«Il destino dell’Italia è nelle mani di Mario Draghi»

«Il destino dell’Italia è nelle mani di Mario Draghi»

Christopher Pissarides è nato a Cipro e insegna macroeconomia alla London School of Economics. In particolare, pur non essendosi mai sottratto ad analisi e studi su altri temi dell’attualità economica, si occupa di disoccupazione, tema quanto mai caldo, in Italia. È proprio grazie ai suoi studi in quest’ambito che, nel 2010, è stato insignito del Premio Nobel per l’economia. La mattina del 5 dicembre Pissaredes era a Milano, nella splendida cornice dei chiostri dell’Università Statale, per tenere una lezione della VIII Ibm Rotating Chair in Studi del Lavoro. Un contributo importante, i giorni cruciali per il mondo del lavoro italiano, nella settimana in cui il governo Renzi ha ottenuto la fiducia sul Jobs Act e la Bce si rimangia gli annunci sulle misure non convenzionali per contrastare la deflazione e la recessione.

Cominciamo da qui, prof. Pissarides. Ieri (4 dicembre 2014, ndr) ci aspettavamo che Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, annunciasse finalmente l’attuazione di misure forti per rilanciare la crescita dell’Eurozona, e invece ha gettato di nuovo la palla in avanti. Cosa ne pensa di questa difficoltà della Bce nel comportarsi come la banca centrale americana, o quella giapponese?

È frustrante. Il cosiddetto quantitative easing è un’operazione che avrebbe dovuto essere attuata ormai due anni fa, quando si era ormai capito che per l’economia europea si stavano ponendo le premesse per un periodo di deflazione. E invece ne parlano a ogni conferenza stampa, ma poi non riescono a decidersi e fanno ricorso ad altre misure molto meno d’impatto, come i T-ltro, l’acquisto di covered bonds o la riduzione del tasso d’interesse. Tutte misure corrette, che vanno nella giusta direzione, ma che sono più dei palliativi che delle vere e proprie cure Sappiamo tutti che c’è bisogno di una manovra in grado di impattare profondamente sui mercati finanziari dell’eurozona e che ne abbiamo bisogno adesso, se vogliamo vedere un effetto sull’andamento dei prezzi.

È preoccupato dalla deflazione?

Sì, ma soprattutto sono preoccupato dall’inerzia di fronte a un simile problema. Molti anni fa è stato deciso che l’obiettivo per l’Europa dovesse essere un’inflazione al 2 per cento. Una decisione nata da considerazioni assolutamente condivisibili che sono state fatte proprie dalla Bce. C’è un problema, però: mentre sembra che le regole di bilancio debbano essere rispettate alla lettera, nessuno pare interessato a rispettare l’obiettivo di crescita dei prezzi che ci siamo dati, né  tantomeno sta facendo qualcosa affinché ciò avvenga. Se i prezzi non crescono rischiamo di perdere parecchia credibilità nei confronti dei mercati finanziari.

Ancora meno di quella che abbiamo ora?

In effetti sono sorpreso che non ci sia stata un reazione ancora più negativa. La deflazione è una circostanza estremamente negativa per l’economia. E quel che è peggio è che, di fronte al pericolo della deflazione, non si comprendono le motivazioni di sostanza che possono impedire alla Banca centrale europea di immettere liquidità nel sistema acquistando titoli di Stato. Non c’è nulla di negativo in questo. Non è negativo per l’Europa e non lo è nemmeno per la Germania, che ha un’inflazione molto al di sotto del target. Se la stessa situazione di deflazione si fosse presentata ai tempi del Marco, la Bundesbank avrebbe già stampato un sacco di moneta…

Perché allora sì e oggi no?

Lo sapessi, glielo direi. Certo è che se agissero veramente nell’interesse dell’Eurozona, dovrebbero essere a favore…

Azzardo una risposta: magari la Banca Centrale Tedesca è preoccupata di ritrovarsi troppi titoli italiani nel portafoglio…

Non capisco perché debbano temere questa situazione. Se non vogliono i titoli di Stato italiani, che concentrino i loro acquisti sul Bund. Così facendo generano solo incertezza nei mercati finanziari.

Nel recente passato, lei ha espresso critiche molto dure contro l’Euro. Questa posizione origina dalla sua esperienza con la “troika” durante i salvataggi della Grecia e di Cipro?

