Non solo lingua: l’assimilazione forzata in Germania

Non solo lingua: l’assimilazione forzata in Germania

«Era il 2004, mio figlio aveva due anni e frequentava l’asilo nido. Un giorno sono stata convocata dalla direttrice: “Suo figlio ha quasi due anni e ancora non parla, sicuramente perché lei gli parla in italiano”, si lamentava. “Dovrebbe comunicare solo in tedesco con lui”, mi suggeriva in modo perentorio, anche se eravamo in ottimi rapporti, essendo io la presidente del comitato genitori». Marinella Colombo, italiana con un passato di mamma, moglie e professionista in Germania, non è rimasta per nulla stupita di fronte alla proposta avanzata la scorsa settimana dall’Unione Cristiano Sociale (Csu), partito alleato alla Cdu di Angela Merkel. «Le persone che vogliono restare qui (in Baviera, ndr) in modo permanente dovrebbero essere obbligate a parlare tedesco in pubblico e in famiglia», si leggeva sul paper diffuso dal partito di Horst Seehofer, governatore della Baviera e leader della Csu. Niente che lei già non sapesse, appunto. Perché in Germania con gli immigrati ci si è sempre comportati nello stesso modo: «Non interessa l’integrazione, ma solo l’assimilazione», spiega Marinella. Perdere, cioè, la propria cultura per assumere quella dominante. Nonostante questo possa provocare danni ai bambini stessi. 

Laureata in lingue (ne parla perfettamente cinque), un master in Protezione, diritti e tutela dei minori, mamma di due bambini ed ex moglie di un cittadino tedesco, la sua vicenda è stata al centro delle cronache di qualche anno fa, quando la sua causa di separazione è stata complicata dall’intervento dello Jugendamt, l’istituzione che in Germania agisce d’ufficio in tutti i procedimenti che coinvolgono minori (la vicenda è raccolta nel libro autobiografico Non vi lascerò soli, Rizzoli 2012, e nello spettacolo Kindeswohl – Il bene del bambino). Da quel momento Marinella si è impegnata in una lotta volta non solo a riavere i propri figli (che non vede da quattro anni), per tornare a far parte della loro vita, ma anche per salvare altri bambini dal sistema tedesco che attraverso i tribunali, la scuola e le amministrazioni discrimina sistematicamente – ci dice – anche nell’ambito scolastico, i figli dei migranti. Già nel 2007, Vernor Muñoz, relatore Onu, denunciava la scuola tedesca come principale strumento di discriminazione e ghettizzazione dei bambini di origine straniera.

«Lo Stato, racconta ad esempio la Colombo, sottopone i bambini di cinque anni a un test per sapere se saranno abbastanza maturi l’anno successivo, quando dovranno iniziare la scuola. E guarda caso, anche qui, riescono a dire a due genitori napoletani che il bambino ha bisogno del logopedista perché non sa pronunciare il suono della “sc”. Le pare possibile che un figlio di napoletani non sappia pronunciare la “sc” che in napoletano viene utilizzata anche quando l’italiano non la prevede?».

Ma non solo. Il figlio di un migrante rischia di accumulare ritardi, e guadagnare l’esclusione da un certo tipo di formazione e professione (quindi di salario e di classe sociale) anche poco più tardi, in quarta elementare, quando viene sottoposto a un nuovo test. «In quarta, ultima classe delle elementari, viene calcolata per ciascun alunno la media matematica tra i voti di queste tre materie: tedesco, matematica e HSU (Heimat- und Sachkunde, materia per la quale si studia tra l’altro la flora e la fauna del territorio). Sia scritto che orale. In base al risultato, lo Stato decide a quale scuola superiore l’allievo avrà accesso. Quelli con punteggio migliore andranno al Gymnasium, che consente l’accesso a tutte le università. Quelli con voti medi andranno nelle scuole tecniche (Realschule), che permettono l’accesso solo a un ristretto numero di facoltà, mentre gli altri bambini sono destinati alle scuole professionali (Hauptschule). A dieci anni si decide dunque il destino di una persona, senza che la famiglia possa opporsi». Suo figlio maggiore, racconta, nato in Germania e da padre tedesco, è stato messo, fin dalla prima elementare, in una classe per stranieri, anche se erano tutti bambini nati in Germania. «Lui è l’unico che è riuscito ad accedere al Gymnasium». 

