La vera flessibilità che manca nel Jobs Act

La vera flessibilità che manca nel Jobs Act

C’è una flessibilità che non è entrata nel Jobs Act, e che pure farebbe bene al nostro rigido mercato del lavoro. All’estero si chiama smart working, in Italia lo traduciamo come “lavoro agile”. Consiste nella riorganizzazione dei modelli di lavoro, grazie soprattutto all’aiuto di computer, tablet e smartphone. Ma lo smart working è più di un progetto di innovazione tecnologica. La trasformazione principale è mettere in discussione i soliti stereotipi su luoghi, orari e strumenti di lavoro, permettendo alle persone di lavorare da casa, dal bar, dal parco o dallo spazio di coworking che preferiscono, in modo da raggiungere un miglior equilibrio tra lavoro e vita professionale. E anche una maggiore produttività. Da misurarsi, attenzione, non sulle ore passate a poltrire dietro a una scrivania, come molti dirigenti italiani pensano, ma sulla base del raggiungimento di specifici obiettivi.

Ed è questa la parte più difficile: cambiare la testa dei manager italiani. «Il principale fattore di resistenza è lo stile di management italiano, che si caratterizza per il desiderio di controllo a vista del personale, per il pregiudizio dell’incapacità delle persone di darsi degli obiettivi, ma soprattutto per l’incapacità degli stessi capi di programmare le attività», spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Il risultato, in base all’ultima rilevazione dell’Osservatorio, è che nelle piccole e medie imprese italiane la flessibilità nell’orario di lavoro è prevista solo nel 25% dei casi, ma solo il 10% nella sostanza la offre a tutti i dipendenti. Va ancora peggio per il telelavoro, presente nel 20% delle imprese, ma concesso a tutto il personale solo nel 2% dei casi. Per le grandi aziende, la situazione migliora: la flessibilità nell’orario di lavoro è circa il triplo delle pmi e il telelavoro è quasi il doppio. «Ma non è una questione di dimensione d’azienda», specifica Corso. «Nelle piccole aziende italiane si registra un gap che è più di natura culturale. Di per sé lo smart working non richiede grandi dimensioni ma una buona visione e competenza interna che le pmi in Italia in media non hanno. Tant’è che le nuove startup innovative, ache piccolissime, sono l’emblema dello smart working, perché da sempre lavorano così». E non è neanche una questione di settore. La vulgata comune è che il lavoro agile sia applicabile solo ai servizi, ma non è così. «Il settore manifatturiero verrà profondamente rinnovato dagli approcci smart», dice Corso. «Esistono già degli esempi. Come Tetra Pak, che pur avendo una catena di montaggio per la produzione, è riuscita ad applicare la flessibilità per organizzare i turni. E anche gli operai possono decidere di passare alcuni giorni al mese a casa, con la possibilità di autocertificarsi gli straordinari».

Certo, se cambiare le teste è la fase più ardua, applicare lo smart working richiede anche un investimento tecnologico e sulla riorganizzazione degli spazi. Non è un caso, forse, che siano proprio i grandi nomi a eccellere nelle iniziative del lavoro agile. Unicredit, ad esempio, ha reso più smart il lavoro con il trasferimento nel nuovo grattacielo a Milano, non destinando una scrivania a ogni dipendente e ricavando così un risparmio degli spazi rispetto al passato che varia dal 30 al 50 per cento. «Con un risparmio del genere», commenta Corso, «ti ripaghi pure gli investimenti tecnologici».

La differenza di produttività tra il lavoro a casa e quello in ufficio va dal 15 al 40%. Ma l’ostacolo maggiore è la mentalità del management italiano

La prima cosa da rivedere sono proprio gli uffici. Il classico modello diviso in stanze è quello più costoso, con una minore efficacia anche in termini di collaborazione tra i lavoratori. L’open space è apparentemente più economico, ma anche qui gli spazi vengono occupati molto meno di quanto si pensi (40-50%) e per la metà del tempo le scrivanie restano vuote. «Sono organizzazioni inefficienti», dice Corso. «Bisogna dare alle persone la possibilità di lavorare nel posto più efficace dal punto di vista della produttività, compresa casa propria, riorganizzando invece gli spazi di modo che ci siano più luoghi dedicati alla collaborazione e altri dedicati alla concentrazione». Secondo l’Osservatorio Smart Working, circa un terzo dei dipendenti ritiene infatti che una percentuale significativa delle proprie attività, mediamente intorno al 40%, potrebbe essere svolta al di fuori della sede di lavoro. Senza incrinare la produttività. La soluzione migliore è che le scrivanie vengano condivise, riducendo quindi anche i costi.