Io non sono contro l’Euro. Io sono contro le politiche che sono state adottate nell’Eurozona. Io sono a favore dell’euro, lo sempre stato, purché la moneta unica venga gestita nell’interesse di tutti i Paesi europei. Oggi non è così, purtroppo. A causa di queste politiche, in Europa le divergenze, al posto di ridursi, stanno aumentando. I Paesi del Nord stanno guadagnando terreno e quelli del Sud lo stanno perdendo. Aumentano le differenze tra giovani e adulti nel mondo del lavoro. Insomma, le politiche dell’Eurozona al posto di unire, paradossalmente dividono.

Nel frattempo gli ultimi dati sull’occupazione statunitense sono i migliori dall’inizio della crisi ad oggi…

Non c’è esempio migliore: se i singoli Stati all’interno degli Usa sono in una situazione di forte difficoltà, il governo federale e la Federale Reserve li aiutano, per riportare il loro livello di attività verso la media degli altri Stati dell’Unione.

Pensa sia reale il rischio della fine dell’Euro e dell’implosione dell’Unione Europea?

Non penso che la rottura possa più avvenire per errori nella gestione delle crisi. Sono stati fatti passi avanti molto importanti in questo senso e quello che due anni fa era un rischio serio, adesso è decisamente ridimensionato. Ci sono infatti nuovi strumenti per supportare Paesi in difficoltà. I mercati si sono convinti della serietà della Bce nel fare tutto il possibile per salvare l’euro. Anche da un punto di vista politico, io non penso che la Germania voglia passare alla storia come il Paese che ha distrutto l’Eurozona, mandando in fumo il processo dell’integrazione europea che iniziò dopo la Seconda Guerra mondiale e che è stato possibile proprio grazie alla guida di Francia e Germania. Il problema semmai è un altro: che i leader tedeschi siano sinceramente convinti che questa sia la giusta politica economica per l’Europa.

Se il rischio di rottura dell’euro non è più significativo, è possibile invece che qualche Paese decida di lasciare l’Unione Europea? La Gran Bretagna, tanto per fare un nome…

Inizialmente, non ero molto preoccupato del referendum: i benefici dell’Unione per la Gran Bretagna sono tali che sarebbe stupido rinunciarvi. La forte crescita di Ukip, il nuovo partito indipendentista che si batte per l’uscita dall’Europa, rischia tuttavia di rendere molto più sfumato e ambiguo il messaggio di supporto alla Ue da parte dei partiti tradizionali. E quindi sono molto, molto preoccupato per l’esito finale del referendum. Penso, ad esempio, alle recenti posizioni di Cameron sull’immigrazione di cittadini comunitari: come si può pensare di bloccare la mobilità dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea? È un pilastro fondamentale, senza il quale l’Europa unita non può esistere. Che senso ha un’Unione dove le persone non possono muoversi liberamente, mentre il capitale e le merci sì? È contradditorio, non può funzionare così. Allo stesso modo, non si può non contribuire in maniera proporzionale al budget comunitario.

Nel 2015 dovrebbe diventare pienamente operativa la Banking Union in Europa. Lei ha seguito la crisi cipriota e sappiamo che i meccanismi di risoluzione delle crisi bancarie previste nella Banking Union sono in larga parte mutuati dall’esperienza fatta con le banche cipriote. Ad esempio, cosa ne pensa della possibilità di ricapitalizzare le banche attingendo anche ai depositi bancari con più di 100.000 euro?

Che sarebbe una cosa gravissima. Le istituzioni finanziarie attuali sono estremamente complesse. Non è possibile per un depositante sapere se una banca è a rischio e quanto rischio ci sia nel suo attivo. Se si toglie questa certezza, si distrugge un’economia. L’eurozona non può fare a meno di attività senza rischio. I cittadini europei non dovrebbero mai dubitare della sicurezza di un deposito bancario. C’è di più, peraltro.

Cosa?

Il costo sociale, ad esempio, che sarebbe enorme. A Cipro come altrove, sono le persone più deboli e meno ricche quelle usano il deposito bancario come veicolo primario di investimento. Nella cultura europea il risparmio è sacrosanto, il diritto ad una pensione dignitosa è sacrosanto. È ridicolo pensare di prendere i soldi ai pensionati per ricapitalizzare le banche e ripianare le perdite causate da manager avventati.

In Italia la stessa funzione è svolta anche dai titoli di Stato. Ignazio Angeloni, alto funzionario della Bce, ha dichiarato che nel codice genetico della nuova vigilanza unica che farà capo alla Banca centrale europea c’è la recisione del legame tra sistema bancario e rischio sovrano. Questo significa che i titoli di Stato diventeranno strumenti finanziari a rischio?