«Finché sono stata sposata senza figli, continua Marinella, in Germania non ho avuto nessun problema. Parlavo perfettamente il tedesco, facevo ogni sforzo per adattarmi e integrarmi. Non mi riconoscevano come italiana anche per via del mio aspetto che non coincide con il loro stereotipo del tipo mediterraneo». I problemi sono arrivati alla nascita di Leonardo e Nicolò. «Se uscivo con i miei bambini e mi rivolgevo loro in italiano, lo sguardo della gente cambiava. Succedeva al supermercato, a scuola con le mamme degli altri bimbi ed ogniqualvolta qualcuno ci sentisse». Nella perizia sull’idoneità genitoriale cui è stata sottoposta dallo Jugendamt, Marinella ha letto: «La signora parla italiano con i suoi bambini». «Nessun commento di disprezzo, anzi, mi hanno considerata il solo genitore idoneo, ma allora mi sorprese che la cosa fosse per loro tanto rilevante». 

Il modello tedesco è per Marinella Colombo del tutto disinteressato alla volontà di integrare culture diverse. Anzi. «Riconosce le differenze solo per screditarle e punta solo all’assimilazione nella cultura tedesca». È così da sempre e la recente proposta della Csu non fa altro che «mettere nero su bianco questa opinione». 

In un articolo pubblicato ieri, 9 dicembre, Marinella scrive: «Queste affermazioni sono emblematiche della manipolazione e della distorsione che in terra germanica si riesce a fare di ogni principio. Si parte dalla vera e incontestabile affermazione che l’integrazione passi per la lingua, per arrivare a imporre quanto di più assurdo e inumano si possa pensare, la cancellazione della lingua madre, la lingua dei sentimenti e delle proprie radici. Un uomo senza radici è un uomo senza identità. È un uomo che mai potrà integrarsi, ma verrà facilmente assimilato». 

Il livello di immigrazione in Germania è in crescita soprattutto per i nuovi arrivi dall’Est Europa: Polonia Romania, Bulgaria. Gli stessi migranti che oltre Manica hanno fatto promettere al premier conservatore James Cameron di bloccare o comunque ridurre l’accesso per i migranti comunitari ai sussidi pubblici britannici. 

Ma a rintuzzare la paura per lo straniero è oggi anche la presenza (in Germania come in Gran Bretagna e in molti altri Paesi europei) di nuovi e aggressivi partiti populisti, che nella lotta all’immigrazione hanno un punto programmatico chiave. In Germania, in particolare, è presente Alternative fur Deutchland, partito euroscettico fondato nel febbraio del 2013 da Bernd Lucke.

Secondo alcuni dati diffusi dal Wall Street Journal, la principale comunità di migranti in Germania è costituita dai Turchi, famiglie arrivate per lo più negli anni Sessanta. Ma sono in crescita anche i rifugiati in fuga dalle guerre del Medio Oriente, Siria e Iraq. In tutto, 4 milioni di Musulmani. Tanto che secondo recenti sondaggi, il 27 % dei tedeschi afferma che i musulmani sono più aggressivi degli altri cittadini. Il 20% ritiene che i musulmani non possano avanzare proposte concernenti la sfera pubblica, e il 42% vorrebbe limitare la costruzione di moschee. Ad indebolire la cultura turca ci pensa la legge; ogni anno, denuncia il governo turco, vengono tolti ai genitori turchi residenti in Germania quattromila bambini che vengono dati in affido a famiglie tedesche.

Dentro ogni lingua c’è un mondo, e negare da un giorno all’altro la lingua dei propri genitori, spiega Marinella Colombo, «è negare l’intero mondo degli affetti, è mettere il bambino in una sensazione di incertezza, confusione e crisi di identità».

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