Italia ed Europa stanno solo rimandando i problemi

Italia ed Europa stanno solo rimandando i problemi

Niente di nuovo sul fronte occidentale, si possono parafrasare così  le conclusioni dell’Eurogruppo dedicate ieri all’Italia. Anche se ai media e a tanta parte della politica italiana piace usare toni stentorei sulla politica europea, dipingendola come un consesso di unni profittatori ai danni di noi latini vittime incolpevoli, in realtà anche l’8 dicembre (all’Eurogruppo, ndr) tutto è andato come il ministro Pier Carlo Padoan da alcuni mesi spera e riesce a ottenere che vada.

In sintesi: l’Italia non rispetta le regole ma non viene sanzionata; nel frattempo resta piantata, perché anche questo governo ha commesso errori ma non li ammette; anche l’Europa non rispetta le regole che si è data ma ora chiude un occhio; il che significa che di regole non ne esistono più se non per finta; tutti sperano in Draghi e a seconda dei punti di vista lo accusano di troppo o troppo poco coraggio; ma la politica continua fare quel che quasi sempre ha fatto: traccheggia ognun per sé e ciascuno pensando ai casi suoi, alla prima crisi finanziaria internazionale pronta a dare la colpa al Nord o al Sud Europa a seconda delle rispettive convenienze.

L’Italia non rispetta le regole ma non viene sanzionata anche l’Europa non rispetta le regole che si è data ma ora chiude un occhio

In Italia si brinda a tutto questo, perché la minchioneria è sport nazionale: di chi si spaccia per pro Europa affossandone le regole, e di chi ormai dà all’euro e alla Merkel anche la colpa della propria stipsi. Inizio a provare una netta preferenza  per chi le regole ammette esplicitamente di volerle cambiare dalla a alla z, rispetto a chi le inabissa brindando senza sostituirne di nuove, come al solito dimenticando che siamo espostissimi a ogni stormir di fronde di crisi finanziaria.

Dall’inizio dell’estate si è capito che, in vista della legge stabilità e del suo esame da parte dell’Europa, la linea era di non attenersi alla lettera degli impegni 

In cosa Renzi-Padoan la spuntano? Dall’inizio dell’estate si è capito che, in vista della legge stabilità e del suo esame da parte dell’Europa, la linea era di non attenersi alla lettera degli impegni di miglioramento del deficit pubblico, inascoltati già dalla legge di stabilità del governo Letta, e accresciuti con l’ulteriore conferma di un 2014 anch’esso di recessione. Il governo ha puntato su due pilastri. Il primo: le riforme, il cui effetto sul Pil non è immediato ma va contemplato come leva per accrescere il Pil potenziale, caduto in Italia più che dovunque nell’euroarea. Il secondo: un calcolo diverso, su base statistica, proprio del modo in cui la Commissione europea calcola la differenza tra Pil reale e Pil potenziale: su questo il team di Padoan si è esibito al meglio nella nota di aggiornamento del Def di fine ottobre, proponendo parametri molto diversi da quelli della Ue. Ma di fatto l’Italia ha avanzato quest’obiezione per sé, non ha avuto il fegato di porla al centro del suo semestre di presidenza Ue come modifica dei criteri europei.

Dal primo pilastro discendono i magri tagli di spesa pubblica nel 2014, la liquidazione dell’inascoltato Cottarelli, l’assenza sino a questo momento di tagli energici anche nella legge di stabilità per il 2015. O meglio: quel po’ misure di contenimento della spesa a ministeri, Regioni e Comuni, lineari e senza scelta di riduzione del perimetro e delle funzioni pubbliche sovrapposte, non servono a migliorare il deficit ma a finanziare una parte dei nuovi interventi, dal taglio dell’Irap alla conferma del bonus 80 euro, mentre l’altra parte resta finanziata a deficit. Per chi qui scrive, un elenco di errori: i mancati tagli, il non aver concentrato risorse su meno Irap sin dall’inizio, continuare a disperderle a pioggia come sui nuovi assunti sostitutivi, invece di concentrarle sui soli addizionali.

Il team di Padoan è riuscito a proporre calcoli diversi rispetto alla Commissione sulla differenza tra Pil reale e Pil potenziale

Dal secondo pilastro discende invece una scommessa politica: rendere tecnicamente impossibile alla Germania, e ai paesi nordeuropei che condividono la sua linea, l’apertura di un’infrazione all’Italia per mancata attuazione del two pack e six pack, cioè degli impegni a raggiungere a breve termine l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo e l’inizio di un rientro energico del debito pubblico.

