Ogni Paese ha la migrazione che si merita. In entrata e in uscita. Se sei in recessione, con un tasso di disoccupazione che sfiora il 13% e un laureato su quattro è senza lavoro, è normale che tutto questo influenzi gli spostamenti delle persone. Che vanno, com’è ovvio, dove si sta meglio. Non a caso, gli immigrati che arrivano in Italia alla ricerca di migliori condizioni di vita diminuiscono, quelli che erano già arrivati tendono a spostarsi di nuovo verso Paesi che stanno meglio di noi, e come loro fanno molti italiani, i cosiddetti cervelli in fuga. D’altronde, la libertà di movimento è uno dei valori fondanti dell’Unione europea, ancora scarsamente sfruttata rispetto ai cugini americani. Il problema è che i cervelli in entrata verso l’Italia, italiani e stranieri, sono una rarità. Per dirne una, Cipro e Lettonia, per i talenti di tutto il mondo sono più attraenti di noi.
Forse non dovremmo stupirci, allora, se secondo gli ultimi dati Istat, nel 2013 82mila italiani e 44mila stranieri (+20 e 14% rispetto al 2012) hanno cancellato nome e cognome dall’anagrafe italiana per riscriverli in una straniera, senza contare quelli che partono non compilando carte bollate. Nel 2012 avevano fatto la stessa scelta poco più di 100mila persone tra italiani e stranieri residenti, circa 20mila in meno. Le destinazioni principali, guarda un po’, sono Paesi che offrono opportunità e possibilità di vita migliori o solo anche più semplici da realizzare: Regno Unito (13mila emigrati), Germania (oltre 11mila), Svizzera (circa 10mila), Francia (8mila), Stati Uniti (5mila). Che poi sono anche tra i Paesi più competitivi al mondo secondo il World Economic Forum, classifica nella quale l’Italia è solo al 49esimo posto su 144. Pochi, pochissimi, di quelli che partono ritornano poi sui propri passi per passare dall’apice a metà classifica. Nel 2013 l’Istat ha registrato solo 28mila rientri, mille in meno rispetto all’anno precedente: 4mila dalla Germania, quasi 3mila dalla Svizzera e circa 2mila da Regno Unito e Stati Uniti.
Gli italiani che vanno via dall’Italia si trasferiscono, guarda caso, nei Paesi che offrono più opportunità di noi: Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia, Usa
Chi se ne va dall’Italia? Soprattutto quelli che hanno tra i 20 e i 45 anni, cioè in un’età a cavallo tra la conclusione degli studi e l’età lavorativa adulta. La media d’età dell’emigrato italiano è di 34 anni, che potrebbe voler dire che a restare in Italia ci si prova pure per un po’ di anni, ma poi a un certo punto si molla. Non a caso c’è anche un sindaco sardo, in provincia di Cagliari, che ai disoccupati che vogliono trasferirsi all’estero ha deciso di pagare (spesa messa nel bilancio del comune) un corso d’inglese, un biglietto aereo di sola andata e le prime spese di vitto e alloggio. Alcuni ragazzi del paese che per anni avevano cercato invano di essere autonomi, dividendosi tra lavori a ore e periodi di disoccupazione, ora hanno già trovato un impiego tra Inghilterra, Francia e Germania e sono partiti (con i soldi pubblici).
Di quelli che mollano, in media il 31% ha una laurea: chi ha il pezzo di carta in valigia si sposta soprattutto verso Regno Unito (3.300), Svizzera (2.300) e Germania (1.900). Nel 2013, mentre oltre 19mila italiani laureati attraversavano il confine in uscita, solo 6mila connazionali laureati facevano il percorso inverso.
Non solo. Dall’inizio della crisi in poi, l’Italia attrae anche meno cittadini stranieri rispetto al passato. Colpa di un mercato del lavoro ingessato, le immigrazioni sono passate da 527mila unità nel 2007 ai 307mila del 2013, di cui 279mila stranieri, il 13,2% in meno rispetto all’anno precedente. I permessi di soggiorno per lavoro si dimezzano di anno in anno: erano 350mila nel 2010, si sono ridotti a 67mila nel 2012. E la disoccupazione tra gli immigrati presenti in Italia in sette anni si è quasi quadruplicata.
In base al Global Talent Competitiveness Index, non a caso, l’Italia si trova solo al 36esimo posto, sotto Qatar, Cipro e Lettonia, a pari punteggio con la Malesia. Una posizione risultato della scarsa capacità di attrarre talenti (79esimo posto), unita però a una migliore capacità di farli crescere (33esimo). I problemi principali sono la bassa “apertura verso l’esterno”, la limitata mobilità sociale (77esimo posto), la scarsa occupazione femminile (68esimo posto), il digital divide e le basse competenze linguistiche, matematiche e sociali dei nostri diplomati, che fanno dell’Italia un posto poco attraente per i talenti di tutto il mondo. Non solo: l’Italia risulta scarsamente tollerante per le minoranze e poco attenta alla formazione professionale (91esimo posto su 103!). Ai primi dieci posti, i soliti noti: Svizzera, Singapore, Danimarca, Svezia, Lussemburgo, Olanda, Regno Unito, Finlandia, Stati Uniti, Islanda. La Germania è al 16esimo posto, la Francia al 20esimo.
Abbiamo l’immigrazione che ci meritiamo: così come i laureati italiani sono pochi, l’Italia è incapace di attirare laureati stranieri
Il risultato è che abbiamo l’immigrazione che ci meritiamo, appunto. In Italia, l’immigrato è una persona con un livello di istruzione basso, occupato in professioni poco qualificate e mal retribuite. Un’immagine che, come dimostra una recente ricerca della Fondazione Leone Moressa, non fa altro che rispecchiare la fotografia degli italiani stessi: l’incidenza dei laureati nel nostro Paese è del 14,9%, nettamente inferiore alla media europea del 25,4%, e così anche i laureati stranieri sono solo il 9,5%, molto indietro rispetto alla media Ue del 24,4 per cento. Tra il 2007 e il 2013, poi, mentre in Europa la percentuale dei laureati stranieri è aumentata di oltre il 5%, in Italia e in Grecia, tra i Paesi che più hanno sofferto della crisi, è invece diminuita dell’1,2 e dello 0,4 per cento. Nello stesso periodo, i laureati stranieri, compresi quelli italiani, si sono concentrati in Paesi come il Regno Unito, dove sono aumentati di oltre 20 punti, per raggiungere il picco del 47,8% sul totale della popolazione immigrata. Lo stesso vale in altri Paesi che hanno livelli di istruzione più alti di noi. Per fare un paragone, in Germania, dove i laureati autoctoni sono il 25,8%, gli stranieri con un livello di istruzione alto sono il 19,8%. In Spagna la proporzione è di 32,4% per gli autoctoni e 21% per gli stranieri, in Francia 29,2% di autoctoni contro il 24,4% di stranieri.
Come spiegano i ricercatori della Fondazione Leone Moressa, «le dinamiche migratorie generalmente riflettono la situazione interna: i Paesi con alti livelli di istruzione della popolazione autoctona presentano anche una popolazione straniera maggiormente qualificata come il Regno Unito e la Svezia. In Italia, invece si registra una percentuale molto bassa sia di laureati stranieri che di autoctoni: il 50% degli stranieri nel nostro Paese ha un titolo di studio basso e solo il 9,5% è laureato». I migranti laureati, insomma, quando possono farlo, non scelgono l’Italia come meta di destinazione.
I dati sono confermati dall’Ocse: per la bassa percentuale di immigrati con livelli alti di istruzione l’Italia si contende l’ultimo posto in Europa solo con la Slovenia. Sarà forse perché da noi anche gli stranieri laureati finiscono per rivedere le proprie aspettative al ribasse facendo lavori poco qualificati. In base ai dati Eurostat 2013, ben il 29% degli stranieri è impiegato in un’occupazione elementare (rispetto al 7% degli italiani), il 52,9% lavora come operaio specializzato in agricoltura, pesca, lavori artigianali, o come conduttore di impianti e macchinari. Il 13% svolge mansioni impiegatizie o di addetto alle vendite, e solo il 5% occupa una posizione “apicale”. Neppure uno su dieci, tra gli stranieri diplomati o laureati, svolge un lavoro qualificato. Più di 4 stranieri su dieci sono sovraistruiti, cioè impiegati in mansioni che richiedono competenze inferiori rispetto al titolo di studio, percentuale che fra le donne sfiora il 50 per cento.
Non è un caso che anche gli stranieri stiano cominciando ad andare via, spostandosi verso altri Paesi. Gli ultimi dati Istat parlano di 44mila stranieri che nel 2013 hanno lasciato l’Italia. Ma i numeri potrebbero essere più alti, perché non tutti prima di partire si cancellano dall’anagrafe italiana. «Il censimento del 2011 ha ridimensionato di oltre 800mila unità la presenza straniera censita in Italia rispetto a quella iscritta in anagrafe», spiega Alessio Menonna, ricercatore della Fondazione Ismu, «e ciò soprattutto per le mancate cancellazioni dai registri anagrafici, dal 2001 in poi, di molti dei migranti che hanno lasciato l’Italia. L’Istat ha ricostruito una stima della serie storica degli effettivi stranieri cancellati per l’estero nel decennio intercensuario: a partire da 70-80mila nei primi anni fino a massimi effettivi di circa 200mila negli ultimi anni, a fronte di valori “non corretti” di al massimo poche decine di migliaia di unità all’anno. Nuovamente nel 2012 e nel 2013 sono segnalati numeri Istat di circa 40mila cancellazioni anagrafiche annue: applicando gli stessi fattori correttivi di un decennio fa possiamo ipotizzare che in realtà gli stranieri residenti che hanno lasciato l’Italia siano stati in realtà 250-300mila all’anno». Qualcuno torna anche nel proprio Paese d’origine tramite il ritorno volontario assistito: secondo l’Ismu, si è passati da 228 persone accompagnate al ritorno nel 2009 ai 2mila previsti entro giugno 2015, per un totale di 3.219 persone negli ultimi sei anni.
Gli stranieri che hanno lasciato l’Italia sono stati 250-300mila negli ultimi anni
«L’Italia è un Paese che attrae sempre meno il capitale umano straniero, è un Paese in cui gli Italiani – che già da tempo sono residenti all’estero – iniziano a non voler tornare e soprattutto è un Paese che lascia – sempre più frequentemente – che i propri giovani vadano a cercare fortuna altrove», ha detto Maria Cristina Perrelli Branca, project manager di Nomisma, commentando gli ultimi dati Istat sulle migrazioni (“Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente”). «Se è vero che, al momento, il saldo migratorio netto con l’estero continua ad essere positivo – riuscendo a più che compensare il saldo naturale negativo del Paese – occorre comunque prestare attenzione al fatto che, come sottolinea l’Istat, ciò avviene in misura via via decrescente. Viene dunque da chiedersi: cosa succederebbe al nostro sistema Paese se, nel lungo periodo, perdesse del tutto la sua capacità attrattiva nei confronti degli stranieri? Gli effetti sulla struttura demografica e sul sistema socio-economico nazionali sarebbero tutt’altro che trascurabili». Un esercizio di simulazione Nomisma lo ha fatto sull’Emilia Romagna. Cosa accadrebbe entro il 2020 alla regione in un’ipotesi di assenza di movimenti migratori? Lo scenario è apocalittico: nella riviera romagnola quelli con i capelli bianchi sarebbero più di tutti gli altri. In sette anni la popolazione regionale si ridurrebbe del 3%, a fronte della crescita dell’11%, registrata fra il 2003 e il 2013, dovuta quasi interamente alla componente straniera. Rispetto a oggi l’incidenza della popolazione ultra settantacinquenne aumenterebbe di più di un punto percentuale, arrivando al 13% e l’indice di vecchiaia sfiorerebbe il valore di 190, segnando la presenza di 190 anziani ogni 100 giovani.