Gli esponenti di Mafia Capitale hanno l’ossessione degli infami. Li disprezzano, li temono, li allontanano. Ma ne parlano continuamente. Nelle intercettazioni ambientali dei carabinieri la figura dell’infame torna spesso. Un’etichetta scomoda, che nel mondo di mezzo di Carminati è meglio non vedersi affibbiata. Secondo le regole non scritte dell’organizzazione criminale è un marchio pericoloso. Nella migliore delle ipotesi si rischia l’isolamento, nella peggiore una punizione. Alcune conversazioni rubate non lasciano troppo spazio all’immaginazione: «Ao, spaccamolo che quello è un infame», «Ammazzamolo di botte st’infame»… I Ros che indagano su Mafia Capitale ne restano colpiti. Tanto da dedicare una parte dell’informativa trasmessa alla Procura proprio a questo argomento. «L’infame – scrivono gli investigatori – è il soggetto che non rispetta l’omertà intesa come mancanza di collaborazione con le istituzioni e per tale motivo viene disprezzato e punito». Una norma non codificata, eppure ben chiara a tutti quelli che frequentano il gruppo criminale. Tanto che «mai, nelle corso delle investigazioni, è stato riscontrato che alcuno abbia presentato una denuncia contro le malefatte subite».
Nel concetto di infamità che si respira nella Roma criminale non mancano alcuni aspetti paradossali. Mafia Capitale fa affari con la politica, coltiva rapporti con esponenti delle forze dell’ordine. Eppure i protagonisti evitano attentamente di farsi vedere in compagnia di qualche “guardia” per timore di essere considerati degli infami. Gli investigatori si soffermano sulla figura di Riccardo Brugia, ex Nar e braccio destro di Carminati. Quando un appartenente dell’Arma dei Carabinieri lo contatta per un incontro, Brugia si rifiuta. Non è preoccupato dal confronto con il militare, ma dalla possibilità che qualcuno possa vederli assieme. Il vero rischio è che una volta notato in compagnia dello “sbirro” possa diventare anche lui un infame.
Il concetto viene chiarito meglio in un’altra occasione. Stavolta il protagonista è Matteo Calvio. Un altro componente del gruppo, che secondo gli investigatori ha instaurato un rapporto di collaborazione con un militare della Guardia di Finanza. È il dicembre 2013 quando i Ros intercettano una conversazione particolare. Nei pressi del distributore di benzina Eni di Corso Francia, Calvio «evidentemente conscio della pericolosità dell’atteggiamento che avrebbe tenuto, si rivolgeva a Carminati e Brugia per discutere della questione e richiedere l’autorizzazione a operare». Entrambi sconsigliano il sodale dal proseguire la collaborazione. A frequentare “le guardie” si rischia di pagare in prima persona qualche errore. «Mica penserai di fa il furbo con loro? – gli spiega Carminati – Quelli so più furbi di me e te messi insieme». Ma soprattutto c’è un altro timore. All’esterno del gruppo come potrebbe essere percepita questa frequentazione? Essere considerati degli infami è la conseguenza peggiore. «Un domani magari …inc… che magari mannano a dì: “Oh… attenti che c’avete l’in… l’infiltrato da Finanza». Un’etichetta che avrebbe finito per macchiare la reputazione dell’intera organizzazione.
Gli infami sono ovunque. Alcuni collaborano con le forze dell’ordine, altri cercano di incastrare gli esponenti di Mafia Capitale. In un’altra intercettazione Carminati se la prende con un avvocato – di cui gli investigatori non trascrivono l’identità – che spinge il suo assistito ad accusare l’ex Nar davanti all’autorità giudiziaria. «Un infame che gli continua a dì – si lamenta il Nero – guarda se vuoi uscire da questa storia devi accusare Carminati». Nella filosofia della banda, anche il legale entra a pieno titolo nella categoria degli infami. In questo caso l’insulto riguarda «quei soggetti “non omertosi” – spiegano i carabinieri – che non rispettavano le regole basilari di omertà derivanti dal trovarsi al cospetto del sodalizio». Il reato di associazione di stampo mafioso nasce anche da queste dinamiche. «L’assoggettamento e l’omertà – si legge – sono due dirette conseguenze della forza d’intimidazione espressa dal sodalizio mafioso».
E poi ci sono gli infami responsabili di alcuni arresti. Come “Giovannino il miliardario”, uno che «ha fatto beve la gente». Stando all’informativa del Ros, in passato Carminati ha avuto modo di leggere alcune dichiarazioni rilasciate dal soggetto. Ed è certo della sua responsabilità nel fermo di alcune persone. Così, in un’intercettazione ambientale, l’ex Nar avverte un altro esponente del gruppo dei rischi derivanti dal frequentare «un infame fracico». È importante isolare “Giovannino” ed evitare con attenzione qualsiasi rapporto. «Quello magari ti accolla qualcosa». Ma ovviamente l’emarginazione non è l’unica punizione. In altre conversazioni c’è persino chi ipotizza una spedizione punitiva nei confronti del delatore. In ogni caso, gli infami vanno riconosciuti e additati come tali. «Prassi comune e linea di condotta espressa dal sodalizio – scrivono gli investigatori – era quindi quella di avvisare tutti i sodali della presenza di “infami” tra le proprie conoscenze, anche allo scopo di ribadire le regole dell’associazione e rimarcare la forza d’intimidazione della stessa».
Infami, spie. Collaboratori di giustizia. La mitologia del personaggio è vasta e affonda le radici nella vita di strada. Un’etichetta ancora viva in particolari contesti, non ultime le carceri. Qualche anno fa aveva approfondito la questione lo stesso Salvatore Buzzi, direttore della cooperativa 29 giugno e altro protagonista dell’inchiesta su Mafia Capitale. In un’intervista del 1994 al periodico “Una città” parlava, tra le altre cose, della fenomenologia del delatore dietro le sbarre. «La delazione – queste le sue parole – contraddice una regola ferrea che uniforma tutto l’universo carcerario: non collaborare con la giustizia. Se la violi, sei al di fuori della comunità. Merita invece grande rispetto chi sta dentro senza mai aver fatto i nomi dei complici». Un principio condiviso. «Questa mentalità non cambierà mai – raccontava ancora Buzzi – E per me, tutto sommato, non fare il delatore non è un valore negativo».