Ebbene, la scommessa del governo è sostanzialmente vinta. L’Eurogruppo – i ministri dell’Economia dell’euroarea – formalmente condivide il giudizio della Commissione Europea, e cioè che l’Italia dovrebbe nel 2015 correggere il deficit di un altro mezzo punto di Pil e non solo dello 0,1%, come indicato dalla legge di stabilità per restare sotto il limite del 30%. Ma l’Eurogruppo non chiede prescrittivamente all’Italia una correzione alla legge di stabilità o una manovra di primavera. Esplicitamente fa propria la linea Renzi-Padoan, e cioè che tale risultato si può ottenere anche accelerando l’attuazione di riforme oggi varate solo per legge delega e in attesa dei decreti attuativi, come il Jobs Act. E accelerando ulteriormente su nuove riforme, il più possibile rapide nell’entrare in vigore.

La vittoria italiana riavvita l’Europa in una nuova contraddizione: le regole non ci sono più e l’Europa naviga a vista

Solo che la vittoria italiana riavvita l’Europa in una nuova contraddizione. Durissima ieri con Grecia, Portogallo e Spagna, l’Europa non lo è con noi e francesi. Di fatto, senza un nuovo accordo esplicito su un set di nuove regole condivise, quelle vecchie – il fiscal compact – non ci sono più e l’Europa naviga a vista. Auguri.

Si dirà che la Francia ci fa da scudo, visto che noi sia pur a fatica – ed è tutto da vedere quanto avverrà nel 2015 – restiamo sotto il 3% di deficit pubblico, mentre Parigi non pianifica di scendervi sotto prima del 2017. Si aggiungerà che a fare la differenza è l’abbattimento delle attese di crescita dell’intera euroarea nel 2015 – la Bce è scesa dall’1,6% all’1% la settimana scorsa – dovuta al rallentamento molto forte della Germania per prima, sotto l’effetto della crisi russo-ucraina. Quel che si voglia: ma la discrezionalità non è una regola.

La politica italiana non creda di aver risolto alcunché

Ora bisogna sperare in due cose. La prima è che la politica italiana – la maggioranza ma anche la destra, che da una parte urla contro l’Europa e dall’altra dimentica la sua pesante eredità ai governi successivi – non creda di aver risolto alcunché. Certo, se fosse venuta la procedura d’infrazione il governo per primo avrebbe rifiutato di sottostarvi, con un’inevitabile ulteriore peggioramento della fiducia residua italiana verso l’euro e l’Europa. Ma la crescita resta sotto zero, il debito continua a crescere, le tasse restano altissime. Ed è un mistero di Pulcinella, che nel 2015 il deficit arriverà ben oltre il 4% se non al 5% del Pil. Bisognerà insistere per anni, per svoltare davvero pagina.

La seconda è che dal sostanziale ok europeo all’impostazione del governo – inabissare allegramente le regole europee – e da vicende come il disastro pubblico emerso dalle indagini in corso a Roma, si produca comunque l’effetto positivo di una scossa elettrica di operatività. I decreti attuativi del Jobs Act servono in poche settimane. L’intervento energico promesso da Renzi questo fine settimana per tagliare le 10mila partecipate locali serve subito, e già lo si poteva fare con Cottarelli: ma oggi, rispetto ad aprile scorso, se la casta politica resistesse sarebbe travolta.

Il prezzo del petrolio sceso del 42% da giugno è una formidabile spinta di crescita, per chi la sa utilizzare

E in più: il prezzo del petrolio sceso del 42% da giugno è una formidabile spinta di crescita, per chi la sa utilizzare. Rispetto a un Pil mondiale superiore ai 70 trilioni i dollari, si calcola che liberi risorse per 1,5 trilioni a vantaggio di un minor prezzo per imprese e famiglie, e quasi l’equivalente in termini di minor costo per le lavorazioni energivore, nella metallurgia e industria di base. L’Italia, che ha un tasso di dipendenza energetica superiore al 75%, a oggi non è in condizione di “scaricare” questa molla potente sulle ruote della sua crescita. Perché il 60% di accise e Iva rispetto al prezzo alla pompa dei combustibili osta al trasferimento di buona parte del minor costo industriale nelle tasche di imprese e famiglie. Ci pensi, il governo: il momento buono di un drastico taglio al fisco energetico è oggi, approfittando del basso costo del barile. Ne potrebbe venire una crescita addizionale a breve maggiore che dal bonus 80 euro.

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