Jobs Act e licenziamenti: il nodo degli indennizzi

Jobs Act e licenziamenti: il nodo degli indennizzi

Il Jobs Act sta entrando nella fase più importante e delicata, quella della stesura dei decreti attuativi. La revisione dell’art. 18 non esaurisce le varie misure contenute nel Jobs Act, ma ne rappresenta il cuore. Pur essendo in linea di principio favorevoli alla sostituzione della tutela reale del reintegro con un indennizzo monetario, riteniamo che sia fondamentale il modo in cui tale sostituzione verrà tecnicamente realizzata.

C’è infatti è una contraddizione tra l’equità dello scambio tra reintegro e indennizzo (che spinge per un indennizzo alto) e l’incentivo all’utilizzo del contratto a tutele crescenti (che spinge per un indennizzo basso). In altre parole: le richieste di alcuni giuslavoristi sono per un livello nullo o quasi dell’indennizzo nei primi anni di vita lavorativa e di un livello massimo molto basso. Insomma, un passo indietro considerevole non solo sul fronte del reintegro ma anche sul quantum dell’indennizzo, previsto dalla riforma Fornero di due anni fa.

La riforma Fornero ha individuato un indennizzo minimo in caso di licenziamento individuale ingiustificato e lo ha posto pari a dodici mesi. Si tratta di un indennizzo ragionevole per un lavoratore con lunga anzianità aziendale, ma chiaramente di un valore troppo alto per un lavoratore giovane assunto da poco. Un indennizzo, insomma, che scoraggia l’uso del contratto a tempo indeterminato per i neo assunti. Il nuovo contratto si chiama a tutele crescenti proprio perché stabilisce una relazione crescente tra l’anzianità del lavoratore e l’indennizzo evitando lo scalino dei dodici mesi della Fornero.

«Perché allora non partire da un indennizzo pari a zero per i neo assunti per poi farlo crescere di una mensilità all’anno?», pensano alcuni. Sarebbe un incentivo all’utilizzo del contratto a tempo indeterminato invece del contratto a termine, esattamente quello che la riforma vuole ottenere. Tuttavia sarebbe un errore perché porterebbe ad un eccessiva precarizzazione del contratto. In connessione con gli incentivi monetari previsti per il prossimo anno, un indennizzo troppo basso per i neo assunti porterebbe alla percezione che le aziende assumono con incentivi generosi e possono poi licenziare con indennizzi molto miseri. È vero che l’indennizzo finisce nelle tasche del lavoratore e quindi c’è un guadagno per entrambi, l’impresa paga meno di contributi e il lavoratore prende l’indennizzo, ma per il lavoratore è troppo poco. In alternativa, è molto meglio di un contratto a termine in cui non prende nessun indennizzo, ma è molto peggio di un vecchio contratto a tempo indeterminato in cui con la minaccia del reintegro e dei 12 mesi di indennizzo in caso di giudizio, prendeva il più delle volte la stessa cifra in sede di conciliazione volontaria.

Il giusto compromesso sembra essere quello di iniziare da due o tre mesi di indennizzo fisso invece che da zero per i neo assunti. D’altra parte un costo non nullo del licenziamento individuale è nell’interesse sia della corretta gestione aziendale sia del progetto di vita di un giovane lavoratore.  Si dimentica spesso che la selezione e l’assunzione sono un processo complesso in cui entrambe le controparti fanno un investimento importante. Gli errori si possono fare e per evitare quelli più grossolani esiste già una tutela per l’azienda, che è rappresentata dal periodo di prova, entro il quale l’azienda può liberamente licenziare il dipendente. Tuttavia, il periodo di prova non può di fatto durare anni a causa dei costi irrisori del licenziamento. Se l’indennizzo fosse di una mensilità all’anno a partire da zero, dopo tre anni il datore di lavoro potrebbe licenziare senza giustificato motivo il proprio dipendente, riconoscendogli solo tre mensilità. Per una retribuzione lorda di 26.000 euro l’anno, vorrebbe dire un indennizzo di 6000 euro dopo tre anni di permanenza nell’azienda, con l’aggiunta di alcuni costi minori.

È evidente che con una penalità così bassa, l’azienda può permettersi di affrontare il processo di selezione e assunzione con superficialità, senza una attenta valutazione delle prospettive del business e della necessità di quella specifica figura. Peccato, però, che un licenziamento nella parte iniziale della carriera, dopo aver magari investito gli anni più creativi e formativi della propria vita professionale in un progetto mal concepito, significa compromettere per sempre le possibilità di carriera di un giovane. Quando il lavoratore si ripresenterà sul mercato, chi sarà in grado di capire se il problema del suo licenziamento senza giusta causa dipende dallo scarso rendimento o dalla superficialità dell’azienda che lo ha assunto?

Il tema dell’equità dell’indennizzo si riproporrà in termini più drammatici fra una ventina d’anni, quando gli attuali neoassunti inizieranno ad entrare nella fase più critica della loro carriera lavorativa.  A quell’età la specializzazione acquisita rende complesso un reinserimento e l’età della pensione è ancora troppo lontana per pensare ad una soluzione di ripiego. Un tetto massimo di dodici mensilità, come alcuni propongono, sembra troppo basso rispetto al danno subito, anche qualora l’erogazione dovesse risultare esente da Irpef. Un valore di ventiquattro mesi, sarebbe più giusto anche perché, essendo esente da Irpef, aiuterebbe il lavoratore a gestire periodi anche lunghi di inoccupazione. Ricordiamo che stiamo parlando di licenziamenti individuali senza giustificato motivo, dove quindi il deterioramento produttivo del lavoratore non è così significativo da poter essere provato in maniera oggettiva.

D’altro canto, rispetto all’opzione del reintegro, ventiquattro mensilità di indennizzo massimo appaiono un buon compromesso anche per l’azienda. Il valore economico del reintegro, a parità di valore aggiunto prodotto, è dato dal valore attuale della differenza tra il costo del lavoratore licenziato e il costo del lavoratore che può sostituirlo. Il valore attuale va calcolato non sul passato (come implicitamente assume la formula basata sulla crescita dell’indennizzo in base all’anzianità aziendale) ma sul futuro, cioè sugli anni che separano il lavoratore dalla pensione. Se l’indennizzo da pagare fosse trentasei mensilità ad un’azienda converrebbe licenziare un dipendente di 50 anni a diciassette anni dalla pensione, se il costo del lavoro del nuovo dipendente fosse del 18% inferiore. Ma se per un cinquantenne l’indennizzo fosse solo pari a dodici mesi di retribuzione, basterebbe un gap del 6% tra il suo “costo” e quello di un neo-assunto per iniziare a giustificarne “economicamente” il licenziamento.

È chiaro che stiamo passando ad un nuovo regime, ma non possiamo scaricare sulla società e sulle famiglie problemi sorti all’interno dell’azienda e che all’interno dell’azienda potrebbero essere tranquillamente risolti con un po’ di applicazione manageriale. 

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