Su questa tesi sono, in linea di principio, più vicino alla posizione della Bce. I governi possono comportarsi in maniera irresponsabile, aumentando la spesa e indebitandosi, e non è giusto che a pagare debbano essere le banche e i loro azionisti e depositanti. Il mio problema con questa tesi è di natura pratica: se le banche non pssono più comprare titoli di Stato e devono vendere quelli che hanno in portafoglio, chi si sostituirà alle banche? I piccoli risparmiatori? I fondi pensione? Non mi sembra uno scenario plausibile…

Professor Pissarides, che cosa dovrebbe fare l’Italia per uscire dalla recessione?

Una premessa è d’obbligo: la strategia di uscita non è nelle mani dell’Italia, perché dipende dalla Banca centrale europea. L’alternativa, basata su investimenti e maggiore spesa domestica, è vincolata dai criteri di Maastricht. La politica migliore per l’Italia? Fare pressione sulla Bce perché inizi presto a comprare titoli di Stato. E convincere i partner europei che possono ad aumentare loro la spesa pubblica. La Germania, ad esempio, ha margini enormi.

Questa è la strategia di Renzi, in effetti…

È vero, ma per avere successo in Europa non basta chiedere. Renzi deve crescere in credibilità. E questo si ottiene anche con le riforme strutturali.

Che giudizio da sulle riforme di Renzi? In particolare sul Jobs Act, che è stato approvato nei giorni scorsi…

Prima di rispondere alla sua domanda, mi lasci dire che tutti i Paesi hanno bisogno di riforme strutturali, anche la Germania. La Germania ha fatto riforme del mercato del lavoro nel 2002-2005, ma non ha riformato il settore dei servizi, che è altamente regolamentato. Non a caso non c’è una Silicon Valley in Germania ed il settore finanziario è arretrato rispetto a quello anglosassone. Quindi, abbiamo tutti bisogno di riforme strutturali. Forse l’Italia e la Grecia ne hanno bisogno più di altri. L’importante è avere chiaro l’obiettivo.

Secondo lei il Jobs Act ha centrato l’obiettivo?

È un primo passo importante nella giusta direzione. Offre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro è un po’ di sicurezza in più che il tenore di vita sia dignitoso durante i periodi di inattività. Si poteva fare meglio, certo, ma bisogna d’altro canto tenere conto dell’incertezza politica e delle resistenze che incontrano riforme così radicali.

Rimane il fatto che in Italia abbiamo tassi di disoccupazione da record. Non è strano? I progressi tecnologici messi a disposizione dalla diffusione di Internet, l’abolizione delle barriere nazionali alla mobilità nella Ue, i minori costi di trasporto: tutte cose che avrebbero dovuto ridurre il “tasso naturale di disoccupazione”. Perché in Europa – e soprattutto in Italia – sembra essere successo il contrario?

Non sono d’accordo che il tasso naturale di disoccupazione stia aumentando. Penso invece che sia rimasto stabile o si sia leggermente abbassato. Ma lei ha ragione nel dire che l’innovazione non si è tradotta in un effetto immediatamente positivo per l’occupazione. Il mercato del lavoro funziona ancora come trenta o cinquant’anni fa. E questo è dovuto al fatto che i fattori che entrano nella decisione di assumere una persona o di scegliere un lavoro sono troppo complessi e personali, per consentire ad Internet di esercitare una funzione rivoluzionaria nell’attività di search & match. La foto e il Cv non bastano oggi, come non bastavano trent’anni fa. Servono osservazioni personali dirette, colloqui, interviste con uffici diversi. Anche per il lavoratore, oltre alla mansione e allo stipendio, sono importanti fattori di difficile valutazione e quantificazione come l’ambiente di lavoro, la location eccetera. Internet non è ancora in grado di trasferire queste informazioni e, da questo punto di vista, non è molto meglio dei vecchi annunci sui giornali.

Quanti anni dobbiamo aspettare per vedere l’Italia fuori dalla crisi?

Se per superamento della crisi si intende un tasso di crescita superiore a zero, nel 2015 dovrebbe essere possibile. Il problema, tuttavia, è il tasso di crescita potenziale dell’economia italiana, che è fermo all’1 per cento. Negli ultimi vent’anni l’Italia non ha mai avuto periodi di crescita robusta, come invece è capitato ad altri Paesi europei. Quindi, quanti anni sono necessari per tornare a crescere in maniera stabile e robusta, anche sopra l’1%, ad esempio al 2 per cento? Per questo è necessario vedere i risultati delle riforme. E le riforme strutturali hanno bisogno di almeno quattro anni per dare i propri frutti. 

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter