Velluto a coste, lo sguardo di un malinconico che medita furbizia, travestiti, pulsioni sessuali deviate e un cappello da strillone di due secoli fa. È qualcosa che si adatta bene al giallo/rosso/marrone di Brooklyn in autunno, ma anche all’inverno senza foglie e senza neve del midwest. È qualcosa che ha l’aria di venire dal basso e di puntare in alto, che — anzi — sta già compiendo questo processo da molti anni e che di tanto in tanto tira la testa al di sopra della superficie per prendere una boccata d’ossigeno e poi torna giù, a godersi quel sotto-universo di librerie indipendenti e leggende metropolitane, bar che servono solo costosissimo caffè biologico e idee di totalitarismo abbigliativo buone per un regime dittatoriale asiatico.
Jonathan Ames è famoso per varie ragioni: la sua passione sfrenata per il corduroy, che lo ha incoronato a re del velluto a coste e presidente onorario di almeno due associazioni che si fregiano dell’onere di promuoverne l’uso esclusivo. Il suo interesse occasionale per le deviazioni sessuali, che lo ha portato a vagare per New York e parte della California alla ricerca dell’amore vero, compilando taccuini da cui sono usciti almeno tre romanzi e qualche decina di racconti. Il suo essere piuttosto eccentrico. Qualcuno si ricorda di averlo visto urlare a squarciagola e torso nudo, in una fredda serata di novembre nel centro di una libreria di Cobble Hill. Qualcun altro sa che per pagarsi i primi anni di scrittura ha lavorato come tassista e ha mandato a monte più di un turno di notte a causa le sue velleità artistiche. Altri ancora lo hanno conosciuto quando hanno scoperto Bored to Death, una serie prodotta da HBO e andata in onda per tre stagioni dal 2009, tratta da un suo racconto e nella quale il ruolo di Ames era coperto da un sempre-alienato e molto fedele Jason Schwartzman — se il nome non vi dice niente, c’è l’intera filmografia di Wes Anderson a disposizione. Da uno dei suoi primi romanzi, The Extra Man — tradotto in Italia da Gioia Guerzoni come Io e Henry, Einaudi Stile Libero, 2007 — è stato tratto un film passabile con Kevin Kline e Paul Dano. L’impressione, con Ames, è che tutto quello che ha scritto lo abbia fatto davvero: il pugile, l’accompagnatore per anziane (definizione di “extra man”: colui che a una cena di anziani di ceto sociale sostenuto, siede tra due signore per scongiurare la sconveniente rottura dello schema uomo/donna/uomo/donna, laddove è noto che gli uomini vivono meno delle donne e statisticamente probabile, dunque, che se ne trovino meno alle cene), l’insegnante di liceo, il guardone. L’impressione è che qualsiasi cosa abbia in mente prima o poi finisca per farla e che tutte gli vadano bene, in un modo o nell’altro.
Ha passato periodi da spiantato, con un conto in banca che si aggirava attorno agli ottocento dollari nel momento di più grande opulenza e un debito di circa trentamila dollari presi a credito. Poi è diventato il pupillo delle star, che si concedeva giri in bicicletta per Vinegar Hill con Zach Galifianakis e Ted Danson e saune russe con Schwartzman. Lo scrittore esibizionista con le nevrosi di Woody Allen e l’entusiasmo per la vita di Franz Kafka. L’uomo di Brooklyn, il trapiantato a Los Angeles, il vecchio granchio in ritiro e l’anima della festa. È stato tutto assieme e niente è riuscito a cambiarlo.
«Ho scritto un sacco di cose diverse», mi ha detto incanalando tutta la sua attenzione sfuggente fuori dal muro alle mie spalle. «Ho scritto molti saggi, nonfiction nella quale sbatto le “vere” storie della mia vita. Però sono cose fatte per essere lette, linee guida che mi servono per salire su un palco e raccontare. Ogni volta che recito quello che ho scritto, aggiungo qualcosa di nuovo, perché magari ci sono particolari dei quali la volta precedente mi ero scordato, o qualcosa che non mi sembra più molto appropriato». Ecco, “appropriato” è un concetto elastico, nel vocabolario di Ames. Ogni tanto il ragionamento segue i binari del buongusto e tutto scorre ben oliato verso il suo naturale evolversi. Altre volte decide di prendere qualche scorciatoia attraverso il morboso e generalmente lo fa con un cambio di direzione repentino, inaspettato. Devia lungo i rimasugli della sessualità giovane e impacciata che popolava i suoi primi libri per ottenere un risultato sorprendente. Potente ed estremamente comico, come la sua scrittura. «Ho messo “vero” tra virgolette perché sono un autore e qualche volta esagero. Non so quale sia la mia natura di scrittore. Lo so da consumatore del mercato dell’intrattenimento. Ecco:
1. Niente mi dà il piacere di un buon romanzo. È la cosa che in assoluto amo di più: leggere romanzi. Ma ne ho scritti pochi (Sveglia, sir! e Veloce come la notte, tra gli altri, entrambi Baldini&Castoldi)
2. Non guardo quasi mai la televisione e nemmeno i film. Ma ho scritto una serie tv, ho partecipato alla stesura di un film e ogni tanto faccio qualche comparsata
3. Non leggo racconti (se non raramente). Ma ne ho scritti molti (raccolti in Non sei mai stato qui, Baldini&Castoldi, tra gli altri)
4. Non leggo saggi (se non raramente). Ma ne ho scritti molti (raccolti in La doppia vita è bella il doppio e Nemmeno immagini quanto ti voglio bene, Baldini&Castoldi, tra gli altri)
