C’è chi ha annegato il proprio bambino durante il bagnetto perché rifiutava il latte materno. Chi lo ha strangolato perché in lui vedeva il colpevole delle proprie frustrazioni. Chi ha accoltellato la figlia perché il marito abusava di lei. A Castiglione delle Stiviere, a pochi chilometri dal lago di Garda, si trova l’unico reparto femminile dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Gli Opg, quelli che in base all’ennesima proroga del governo dovrebbero chiudere entro aprile 2015. O almeno era l’unica ala femminile fino allo scorso settembre, quando, nonstante il progetto di chiusura, anche nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, hanno destinato alle donne un reparto da 12 posti. Nella struttura mantovana, la sola in Italia in cui le cure mediche prevalgono sulla reclusione di chi affetto da disturbi mentali ha commesso un reato, sette delle 77 donne presenti sono le cosiddette “madri assassine”. “Madri Medea” che hanno ucciso i propri figli in preda a gravi patologie mentali, dalla depressione alla psicosi, dai disturbi della personalità alla schizofrenia, fino ai disturbi paranoidi. Per essere rinchiuse tra le mura di Castiglione ci devono essere tre condizioni:che siano state dichiarate totalmente incapaci di intendere e di volere e giudicate socialmente pericolose, e che sia stato stabilito un nesso causale tra la malattia e il reato. Diverso è invece il destino di chi ha ucciso con lucidità: in quel caso si aprono le porte del carcere.
Da qui, a Castiglione, sono passate tante donne accusate di figlicidio. Compresa quella Annamaria Franzoni, la madre di Cogne, che nella struttura mantovana è solo passata per poco tempo per poi essere ritenuta capace di intendere e di volere e condannata in via definitiva per l’omicidio del figlio Samuele. Da poco ha varcato le porte di Castiglione ancheDaniela Falcone, 43 anni, di Rovito, in provincia di Cosenza, che il 1 marzo scorso ha accoltellato il figlio di 11 anni, e poi ha trascorso la notte tra le montagne, in auto, accanto al corpo del suo bambino. C’è pure Edlira Dobrushi, di origini albanesi, che lo scorso marzo a Lecco ha ucciso le tre figlie di 14, 10 e 3 anni. E a Castiglione, se ritenuta colpevole e incapace di intendere e di volere al momento dell’assassinio, potrebbe finire Veronica Panarello, la mamma di Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa, indagata per la morte del figlio Loris. E anche Natalia Sotnikova, la 39enne russa che a Bordighera, Imperia, si è gettata in mare con il figlio di dieci mesi nel marsupio facendolo morire annegato.
«Delle sette madri colpevoli di figlicidio presenti nella nostra struttura cinque sono straniere», racconta Andrea Pinotti, direttore dell’Opg. «È un dato di cui dobbiamo tener conto. Sono filippine, est europee, sudamericane, donne ben inserite, ma che forse vivevano un malessere legato a una situazione culturale diversa da quella di partenza». A questo si aggiungono poi le patologie. Le diagnosi sono diverse. «Non c’è una malattia specifica per chi ha ucciso il proprio figlio», spiega Cristina Benazzi, dirigente medico dell’Opg. «Tra le nostre pazienti ci sono casi di patologie dello spettro psicotico, disturbi della personalità, patologie dell’umore, stati depressivi. Ogni caso è un caso a sé».
Non c’è una diagnosi specifica per chi ha ucciso il proprio figlio. Ci possono essere stati depressivi, disturbi dell’umore o della personalità
Eppure spesso, dopo un evento tragico, si sentono vicini di casa e conoscenti giurare che quella mamma fosse una “mamma speciale” (come dicono in tanti nel caso di Veronica Panarello, la cui colpevolezza però è ancora tutta da decidere) o semplicemente “normale”. «A volte c’è la consapevolezza precedente di queste patologie, a volte no», spiega Pinotti. «Alcune delle pazienti in realtà erano già seguite da psichiatri, ma non sempre si riesce a evitare il peggio. Pensiamo di essere onnipotenti, ma in realtà non lo siamo».
Non sempre c’entra la famosa depressione post partum. «I figlicidi fanno parte della storia dell’uomo», spiega Pinotti. Nella maggior parte dei casi sono donne «che quando i figli diventano più grandi e autonomi mostrano una incapacità al distacco dai propri bambini, oppure donne che vivono male il fatto che il proprio bambino sia diverso da loro. Difficilmente l’infanticidio appartiene alla sfera della depressione post partum. Sono coinvolti molto di più aspetti dell’identità della persona. Non si accetta ad esempio che un figlio possa crescere e sciogliere il nucleo familiare, o che il figlio possa crescere diversamente da come la madre avrebbe voluto». E poi «non è così scontato che una madre debba amare il proprio figlio. Ci sono figli non amati: un figlio non voluto non è amato, un figlio che ha alterato la qualità della propria vita può non essere amato».
Uccidere quello che si è creato, allora, significa «cancellare, togliere, eliminare un problema. Far finta che non esista. Ricominciare, ripartendo da zero, anche se poi non è così». Ma ci sono anche madri che «uccidono ciò che hanno messo al mondo per punire loro stesse», o quelle che uccidono i figli vittime di violenze da parte dell’altro genitore «perché entrano in competizione con i figli stessi, colpevoli delle attenzioni del marito».
