Il Venezuela è sull’orlo della bancarotta

Il Venezuela è sull'orlo della bancarotta

Cinque capi al mese. Il cliente entra nel negozio, si registra, riceve un numero e compra. Cinque capi, non uno di più. In una parola, razionamento, come se jeans e magliette fossero beni di prima necessità, accanto a latte, farina, zucchero, riso. Succede a Caracas, anno domini 2014. Si razionano i prodotti alimentari, grazie a un sistema basato sulle impronte digitali. E si razionano i vestiti del marchio che rappresenta la quintessenza del low cost, Zara. La valuta locale crolla, ma i beni importati dalla multinazionale spagnola godono del tasso agevolato previsto per i prodotti di“máxima prioridad”. Stabilità del cambio e prezzi calmierati. Risultato, gli stock si stanno esaurendo e Zara ha dovuto imporre un tetto agli acquisti.

Stranezze di un Paese sull’orlo della bancarotta. In Venezuela comincia a scarseggiare tutto, persino la carta igienica, e prospera, ovviamente, il mercato nero, in cui il dollaro viene scambiato a un tasso molto più alto di quello ufficiale, che è di 6,3 bolivares per dollaro (Francisco Rodriguez, della Bank of America, parla addirittura del 1700 per cento in più). Marinellys Tremamunno, una giornalista venezuelana che ha lasciato il suo Paese cinque anni fa, oggi corrispondente da Roma della tv messicana Cadena Tres, racconta che la sua famiglia, rimasta in patria, ha dovuto cambiare regime alimentare: i frigoriferi dei supermercati sono vuoti, la carne si è trasformata in un bene di lusso.

Assurdo, per chi possiede le riserve di petrolio più grandi del mondo. Ennesimo capitolo della saga “maledizione delle risorse”: un Paese dotato di grandi quantità di una materia prima fondamentale, pensando di contare su una rendita costante, non diversifica la propria economia e resta totalmente dipendente da un solo prodotto (per il Venezuela il petrolio rappresenta il 96 per cento dell’export e più del 60 per cento del budget statale). Quando il mercato relativo a quel prodotto subisce uno scossone, non esiste un piano B per evitare il crollo.

Al Venezuela servirebbe un prezzo internazionale del petrolio di 117 dollari al barile. Al di sotto di quella cifra, si crea un buco di bilancio. Adesso, invece, quel valore oscilla intorno a quota 60 dollari. L’ultimo vertice Opec di Vienna, a fine novembre, non ha prodotto i risultati attesi da Caracas: ha vinto la linea saudita e non c’è stato alcun taglio della produzione, per cui il prezzo continua a cadere. La situazione macroeconomica è disastrosa. Il deficit, tra il 15 e il 20 per cento del Pil, è stato finanziato stampando moneta. L’inflazione ha superato il sessanta per cento e minaccia di raggiungere quote a tre cifre. Un’obbligazione, in scadenza ad ottobre, della compagnia petrolifera statale Pdvsa è stato pagata all’ultimo momento e nei prossimi tre anni il Paese dovrà rimborsare ben dieci miliardi di bond, ragione per cui la business community si comincia a chiedere se il Venezuela riuscirà ad onorare i propri debiti.

Il presidente Nicolàs Maduro ha annunciato una riforma fiscale (leggi aumento delle tasse) per fare fronte al deficit. Oltretutto, nel 2015 si vota il rinnovo del Parlamento e il partito al governo intende aumentare la spesa pubblica come arma elettorale. È previsto, tra l’altro, l’aumento dell’aliquota sull’acquisto dei prodotti di lusso e quello, drastico, dell’imposta sugli alcolici. La legge sui “prezzi equi” punirà con la confisca tutti i beni venduti con un margine di guadagno maggiore rispetto a quello stabilito dal governo, circa il trenta per cento. I sussidi alla benzina, che a Caracas costa meno dell’acqua, non verranno toccati, per evitare tensioni sociali. Insomma, provvedimenti dirigisti che ben difficilmente favoriranno l’iniziativa privata.

Basterà? Tra gli analisti di Wall Street l’impressione è che nel 2015 il Venezuela riuscirà ad evitare il default, anche se un prezzo internazionale del petrolio costantemente inferiore ai 60 dollari al barile potrebbe far precipitare gli eventi. La grande finanza ha notato alcune mosse di Maduro. La già citata riforma fiscale. La decisione di ridurre le forniture a Cuba e ad altri Paesi dei Caraibi, con cui Caracas ha stipulato accordi particolari (il programma Petrocaribe e l’intesa con L’Havana avviata da Chavez e Castro, una sorta di “Oil for doctors”, oro nero in cambio di personale medico, che in Venezuela scarseggia), in modo da risparmiare tre miliardi di dollari l’anno. La cancellazione o il rinvio di costosi programmi infrastrutturali. La rinegoziazione dei termini del prestito finanziario fornito dalla Cina, ormai il banchiere di Caracas. Altro fattore: Maduro non puòpermettersi un default. Il suo indice di popolarità è basso, intorno al trenta per cento, e a differenza di Hugo Chavez, in un certo senso una figura cristologica – non a caso il giornalista Enrique Krauze, giornalista messicano, collaboratore del New York Times, lo chiamava il “Redentor”, mix di caudillismo e spirito missiona rio – non potrebbe attraversare senza problemi una simile tempesta.

Il Venezuela è uno dei tanti teatri del grande gioco geopolitico tra Stati Uniti e Cina, che assommano più della metà dell’export petrolifero. Negli ultimi anni, gli atteggiamenti delle due potenze paiono speculari: mentre Washington si allontana progressivamente da Caracas, Pechino si avvicina, anche se con giudizio.

