio tedesco rispetto agli investimenti che, non più assorbito dai periferici in recessione, defluisce dal 2007 in misura crescente verso le altre economie. A fronte di questo surplus il cambio dell’euro ha preso nell’ultimo anno a deprezzarsi inducendo, in prospettiva, un ulteriore ampliamento del saldo. Sembrerebbe, dunque, che la politica beggar-thy-neigbour, intrinseca alle scelte della Germania, tenda ora a spostarsi dai rapporti commerciali con i periferici verso l’esterno dell’area. Anche questo è qualcosa che ricorda gli anni trenta: la zona euro col suo grande attivo e il perseguimento di un cambio debole non fa che riversare sull’estero le proprie irrisolte contraddizioni interne (mancato aggiustamento dello squilibrio intra-area e stagnazione economica), esportando al resto del mondo le proprie tendenze depressive. Poiché, però, la crescita mondiale non è elevata – è inferiore a quella sperimentata prima della crisi – sembra improbabile che questo tentativo di sottrarre domanda internazionale agli altri per supplire alla propria debolezza possa realizzarsi senza sollecitare, prima o poi, reazioni da parte delle altre grandi economie.
Fate quello che abbiamo fatto noi. La posizione della Germania sul problema del riequilibrio intra-area è quella di affermare che è compito esclusivo dei periferici aggiustare, imitando ciò che ha fatto l’economia tedesca nello scorso decennio. In altri termini è come se dicesse: sta a voi periferici cercare, se ci riuscite, di ridimensionare il nostro surplus del 7%, da noi conseguito con una svalutazione competitiva, e il modo virtuoso in cui potete farlo sono le riforme strutturali che aumentano la produttività, mantenendo a freno i salari. Questa è una posizione incongruente. Innanzitutto perché la Germania ha potuto realizzare la svalutazione interna in un ambiente in cui la Bce era in grado di mantenere l’inflazione media dell’eurozona al 2% grazie a una dinamica dei prezzi al 3% nelle altre economie. Oggi i paesi periferici sono chiamati a disfare la svalutazione competitiva tedesca in un contesto in cui l’inflazione euro è allo 0,4% e quella del paese nei cui confronti devono riequilibrarsi sotto l’1%. Dall’economia tedesca dipende, quindi, l’altezza dell’asticella dell’inflazione sotto la quale devono stare i paesi debitori. Dato il livello a cui è posta non c’è da meravigliarsi se si osservano stagnazione, tendenze deflazionistiche nei periferici, impossibilità per la Bce di realizzare il mandato della stabilità dei prezzi.
Le riforme non aiutano se l’inflazione deve essere zero
Ma c’è un secondo problema nell’argomentazione che scarica sui periferici l’intero onere dell’aggiustamento. Le riforme strutturali, evocate come strumento virtuoso di recupero competitivo che consentirebbe di superare lo sforzo di riequilibrio con inflazione zero, non possono in realtà avere alcun ruolo nel migliorare la situazione, possono anzi appesantirla. La figura 1 esemplifica in modo schematico i fattori interni che concorrono a determinare l’andamento dei prezzi. L’inflazione è tanto più bassa quanto minore è la dinamica del costo unitario del lavoro (clup) e dei margini di profitto. L’evoluzione del clup, a sua volta, è tanto più lenta quanto più contenuti sono gli incrementi retributivi e quanto più forte è la crescita della produttività. Se l’inflazione a cui si deve tendere è zero occorre che l’economia sia molto debole (output gap negativo) per comprimere la dinamica salariale sotto quella della produttività e consentire, nel settore tradable, quel trasferimento di risorse dal lavoro ai profitti che è parte del recupero competitivo.
La necessità di un’economia debole non viene meno se si realizzano riforme strutturali che incoraggiano la produttività. Anche con le riforme occorrerà sempre un ampio output gap negativo (cioè recessione e stagnazione) per frenare la crescita dei salari sostanzialmente sotto quella della produttività e giungere così all’inflazione zero. E in condizioni di economia debole l’aumento di produttività (output/occupati) che deriverebbe dalle riforme strutturali rischia di realizzarsi con cali dell’occupazione, non potendo l’output crescere quando la domanda è compressa. E’ la trappola della depressione: il lungo periodo, dove regna l’offerta, non lo si vede mai; si allungano invece indefinitamente i tempi del breve periodo, dove domina il vincolo della domanda. (…)
Fig. 1 – I fattori interni che influenzano l’inflazione
Fonte: Nomisma
(continua a leggere sul sito di Nomisma)
* capo economista Nomisma
[1] Nel regime di Bretton Woods le principali controparti erano Germania (paese in surplus) e Stati Uniti (paese in deficit), con la prima che aveva registrato a partire dagli anni ’50 una forte crescita della produttività manifatturiera rispetto ai servizi, superiore a quanto si era verificato nell’economia americana. Ciò avrebbe dovuto condurre a una maggiore dinamica dei prezzi in Germania rispetto agli Stati Uniti, cosa che però non si verificava perché le autorità tedesche comprimevano le pressioni interne su salari e prezzi aumentando i tassi di interesse, sterilizzando gli afflussi di liquidità connessi alle esportazioni e accumulando ingenti riserve estere; cfr. M. Obstfeld, “The Adjustment Mechanism”, in A Retrospective on the Bretton Woods System: Lessons for International Monetary Reform, a cura di M. Bordo e B. EIchengreen, University of Chicago Press, 1993. E’ da segnalare che nella discussione su questo paper, riportata nel volume, Vittorio Grilli, allora accademico e futuro direttore generale del tesoro e ministro dell’economia, sottolineava come l’esperienza di Bretton Woods dovesse fornire lezioni per il disegno di governance della nascente unione monetaria europea, preconizzando a tal proposito “an error in design can prove fatal in this endeavor”.
[2] Un aumento della spesa pubblica per investimenti pari all’1% del Pil dei paesi core potrebbe accrescere dello 0,4% il Pil delle economie periferiche secondo le valutazioni contenute in O. Blanchard, C. J. Erceg, J. Lindé, “Jump-Starting the Euro Area Recovery: Would a Rise in Core Fiscal Spending Help the Periphery?”, mimeo, giugno 2014.