5. Amo i romanzi con tutto il cuore. L’ho già detto, ma lo ripeto».
Quella di Ames è la storia di un uomo che ha una serie di fissazioni, ma una talmente forte da fare da collante per tutte le altre: «Volevo scrivere e ho scritto. È l’unica cosa che so fare e non mi sono mai dato per vinto, ho continuato a provare. Cercavo di scrivere libri, articoli, soggetti teatrali e per farlo avevo bisogno di esperienze, così me le sono andate a cercare. Ci credi se ti dico che non saprei fare nient’altro? Non ho nessun altro talento se non quello di scrivere. Ho vissuto e scritto, poi vissuto ancora poi scritto ancora». Vivere e scrivere. C’è un libro in particolare, si chiama What’s Not to Love?: the Adventures of a Mildly Perverted Young Writer, che incarna il concetto che Ames ha di vita e scrittura. Quello che prova, tutto quello che vede, si traduce in pagine di appunti, in sentimento grezzo trasposto su carta. New York, come per molti altri, è stata la sua fortuna. Ha cominciato raccontando una città esaltante, il palcoscenico roboante al centro di quanto rimaneva dell’inferno pre-Giuliani. «Ero un pesce in acquario e l’acquario era tutto il mondo che conoscevo. Eravamo in tanti a New York, per cui dovevi tenere gli occhi bene aperti. Però sono stato fortunato, perché il mio acquario era interessante e alla fine mi ha aiutato. Ad altri non è andata così bene, hanno tentato l’Oceano e si sono persi».
Ora, a distanza di venticinque anni dal suo primo romanzo pubblicato, è un personaggio strano ma non sinistro. Uno di quelli che ti aspetteresti di trovare in giro per la città e che non vedresti bene da nessun altra parte — se non altro perché il velluto a coste lo renderebbe piuttosto riconoscibile in provincia. Ha modificato il tiro, evoluto la scrittura, ma non ha cambiato la sua natura. Vive e scrive e ogni tanto si interessa ad altro. Anche se non la guarda e Bored to Death è finita, gira attorno alla televisione. «Faccio lo show-runner. È un po come scrivere un romanzo, metto la mia visione nel prodotto. La scarico in blocco sopra la serie e poi ci sono altre persone che la limano e la adattano alla loro visione. Poi io ripasso e ci rimetto del mio. Insomma, faccio quello che faccio coi libri, solo che il risultato è visivo e che laddove per scrivere un libro basta una persona e al limite un editor, per fare una serie tv ci vogliono centinaia di persone, tutte dedite alla visione di una sola». Poi si distrae, pensa agli editor. «Non lavorano più come una volta, l’industria a New York è cambiata e non hanno più tempo per stare dietro a un unico autore. Lavoro molto più da solo, adesso», quando recuperiamo il filo, il qualche modo siamo finiti a parlare del futuro. «Non so cosa succederà ai libri. Non la vedo bene, però. Ai bambini non viene più insegnato a leggere come una volta e se non leggi da piccolo, perché dovresti cominciare a leggere da adulto? Non credo che vivrò abbastanza a lungo per vedere la fine dei libri, ma è probabile che sia una forma d’arte che destinata a diventare sempre più rara». La sensazione è che non ci sia mai un momento di riposo, per lui, che tutto viva ancora di quella frenesia degli inizi. Che tacere, fermarsi, significhi morire e vista la profezia: lunga vita a Jonathan Ames.
Quando, qualche giorno fa, ci siamo sentiti per scambiarci gli auguri di buon anno, ha esordito con stupore, come se si fosse appena ricordato di qualcosa che voleva chiedermi ma non ne ha avuto occasione: «Tu come lo vedi?». Cosa? «Il futuro dei libri?». Ci ho pensato troppo a lungo per mantenere la sua attenzione ed è passato ad altro. Però non lo so, Jonathan, prima credevo di avere un’idea, ma la tua domanda ha cambiato tutto.