È quello che, ad esempio, ha fatto anche American Express. Prima nel Regno Unito, poi in Italia, dove ha 1.200 dipendenti, per il 70% donne, con una età media di 33 anni. Il progetto Blu Work, premiato dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, è partito a inizio 2014 proprio da una analisi dello spazio. «Nelle nostre sedi», spiega Rosa Santamaria, responsabile delle risorse umane di American Express, «solo il 70% dello spazio era occupato, il 30% restava libero. Le persone, impegnate tra meeting e riunioni, sfruttavano le scrivanie solo per la metà del tempo. Gli spazi inutilizzati erano quindi uno spreco, anche dal punto di vista dei consumi energetici». Da qui è nata una riorganizzazione del modello lavorativo, suddividendo i lavoratori in quattro gruppi. Ci sono quelli che lavorano completamente da casa – gli addetti al call center e ai servizi per i clienti – circa 50 di persone, per le quali è stata ricreata una postazione lavorativa con tanto di norme di sicurezza (incluso l’estintore) nelle abitazioni private. E poi ci sono gli hub, coloro che lavorano prevalentemente in ufficio e che necessitano di una postazione tutta per loro. Per tutti gli altri, i venditori che stanno prevalentemente fuori dall’azienda, e quelli che necessitano di un’interazione frequente con i colleghi ma non di uno spazio di lavoro definito (più dell’80% della popolazione aziendale), le scrivanie non sono fisse. Ma vengono occupate a rotazione con un sistema di prenotazione dello spazio online. Ognuno prima di andare via lascia libera la scrivania che ha occupato quando gli è stata utile. E l’azienda ha messo a disposizione degli armadietti dove conservare computer, agende ecc. Chi non riesce a trovare una scrivania singola libera, utilizzerà i tavoli comuni. «In questo modo una persona ha la possibilità di sedersi anche vicino a colleghi con i quali in genere non si lavora», dice Santamaria. In più «abbiamo moltiplicato le aree comuni, puntando molto sui colori delle stanze e su un ambiente innovativo e moderno, così come richiedono le esigenze dei nuovi lavoratori». Ma la cosa più importante, ammettono da American Express, «è stata una riorganizzazione della cultura aziendale che ha coinvolto tutti i ruoli su tutti i livelli e che si concretizzerà soprattutto nello spostamento in una nuova sede». L’investimento, è chiaro, è stato cospicuo (dall’azienda non dicono quanto). «E il primo anno di certo non si risparmia a sufficienza da coprire i costi», dice Santamaria. «I risultati si vedono sul lungo termine, anche grazie a una maggiore attrattività e alla possibilità di assumere persone anche dove non abbiamo sedi fisiche, com’è accaduto per la Sicilia».

Flessibilità oraria, riorganizzazione degli spazi e un maggiore utilizzo degli strumenti digitali potrebbero far risparmiare alle aziende italiane 37 miliardi di euro

Con la nuova organizzazione, la produttività non ne ha risentito. «Anzi, in molti casi è aumentata. Abbiamo solo dovuto richiamare in sede una persona», racconta Santamaria. «La cosa importante è stabilire quali sono le regole, definendo prima le priorità e gli obiettivi». Ma non è stato tutto così semplice. «La legislazione sul lavoro italiana è complicata e prevede una serie di clausole sulla salute e la sicurezza da rispettare anche nelle postazioni da casa. Poi in Italia c’è una carenza di infrastrutture tecnologiche. Il livello di banda non è uguale in tutta Italia, quindi per ad alcuni che volevano lavorare da casa abbiamo dovuto dire di no». E anche con i sindacati non è stato semplice. «In un momento di carenza di lavoro non avere una scrivania fissa può essere interpretato come “mi tolgono il lavoro”. È stato un percorso lungo far capire che puntavamo alla realizzazione degli obiettivi e non al monte ore lavorativo. Alla fine si sono resi conto che il beneficio per i lavoratori è grande, soprattutto per chi deve conciliare il lavoro con la famiglia. Si risparmia tempo non dovendo affrontare sempre gli spostamenti da casa al luogo di lavoro, e in più si risparmiano anche soldi».

A Milano, il 6 febbraio 2014 si è tenuta la Giornata del lavoro agile, con la partecipazione di 104 enti e aziende milanesi, per un totale di oltre 5mila lavoratori. L’esperimento ha mostrato tutti i vantaggi dello smart working: ogni lavoratore ha risparmiato circa due ore della propria giornata lavorativa che invece avrebbe impiegato per spostarsi da casa all’ufficio e viceversa, il traffico si è ridotto e anche l’inquinamento dell’aria. Nonostante i risultati positivi, però, la proposta di legge sullo smart working presentata all’inizio del 2014 è rimasta ancora una proposta. E anche il Jobs Act, commenta Mariano Corso, «parla di flessibilità del lavoro solo dal punto di vista contrattuale e non lavorativo. Poteva essere un’occasione e invece si è puntato solo su una maggiore flessibilità nei licenziamenti».

Eppure rendere agile il lavoro, potrebbe essere utile alle aziende anche in termini economici. Secondo i calcoli fatti dll’Osservatorio del Politecnico, flessibilità oraria, riorganizzazione degli spazi e un maggiore utilizzo degli strumenti digitali potrebbero far risparmiare alle aziende italiane 37 miliardi di euro: 10 miliardi di risparmio dei costi diretti, più 27 derivanti da un incremento della produttività del 5,5 per cento. «La differenza di produttività», spiega Mariano Corso, «tra i giorni passati lavorando a casa e quelli passati in ufficio varia dal 15 al 40% di maggiore produttività stando a casa. In teoria in ufficio ci vorrebbero quattro setting diversi per la concentrazione, la collaborazione, la comunicazione e la contemplazione. Tutto questo è disatteso dalla organizzazione tradizionale degli spazi, che quindi si rivelano inefficienti». E anche i vincoli di orario «dovrebbero essere rimossi. Se la prima parte del lavoro al mattino la faccio da casa, ad esempio, posso andare in ufficio alle 11 senza prendere la tangenziale nel pieno del traffico». Insomma, «è semplice e anche gli ostacoli tecnologici possono essere superati. Basti pensare a quello che ha fatto la Provincia autonoma di Trento: per superare le difficoltà di Rete, nelle valli hanno creato degli hub con uffici pubblici cablati dove recarsi per lavorare anziché arrivare fino a Trento. Oggi chi vuole grazie allo smart working può ottenere grandi risultati».  

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