Tutto ruota, ovviamente, intorno al petrolio. Fu dopo la scoperta delle grandi riserve del bacino dell’Orinoco, che il Venezuela conquistò un primato in termini di potenzialità energetiche. Tuttavia, come ricorda Matt Ferchen, del Carnegie Endowment for International Peace, il petrolio dell’Orinoco ha caratteristiche particolari – è molto pesante – il che implica maggiori costi finanziari ed ambientali. Insomma, è più difficile da estrarre, trasportare e raffinare. Sembra assurdo, ma, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, il Venezuela è solo il dodicesimo produttore del mondo e il nono esportatore (e la produzione è caduta dai 3,5 milioni di barili al giorno del 1997 ai 2,5 milioni degli ultimi tempi).

A metà anni Novanta, spiega Ferchen, il Venezuela era il Paese da cui gli Stati Uniti importavano più petrolio di tutti (venti per cento del totale) e le raffinerie del Texas e della Louisiana erano state adattate alle sue caratteristiche. La Citgo, braccio commerciale della Pdvsa, aveva una presenza importante nel mercato americano. Poi arrivò il chavismo: i rapporti con gli Stati Uniti si fecero difficili, per usare un eufemismo, ma il Redentor sfruttò l’alto prezzo dell’oro nero per lanciare i suoi programmi sociali, soprattutto nelle campagne.

Oggi l’import americano dal Venezuela è calato notevolmente (sostituito in parte dallo shale oil autoctono o dalle sabbie bituminose del Canada), ma il caro nemico di Caracas resta pur sempre il quarto fornitore di petrolio per gli Stati Uniti. Le major americane hanno dovuto affrontare grandi battaglie legali in Sudamerica e Maduro sta cercando di vendere la Citgo, ma il quaranta per cento dell’export venezuelano, malgrado la volontà di diversificare i compratori, continua a prendere la direzione di Washington. E la Cina?

Al di là della retorica, le intese con Chavez prima e Maduro poi nascono dalla necessità di Pechino di alimentare la propria crescita economica. Questa fame di energia ha portato a fare spesa petrolifera un po’ ovunque: se a metà degli anni Duemila la Cina importava meno di 50.000 barili al giorno dal Venezuela, adesso quella cifra è salita a 300.000. Nella graduatoria dei fornitori di Pechino, Caracas si piazza al settimo posto (5,5 per cento). L’export di petrolio venezuelano verso la Cina, invece, ammonta al quindici per cento del totale (una quota, dunque, molto inferiore a quella americana). Le forniture petrolifere sono la garanzia dei prestiti bancari concessi dal Dragone, attraverso la China Development Bank, indispensabili per la sopravvivenza del regime.

Pechino non vuole certo recitare la parte del filantropo. Negli ultimi mesi c’è stata una rinegoziazione dei prestiti, ma Pechino comincia a vedere nel Venezuela, con il suo vetusto sistema produttivo (nefasta eredità del chavismo, che non ha mai investito nell’ammodernamento tecnologico), un partner inaffidabile. Gli obiettivi commerciali programmati non sono stati raggiunti e sempre più Paesi possono fare concorrenza a Caracas, nel costruire un rapporto privilegiato coi cinesi. Maduro può dunque contare su Xi Jinping per evitare il default, ma solo fino a un certo punto.

Il presidente ha evocato, senza troppa originalità, il complotto straniero: il crollo del prezzo del petrolio, il boom dello shale, i giudizi delle agenzie di rating sarebbero la trama un complotto contro il suo governo. È stata addirittura avviata un’indagine contro una leader di opposizione, Maria Corina Machado, accusata di avere cospirato assieme all’ambasciatore americano in Colombia per assassinare Maduro.

Il Paese è sull’orlo del precipizio, ma non c’è aria di rivolte sociali. Spiega ancora la Tremamunno: “I venezuelani si sono quasi abituati a vivere male, anche perché si è trattato di un processo lento, di una discesa progressiva. Ma soprattutto hanno paura. Temono la repressione della polizia, temono l’esercito, vicino al governo, temono i colectivos, i gruppi paramilitari, talmente potenti da avere imposto il cambio di un ministro”. Il Venezuela post-chavista è un po’ uscito dai radar dei media internazionali, fatta eccezione per gli scontri dello scorso febbraio. Attraverso i social – hashtag #SOSVenezuela – Marinellys continua a lanciare l’allarme sul crack imminente : “Come giornalista, provo grande amarezza. Cinque anni fa ho deciso di lasciare il mio Paese, anche perché era troppo rischioso continuare a fare questo mestiere. Non c’è libertà di stampa e in questo senso i social network possono aiutare. Come venezuelana, vivo questa storia con grande frustrazione. Siamo arrivati al limite, prima o poi la situazione scoppierà. Gennaio potrebbe essere un mese a rischio. C’è l’abitudine a spendere molto per Natale e con il nuovo anno ci si ritroverà più poveri di prima”.

Intanto, come ha rivelato un’indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le condizioni sanitarie del Paese continuano a peggiorare: nel 2013 si sono verificati 76.621 casi di malaria, soprattutto tra gli uomini nella fascia tra i 15 e i 44 anni. Un numero altissimo – 50 anni fa la stessa Oms aveva dichiarato fuori pericolo malaria il settanta per cento del territorio venezuelano – dovuto alla crescita delle attività illegali di sfruttamento delle miniere d’oro, soprattutto in Amazzonia. Le alte quotazioni del metallo inducono molte persone ad andare a caccia di pepite, ma i paludosi ambienti minerari sono il brodo di coltura ideale per la malattia: il “socialismo del XXI secolo” rischia un contrappasso chapliniano.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club