Era il 1954 quando la signora Fallaci, inviata dell’Europeo, metteva piede per la prima volta negli Stati Uniti. Aveva venticinque anni ed era ben decisa a sollevare quello che lei riteneva un velo sulla mondanità hollywoodiana, colorendo la vicenda della personalissima vena di egocentrismo che l’avrebbe caratterizzata per gli anni a venire. Era un’inventrice di storie, ma questo aspetto sarebbe diventato evidente ben più tardi lungo la sua carriera, e aveva tutta l’intenzione di rendere suo un posto talmente lontano dalla Firenze negli anni Cinquanta che nessuno si sognava di metterne in dubbio la veridicità. Quello che è risultato dal primo incarico all’estero di Oriana Fallaci si chiama I sette peccati di Hollywood e, malgrado tutto, è ancora oggi un libro ricercato e fondamentale. L’inizio perfetto per il profilo di qualcosa che non esiste quasi più.
La curiosità e l’estraneità, sono le due caratteristiche che fanno di un giornalista un buon corrispondente. Curiosità verso il sentito dire, apertura al mondo e ricettività disinibita, sfacciata, scatenata. Estraneità all’elemento sociale, per lasciare che ogni aspetto dell’ambiente risulti immediatamente e profondamente toccante. Come qualcosa con cui si viene a contatto per la prima volta, con il rischio calcolato di forzare la mano. Fallaci andava a cercare Marilyn o fingeva di farlo, perché l’obbiettivo distante le permettesse di attraversare un ecosistema a cui non era preparata e rilevarne il sapore pungente, sotto le maglie di dolcezza glassata che erano l’immagine della Los Angeles del cinema dispensata dai giornali. Lo faceva da sola, circondata dei nomi che poi avrebbero riempito i suoi articoli e le pagine dei suoi libri, non amici ma nemmeno estranei, perché la sua solitudine era la caratteristica che teneva in piedi la sua visione. Così sarebbe stato per Tiziano Terzani qualche anno dopo in Asia, e così è stato per i corrispondenti all’estero in un tempo in cui aveva ancora senso parlarne.
Michael Herr scriveva su Esquire nel 1967, quando ha deciso di immergersi nella pazzia del Vietnam. Il suo lavoro al fronte ha acceso la miccia per quello che sarebbe diventato il processo di condanna della “guerra infame”. Herr si infilava nelle buche a fumare erba con i soldati di prima linea, guardava i chopper schiantarsi al suolo mentre si trovava su un elicottero del tutto simile a quello appena abbattuto, sedeva nelle stanze con i generali che tracciavano piani sempre più confusi e disperati mentre tutto attorno a lui si complicava senza possibilità di appello. Semplificare le cose non era il suo lavoro e non lo avrebbe fatto, è uno dei concetti fondamentali di Dispacci, indubbiamente un pilastro della nonfiction di guerra. La solitudine di Herr, la sua estraneità lo hanno trasformato nella prima voce sincera da un conflitto. La sua libertà di movimento lo ha fatto entrare in contatto con quel sistema di rivoli e ruscelli che correvano lontano dai fiumi di grande portata, percorsi dai freelance e dai pazzi furiosi che non avevano di meglio da fare che rischiare la pelle. È strano come col tempo il termine freelance sia passato attraverso varie definizioni, fino a mescolarsi indissolubilmente prima con la pazzia, poi con un sorta di dignitosa disperazione che alla fine si è risolta in una condizione di democratica normalità.
Man mano che le redazioni si andavano svuotando e che il mondo si andava rimpicciolendo, anche per i corrispondenti cambiavano le abitudini. Gli anni Ottanta sono stati un periodo d’oro, ma viaggiare si era fatto più facile e non c’era così tanto bisogno del coraggio da prima linea per osservare il resto del mondo. Christopher Hitchens è probabilmente il primo esempio di come il periodo stesse cambiando le regole. La sua estraneità apparteneva a un ambiente che conosceva bene, ma che non riconosceva più. La sua curiosità si rivolgeva a un sistema politico che riteneva lontano da sé e che per questo meritava di essere analizzato e smontato pezzo per pezzo, con quella ferocia che Fallaci aveva deciso di applicare all’universo dorato di Hollywood e Herr all’inferno patinato del Sud-Est asiatico. La sua solitudine era quella di un elemento isolato in un sistema che si preparava a confrontarsi con un declino rapido quanto incomprensibile. I corrispondenti di guerra osservavano i missili sfrecciare dalle terrazze degli alberghi, mentre quelli di pace combattevano una guerra tutta loro. Hitchens ha affilato le lame sul New Statesman per poi passare al Nation e chiudere troppo presto su Vanity Fair e Slate.
Quello che è successo dalla metà degli anni Novanta in avanti è difficile da descrivere. Poche settimane fa, sessanta membri della redazione del New Republic hanno presentato all’editore le proprie dimissioni da una delle testate riconosciute come più universalmente autorevoli, sia in ambito politico che culturale. Chris Hughes, ragazzo prodigio e proprietario del giornale, aveva esposto il piano di trasformare il periodico in una sorta di start-up digitale, semplificata e abbordabile. Negli uffici del giornale di Washington erano passati e stazionavano cronisti e analisti della stessa generazione e della stessa pasta di Herr, Hitchens e Fallaci. Cresciuti con l’etica della curiosità e della solitudine, abituati ad approfondire qualsiasi argomento quanto più possibile per portarne alla luce i fondamentali, che sono l’unica cosa che dovrebbe importare a chi si propone di informare e chiarire. La vicenda del New Republic è l’ultimo chiodo sulla bara di un giornalismo che non esiste più. È l’accettazione di un’epoca in cui i reportage sono diventati pezzi di intrattenimento, buoni ad accrescere l’ego di autori più grafomani che curiosi, in cui la solitudine è inaccettabile perché prelude all’oblio, in cui la semplificazione è un dato di fatto e non più un’opzione. Essere liberi di scovare e proporre è diventato doloroso e il pretesto per esagerare la propria condizione: accettare tutto o arroccarsi sulle proprie convinzioni fino a smettere di lavorare.
Allo stesso tempo siamo diventati tutti corrispondenti, soli e curiosi per la necessità di chi non è capace di fare molto altro. Siamo condannati a inseguire tutte le opportunità e non abbiamo tempo per costruire le storie, per cui ci troviamo a cucire assieme il lavoro di chi è passato prima di noi. È tutto a portata di mano, è vero, ma è anche tutto talmente generico e globalizzato da mancare di autenticità. La curiosità si soddisfa nel giro di pochi click e il fatto di trovarsi lontani dalle redazioni non è che una connotazione geografica, che non stupisce più di tanto né fa veramente la differenza. L’informazione segue i sentieri della semplicità e i lettori scelgono da sé a quale realtà credere. I giornali non chiudono, cambiano e smettono di essere giornali per diventare portali, piattaforme, motori. I giornalisti sono costretti a cambiare con loro, senza perdere l’estraneità e augurandosi un giorno di trovarsi soli. Soli e isolati, solo così potranno tornare a essere determinanti, volesse anche dire dover concludere con una citazione: «Io da qui vedo la fine, non è neanche male».