La depressione post partum non c’entra sempre. Molte donne uccidono i propri figli quando li vedono diventare autonomi, incapaci di superare il distacco
In base ai fascicoli di nove madri assassine internate a Castiglione delle Stiviere tra il 1999 e il 2009, in tre casi è stato ucciso il figlio più grande, mentre in quattro casi è stato ucciso il secondogenito. In un caso la madre aveva ucciso entrambi i figli, in un altro caso c’è stato il tentativo di omicidio dell’unico figlio. La seconda gravidanza viene descritta dalle donne come indesiderata o problematica, al contrario della prima, raccontata come desiderata da entrambi i genitori. Le motivazioni degli omicidi riportate nelle perizie psichiatriche sono: “L’essere più vicini a Dio”; “Il bambino soffriva troppo”; “Senso di inadeguatezza al ruolo di madre”, “Le figlie femmine non danno problemi mentre i maschi sì”; “Non volevamo una seconda gravidanza”; “Non gli volevo bene”; “Non riuscivo ad andare avanti”. «La gravidanza rappresenta una fase psicologicamente complessa nella vita della donna», scrivono gli psichiatri Nadia Chizzola e Luigi Benevelli. «Oltre alle trasformazioni sul piano biologico, la maternità implica nuovi equilibri riguardo all’identità di coppia e sociale, nonché una ridefinizione dell’identità individuale. Ogni gravidanza mette in discussione gli equilibri precedenti e porta con sé il pericolo di uno scompenso, configurandosi come una fase di potenziale vulnerabilità».
Nell’Ospedale psichiatrico giudiziario queste donne sono sottoposte a «percorsi farmaceutici e psicoterapici», spiega Pinotti, «percorsi di riappropriazione della propria identità e della propria personalità. E poi viene la parte più difficile: l’elaborazione di quello che hanno fatto». Che è talmente forte che alcune donne «negano a loro stesse di essere state capaci di uccidere i propri figli». Così la rielaborazione, a volte, «non si porta del tutto a compimento. È un dramma così forte che arrivare a una piena consapevolezza potrebbe portare a rischi di suicidio, e spesso si preferisce arrivare solo a un certo livello del recupero per evitare ulteriore violenza su loro stesse».
Durante la giornata c’è chi lavora al bar dell’Opg, chi fa le pulizie e sparecchia, ci sono laboratori di falegnameria e tipografia. E alcuni gruppi «frequentano associazioni esterne all’Opg con progetti ben definiti», spiega la dottoressa Benazzi. Nelle ore di pausa, qualcuna cammina su e giù sul prato verde del giardino all’esterno, altre fumano in cerchio attorno ai posacenere.
In genere i rapporti con il marito tendono a sfaldarsi. Ma c’è qualche madre Medea che torna dalla propria famiglia e dai propri figli
Le misure di sicurezza per le donne matricide di solito prevedono dieci anni di reclusione nell’Opg, tra riabilitazione e recupero. «Ma per le donne solitamente le revoche arrivano molto prima con il riesame anticipato della pericolosità sociale delle donne», spiega Andrea Pinotti. «Poche trascorrono effettivamente qui i dieci anni. È più facile riuscire a riportare nel territorio d’origine un paziente di questo tipo anziché altri tipi di pazienti».
Ma cosa succede ai familiari all’esterno? Ai mariti e agli altri figli rimasti oltre le sbarre di Castiglione delle Stiviere? «In genere i rapporti tendono a sfaldarsi», racconta Pinotti. «Solo in pochi casi i mariti sono disponibili a perdonare, a rimettere assieme i cocci dopo l’assassinio del proprio figlio». Alcuni però ritornano nelle case che hanno lasciato dopo l’assassinio, le stesse case dove avevano vissuto insieme a quei figli che loro stesse hanno «cancellato». Ad aspettarle ci sono i mariti e gli altri figli. «Dopo un’analisi approfondita fatta dal medico che segue il paziente per capire cosa è rimasto di quanto ha determinato l’agito», spiega la psichiatra dell’Opg Mariagrazia Missora, «si può richiedere la collaborazione dell’assistente sociale e la cura di altri colleghi fuori che già hanno seguito il caso, in modo da poter effettuare un ritorno e garantire continuità. Molto spesso è un passaggio per gradi, spesso si passa da un contesto meno restrittivo dell’Opg, tipo una comunità, senza ritornare direttamente in famiglia».
È successo di recente a una delle madri Medea affetta da stati depressivi, che a Castiglione delle Stiviere ha trascorso quattro anni dopo aver assassinato suo figlio neonato. «È rientrata nel nucleo familiare più di un anno fa con attorno una rete di protezione», racconta la dottoressa Missora. «Ha una bambina di dieci anni che già le faceva visita quando lei era qui a Castiglione. Sia lei sia il marito rimasti a casa frequentavano una psicologa. E ora la rete familiare e la rete sociale del paese l’hanno perdonata».